Contenzioso

Rassegna della Cassazione 1 - 5 dicembre 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare e giudizio penale

Diritto di sciopero

Mobilità e criteri di scelta

Licenziamento per giusta causa e settore bancario

Giusta causa di licenziamento

Licenziamento disciplinare e giudizio penale

Cass., sez. Lav., 5 dicembre 2014, n. 25822

Pres. Roselli; Rel. Amendola; P.M. Ghersi; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. S.D.L.

Licenziamento disciplinare - mancata prova dei fatti contestati - rapporto tra giudizio civile e giudizio penale - sentenza penale di assoluzione - rilevanza nel giudizio civile - responsabilità disciplinare del lavoratore - esclusione

La responsabilità disciplinare del lavoratore è esclusa allorché, sulla base sia delle testimonianze assunte, sia della sentenza di assoluzione resa in sede penale, si sia ritenuto non raggiunta la prova dei fatti addebitati al lavoratore.

Nota

Nel caso oggetto della pronuncia in commento un lavoratore, dopo essere stato riconosciuto colpevole del reato di peculato all'esito del primo grado del giudizio penale (per essersi appropriato in più occasioni, nell'esercizio delle sue funzioni, di banconote e monete contenute nei portafogli consegnati in seguito a smarrimento) veniva licenziato per giusta causa. Infatti, il datore di lavoro, acquisita la predetta sentenza di condanna penale, avviava un procedimento disciplinare nei confronti di detto lavoratore per gli stessi fatti che erano stati posti a base della condanna in sede penale, compiuti dal lavoratore durante lo svolgimento delle mansioni assegnategli, e, all'esito di tale procedimento disciplinare, veniva intimato il licenziamento per giusta causa.

Mentre il giudice di prima cure riteneva legittimo il predetto licenziamento, il giudice di secondo grado ne dichiarava l'illegittimità, affermando, in particolare, che non era stata raggiunta la prova dei fatti addebitati al dipendente. Peraltro, nel frattempo, nel giudizio penale di appello era stata emessa la sentenza di assoluzione e, secondo la Corte territoriale adita, da tale decisione, pur non producendosi alcun effetto preclusivo nel giudizio civile, poteva comunque trarsi conferma dell'assenza di una prova certa circa l'ascrivibilità della condotta addebitata al lavoratore.

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte conferma la decisione del giudice di secondo grado, non ritenendo sussistenti vizi di motivazione della sentenza di appello. In particolare, secondo la Corte di Cassazione, la Corte territoriale adita, in relazione ad una contestazione disciplinare con cui veniva addebitata ad un lavoratore la commissione di una determinata condotta, ha correttamente ritenuto non raggiunta la prova dell'effettivo verificarsi dei fatti contestati, posto che, a seguito dell'esame di tutte le deposizioni testimoniali, non poteva dirsi accertato che il lavoratore, così come contestato, si fosse appropriato in più occasioni di banconote e monete metalliche. In aggiunta a ciò, rileva la Corte di Cassazione, il giudice di secondo grado ha trovato ulteriore conforto al convincimento espresso nella sentenza penale che aveva assolto il lavoratore per i medesimi accadimenti, pur rammentando che, secondo la giurisprudenza di legittimità, ai sensi dell'art. 654 c.p.p., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2 (cfr. Cass. n. 3376/11). Peraltro, prosegue la Suprema Corte, il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile; a tal fine il giudice civile non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza (in questo senso, cfr. Cass. n. 22200/10 e Cass. n. 15353/12).

In proposito, osserva la Corte di Cassazione, anche ove la sentenza penale irrevocabile sia priva di efficacia extrapenale, il giudice civile, nella doverosa completa e autonoma rivalutazione del fatto, deve tenere conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale (si veda sul punto Cass. SS.UU. n. 1768/11). D'altra parte, persino la sentenza penale non irrevocabile, ancorché non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale, costituisce in ogni caso una fonte di prova che il giudice civile è tenuto ad esaminare e dalla quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge (cfr. Cass. n. 3626/04; Cass. n. 23612/04 e Cass. n. 4493/10).

In considerazione dei principi sopra richiamati, la Corte di Cassazione, con la pronuncia in esame, conferma la decisione del giudice di secondo grado che, sulla base sia delle testimonianze assunte sia della sentenza penale di assoluzione, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore, non essendo stata raggiunta la prova dei fatti addebitati al dipendente.



Diritto di sciopero

Cass., sez. Lav., 5 dicembre 2014, n. 25817

Pres. Stile; Rel. D'Antonio; P.M. Celeste; Ric. C.PT.; Controric. P.I. S.p.A.

