Contenzioso

Efficacia dei «disciplinari» legata ai Ccnl

di Aldo Bottini

Da sempre i contratti collettivi, nella parte che regola i procedimenti disciplinari, contengono una esemplificazione (più o meno dettagliata) di comportamenti considerati disciplinarmente rilevanti, a ciascuno dei quali è ricollegato un determinato tipo di sanzione, dal rimprovero scritto al licenziamento in tronco, passando per la multa e la sospensione.

Si tratta di quelle parti del Ccnl che vengono comunemente affisse nelle bacheche aziendali quale presupposto, ai sensi dell'articolo 7 dello Statuto dei lavoratori, per l'esercizio del potere disciplinare. Tradizionalmente, i giudici hanno sempre utilizzato queste tipizzazioni come riferimento per la valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta contestata, pur affermando la loro non vincolatività. In altre parole, i giudici tengono conto delle valutazioni di gravità dei comportamenti contenute nei Ccnl, pur ritenendosi liberi di discostarsene, anche in relazione alle circostanze del caso concreto.

Questo tradizionale indirizzo giurisprudenziale è stato recepito nel Collegato lavoro (legge 183/10, articolo 30, terzo comma), il quale dispone che «nel valutare le motizioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro (…)».

La riforma Fornero ha attribuito alle previsioni dei contratti collettivi un'ulteriore valenza: non più solo un elemento di valutazione della gravità dei comportamenti, ma anche un criterio selettivo della sanzione applicabile al licenziamento ritenuto illegittimo. Il testo attualmente in vigore dell'articolo 18, infatti, prevede espressamente la reintegrazione nell'ipotesi in cui il licenziamento sia stato irrogato per un'infrazione che il codice disciplinare (di origine contrattuale collettiva o aziendale) sanziona con un provvedimento di tipo conservativo. Con la conseguenza che la valutazione di gravità operata dai contraenti collettivi non vincola il giudice (che deve solo tenerne conto) nel decidere se il licenziamento è legittimo o meno, ma lo vincola invece nella scelta del rimedio applicabile al licenziamento illegittimo.

Alle perplessità teoriche suscitate da tale impostazione si sono aggiunti i problemi applicativi creati dalla genericità della maggior parte delle tipizzazioni dei comportamenti previste dai contratti collettivi. È quindi auspicabile che il governo, nel definire, in attuazione della delega, le specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato che danno diritto alla reintegrazione, elimini ogni riferimento ai contratti collettivi. La parte più delicata del compito che la delega affida al governo è, infatti, l'individuazione del confine tra reintegrazione e indennizzo nei licenziamenti disciplinari. È opportuno che il legislatore delegato assolva direttamente a tale compito identificando con precisione il residuo ambito di applicazione della reintegrazione, senza margini di ambiguità e quindi senza deleghe alle (spesso vaghe) previsioni dei contratti collettivi. Ciò non toglie che queste ultime potranno conservare il loro valore di riferimento (non vincolante) per la valutazione della proporzionalità e, quindi, della legittimità del licenziamento, senza però condizionare la scelta della sanzione da applicare.

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