Contenzioso

L'appropriazione di beni aziendali e il rischio di licenziamento

di Angelo Zambelli

Con la sentenza n. 26323 depositata il 15 dicembre 2014, la Suprema corte è intervenuta in merito alla legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato per appropriazione di beni aziendali.
Nel caso di specie, un lavoratore responsabile della manutenzione degli impianti aveva irregolarmente registrato come “impianto fisso” un computer portatile acquistato dall'azienda su sua richiesta, portandolo successivamente presso la sua abitazione, contravvenendo così al divieto di portare fuori dall'ambiente di lavoro beni aziendali senza autorizzazione.

Conseguentemente, l'azienda gli aveva intimato il licenziamento in tronco secondo quanto previsto dal contratto collettivo metalmeccanici, che punisce con il licenziamento senza preavviso il «furto nell'azienda» e il «trafugamento…di utensili o altri oggetti» facenti parte dei beni aziendali.

A seguito della sentenza di primo grado, il dipendente era stato reintegrato e la Corte d'appello, pur ritenendo effettivamente attuato il comportamento addebitato al dipendente, ossia «l'aver portato senza autorizzazione fuori dall'azienda il computer», aveva ritenuto la condotta di scarsa gravità e ravvisato l'assenza di dolo.

In linea con le decisioni dei precedenti gradi di giudizio, la Corte di cassazione ha confermato l'illegittimità del licenziamento, ribadendo il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui le tipizzazioni di giusta causa di licenziamento contenute in un contratto collettivo non vincolano il giudice che deve, invece, procedere ad una valutazione dell'adeguatezza della sanzione alla stregua dei parametri di cui all'art. 2119 del codice civile e, dunque, alla luce delle circostanze del caso concreto.

La sentenza si segnala in quanto, ratione temporis, ha dovuto fare ancora applicazione del vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che lasciava ampia discrezionalità al giudice tale per cui in molti casi, anche a fronte di una pur riconosciuta appropriazione di beni aziendali, e addirittura di coincidenza tra fatto contestato e ipotesi prevista dal Ccnl, il dipendente veniva reintegrato a seguito della ritenuta sproporzionalità della sanzione irrogata.

Nel tentativo di ridurre proprio tale discrezionalità, la recente Riforma Fornero ha modificato l'articolo 18 dello Statuto prevedendo che, nell'ambito dei licenziamenti disciplinari, la tutela reintegratoria debba limitarsi solo ai casi in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per «insussistenza del fatto contestato» ovvero «perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», mentre nelle «altre ipotesi» di accertata illegittimità del licenziamento disciplinare, come ad esempio nel caso in esame, laddove sia ritenuta sproporzionata la sanzione irrogata del licenziamento, debba esservi esclusivamente la corresponsione di un'indennità risarcitoria variabile tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità di retribuzione.
Nonostante l'intento del legislatore fosse quello di limitare le ipotesi di tutela reintegratoria, da tale formulazione in questi due anni sono derivate incertezze applicative sia per la genericità delle previsioni contenute nei contratti collettivi, sia per le diverse interpretazioni giurisprudenziali sulla nozione di «fatto contestato», che hanno condotto - in casi simili a quello in esame - alla reintegrazione del lavoratore.
Per tale motivo, a seguito dell'approvazione della Legge Delega di riforma del mercato del lavoro (legge 183/14, cosiddetto Jobs Act), nel redigere il relativo decreto attuativo il Governo starebbe valutando, per i licenziamenti disciplinari dei nuovi assunti, di eliminare il riferimento alle tipizzazioni disciplinari dei contratti collettivi e limitare la reintegrazione esclusivamente ai casi di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, aderendo in sostanza al recente indirizzo della Cassazione (sentenza 6 novembre 2014, n. 23669), la quale ha precisato che il fatto contestato deve essere accertato esclusivamente nella sua componente materiale e non giuridica. Se così sarà, in un caso come quello di specie, il giudice per i neoassunti potrà solo condannare l'azienda ad un'indennità risarcitoria.

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