Contenzioso

Reato penale conguagliare l’indennità di maternità non corrisposta

di Silvano Imbriaci

La Corte di cassazione con sentenza del 24 novembre 2014, numero 48663 stabilisce che la condotta del datore di lavoro che, avendo omesso di corrispondere a proprie dipendenti l’indennità di maternità dovuta, si porti le relative somme denunciate a titolo di anticipazione a conguaglio con l’obbligo contributivo corrente esposto nella denuncia mensile, è penalmente rilevante.

È pur vero che l’obbligato sostanziale per il pagamento di queste somme è l’ente previdenziale, tuttavia, anche per una maggiore comodità del lavoratore, è il datore di lavoro che le anticipa, salvo poi portarsi a conguaglio gli importi con quanto dovuto a titolo di contribuzione corrente. La Cassazione si è sempre interrogata sull’esatto inquadramento, sotto il profilo penale, di questa falsa rappresentazione della realtà da parte del datore di lavoro (l’aver denunciato all’Inps un’anticipazione mai corrisposta).

Secondo la tesi tradizionale la condotta in questione assume i contorni del reato di truffa (articolo 624 II comma del codice penale), in quanto il suo autore pone in essere artifici e raggiri (la fittizia esposizione di somme anticipate) idonei a indurre in errore l’ente previdenziale e a ricavarne un profitto ingiusto, ossia un ingiustificato risparmio sull’onere contributivo corrente (si confronti, per esempio, Cassazione, II sezione penale, numero 42937/2012).

Tale impostazione è stata rivisitata da quella giurisprudenza che invece ha posto l’accento sul fatto che, fermo restando l’obbligo dell’Inps di erogare l’indennità di maternità, la condotta del datore di lavoro in realtà costituisce una forma di appropriazione indebita di somme dovute al lavoratore e che l’Inps per suo conto ha già erogato al datore di lavoro, a tale titolo, assolvendo così compiutamente al proprio obbligo (Cassazione 18762/2013). Manca infatti, per poter integrare gli estremi della truffa, un effettivo danno patrimoniale occorso all’ente previdenziale.

La seconda sezione penale, con la sentenza 48663 del 24 novembre, segue una terza linea interpretativa. Dovendosi escludere la truffa, in quanto effettivamente non pare ravvisabile un danno all’ente previdenziale per effetto della falsa rappresentazione circa l’avvenuta anticipazione, il reato maggiormente aderente alla vicenda pare piuttosto essere quello previsto dall’articolo 316-ter del codice penale (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), norma che punisce con la reclusione (da tre mesi e sei anni), la condotta di chi utilizza o presenta dichiarazioni attestanti cose non vere o omette le dovute informazioni, e in tal modo consegue in maniera indebita agevolazioni pubbliche valutabili economicamente (contributi, finanziamenti, mutui agevolati eccetera).

Tale reato ha il vantaggio, rispetto alla truffa, di non richiedere la presenza di artifici e raggiri, potendo bastare la presentazione di documentazione attestante cose non vere. In questo senso la Corte costituzionale (sentenza 95/2004) ha assegnato all’articolo 316-ter una valenza complementare rispetto al reato di truffa, per tutte le ipotesi in cui manchi una condotta qualificata dall’utilizzo di artifici e raggiri per indurre in errore l’amministrazione, ma vi sia una semplice attestazione di cose non vere.

Sulla stessa linea le sezioni unite della Cassazione (16568/2007) hanno precisato che l’utilità dell’articolo 316-ter sta proprio nel ricomprendere le ipotesi in cui manchino uno o più elementi tipici della truffa (come nel nostro caso, il danno per l’ente previdenziale) e che l’esclusione della truffa, per la condotta in questione, dipende anche dal fatto che l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione della realtà da parte dell’Inps, in quanto l’ente in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione da parte del richiedente (Cassazione 7537/2010).

Ciò non toglie tuttavia che la condotta del datore di lavoro contenga un chiaro disvalore penale, in quanto egli ottiene un vantaggio o un beneficio economico, senza averne diritto, a carico dell’erario e quindi della comunità. Dunque il reato in questione, in una evidente anticipazione della tutela, è integrato dalla semplice presentazione di dichiarazioni o documenti attestanti fatti non veri, ovvero dalla omissione di informazioni dovute, in modo tale che da questo comportamento derivi un indebito vantaggio economico, ossia il risparmio di spesa sulla contribuzione corrente.

Tale condotta, così inquadrata, secondo la Cassazione non può comunque configurare il reato di cui all’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000, che riguarda una ipotesi di indebita compensazione (quindi paradossalmente più aderente alla fattispecie di cui trattasi) che però è limitata all’ambito delle somme dovute a titolo di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

La natura chiaramente tributaria dei crediti portati in compensazione, esclude in radice ogni possibilità di utilizzare questo reato per punire l’indebita compensazione derivante da dichiarazioni non rispondenti al vero relative all’erogazione di prestazioni previdenziali o assistenziali previste a vantaggio del lavoratore.

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