Lavoro subordinato - sciopero - obbligo contrattuale di sostituzione di collega assente - astensione collettiva da tale prestazione aggiuntiva - sciopero - insussistenza - condotta antisindacale - insussistenza - sanzioni disciplinari - legittimità

In tema di astensione collettiva dal lavoro e con riferimento al caso in cui un accordo collettivo contenga una disposizione che obblighi il dipendente a sostituire, oltre la sua prestazione contrattuale già determinata, in quota parte oraria, un collega assente, remunerandolo con una quota di retribuzione inferiore alla maggiorazione per lavoro straordinario, l'astensione collettiva da tale prestazione non rientra nel legittimo esercizio del diritto di sciopero, ma costituisce inadempimento parziale degli obblighi contrattuali, con la conseguenza che deve escludersi l'antisindacalità della scelta datoriale di applicare una sanzione disciplinare nei confronti dei lavoratori aderenti all'astensione lavorativa.

Nota

La Corte d'appello di Genova, in riforma della sentenza del Tribunale di Imperia, rigettava il ricorso ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori con il quale un sindacato aveva denunciato l'antisindacalità dell'irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti di lavoratori che avevano aderito all'astensione collettiva dallo svolgimento di prestazioni accessorie previste in un accordo aziendale. La società convenuta e le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell'impresa - tra le quali non figurava il sindacato ricorrente - avevano raggiunto un accordo aziendale che prevedeva, in caso di assenza di un lavoratore, l'obbligo da parte dei altri dipendenti addetti alla medesima area territoriale di sostituire, entro specifici limiti temporali, il lavoratore assente. A fronte di tale prestazione accessoria, l'accordo aziendale prevedeva un incremento predeterminato della retribuzione, inferiore alla maggiorazione prevista per lavoro straordinario, a favore di coloro che sostituivano i colleghi assenti e ciò, a prescindere dal tempo impiegato per effettuare la sostituzione.

Ad avviso della Corte territoriale l'astensione dallo svolgimento di tale prestazione accessoria non configurava un legittimo esercizio del diritto di sciopero, in quanto non si trattava di un'astensione dall'attività lavorativa in una determinata unità di tempo, come, ad esempio, in caso di rifiuto a svolgere lavoro straordinario, bensì del mero rifiuto a svolgere uno dei compiti a cui erano tenuti i lavoratori. Era quindi legittima l'irrogazione di sanzioni disciplinari a fronte dell'inottemperanza alle direttive datoriali e, di conseguenza, non era configurabile alcuna condotta antisindacale.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva il sindacato; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo che la Corte territoriale avesse dato corretta applicazione del principio di diritto (già espresso in Cass. 548/2011; Cass. 12977/2011; Cass. 12978/2011; Cass. 12979/2011 e Cass. 20273/2011) secondo cui l'astensione collettiva dallo svolgimento della prestazione accessoria, prevista in un accordo collettivo aziendale, consistente nella sostituzione dei lavoratori assenti entro determinati limiti temporali, non attiene al legittimo esercizio del diritto di sciopero, ma costituisce inadempimento parziale degli obblighi contrattuali, con la conseguenza che deve escludersi l'antisindacalità della scelta datoriale di applicare delle sanzioni disciplinari nei confronti dei lavoratori aderenti all'astensione. In altri termini, la Suprema Corte ha ribadito che non è sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione, per una data unità di tempo, non sia integrale, ma riguardi solo uno o più dei compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere. Tale fattispecie, infatti, rientra nel c.d. sciopero delle mansioni che per giurisprudenza costante è ritenuto estraneo al concetto di sciopero e quindi illegittimo.



Mobilità e criteri di scelta

Cass., sez. Lav., 3 dicembre 2014, n. 25610

Pres. Stile; Rel. Stile; P.M. Matera; Ric. G.S.; Controric. L.G.I. S.p.A.

Lavoro subordinato - estinzione del rapporto - licenziamento collettivo - criteri di scelta del personale - solo esigenze tecnico-organizzative e produttive - accordo sindacale - rispetto della procedura di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223 - sussistenza

Nel caso in cui la procedura di cui alla L. 223/1991 sia sfociata in un accordo sindacale, i criteri per l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità possono essere concordati con i sindacati sulla base delle sole esigenze tecnico- produttive ed organizzative del complesso aziendale.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Firenze che aveva respinto la domanda della lavoratrice volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole nell'ambito della procedura per riduzione di personale di cui alla Legge 223/1991. Nello specifico, la Corte territoriale aveva ritenuto legittimo il licenziamento poiché avvenuto nel pieno rispetto della procedura di legge ed in base ai criteri di scelta pattuiti in sede di accordo sindacale. Ed infatti, l'accordo sindacale sottoscritto all'esito della procedura di cui alla L. 223/1991 aveva comportato il ricollocamento di n. 3 dipendenti e la messa in mobilità di residui 5 dipendenti, individuati esclusivamente in base a ragioni tecnico, produttive ed organizzative connesse alla soppressione delle funzioni di Back Office, Sartoria e Cassa.

Con tre motivi di ricorso la lavoratrice ha dedotto l'illegittimità dei criteri di scelta adottati dalla società e delle modalità di applicazione degli stessi.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato innanzitutto che, nel caso in cui la procedura di cui alla L. 223/1991 sia sfociata in un accordo sindacale, i criteri per l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità possono essere concordati con i sindacati sulla base delle sole esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale; nel caso, invece, in cui l'accordo sindacale non sia stato raggiunto, si adotteranno i criteri di legge, e cioè carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative, in concorso tra di loro. Inoltre, ha proseguito la Corte, le parti sociali hanno la facoltà di individuare qualunque criterio di scelta purché sia obiettivo e non provochi discriminazioni tra i lavoratori.

Ebbene, nel caso di specie, l'accordo sindacale prevedeva in via esclusiva, quale criterio di scelta adottato per collocare i lavoratori in mobilità, le esigenze tecnico- produttive ed organizzative; inoltre, considerato che la necessità di riduzione di personale era connessa all'eliminazione delle funzioni di Back Office, Sartoria e Cassa, appariva quindi logico e coerente, a detta della Corte, che i lavoratori da licenziare fossero individuati con riferimento alle mansioni svolte dagli stessi, non risultando in alcun modo discriminatorio o non obiettivo tale criterio prescelto.

In conclusione, la Corte ha ritenuto che la ricorrente fosse stata legittimamente licenziata dalla società in esecuzione dei criteri di scelta pattuiti in sede sindacale, essendo la stessa addetta all'espletamento di mansioni di sarta, posto pacificamente soppresso. Sulla base di tali principi la Corte di Cassazione ha pertanto concluso per il rigetto del ricorso della lavoratrice.



Licenziamento per giusta causa e settore bancario

Cass., sez. Lav., 3 dicembre 2014, n. 25608

Pres. Roselli; Rel. Manna; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. S. A.; Controric. B. C. A.

Licenziamento - giusta causa - giustificato motivo - intensità elemento intenzionale o colposo - necessità

Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento una mera "svista" commessa dal lavoratore nell'espletamento delle proprie mansioni e priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro e/o per terzi.

Nota

La Corte di appello dell'Aquila confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dalla Banca nei confronti di un cassiere, per un errore commesso dal medesimo nella contabilizzazione d'un addebito conseguente ad una operazione di prelievo in contanti di Euro 2.000,00 effettuata da parte di un correntista, e per "complessivo atteggiamento di completa noncuranza delle ordinarie regole collaborative". Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore affidandosi a tre motivi. Innanzitutto, il ricorrente impugnava la sentenza di appello eccependo la violazione del principio di immediatezza della contestazione e della sanzione disciplinare. Inoltre, il ricorrente prospettava violazione e falsa applicazione degli artt. 1 legge n. 604/66 e 7 Stat. Lav., per avere i giudici di merito ravvisato una giusta causa di licenziamento in una mera "svista" colposa del lavoratore, che, per errore nella digitazione del numero di conto corrente (10/6859 anziché 10/6958), aveva addebitato il prelievo in contanti di Euro 2.000,00 di un correntista sul conto corrente di un altro; il ricorrente lamentava, poi, la genericità dell'ulteriore addebito di "complessivo atteggiamento di completa noncuranza delle ordinarie regole collaborative".

Infine, il ricorrente impugnava la sentenza di secondo grado nella parte in cui la stessa aveva considerato la sanzione espulsiva proporzionata ad una condotta meramente colposa, posta in essere dal dipendente, verificatasi una sola volta e che non aveva comportato alcun danno, né per la società, né per il correntista, il quale, accortosi subito dell'errore, ne aveva chiesto ed ottenuto la correzione.

La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso.

Preliminarmente la Corte ha evidenziato che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, "per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo" (cfr., per tutte, Cass. 2 giugno 2000, n. 7394).

Dunque, la Cassazione ha rilevato che a tale insegnamento non si è attenuta la Corte territoriale che, nell' accertare la proporzionalità fra illecito disciplinare e sanzione applicata, ha valutato soltanto il grado di affidamento implicato dalle mansioni di cassiere espletate dal ricorrente ed i suoi precedenti disciplinari, senza affatto considerare che nella specie non si era verificato alcun danno né a carico dell'istituto di credito, nè di taluno dei suoi correntisti (circostanza pacifica) e senza nemmeno svolgere alcun approfondimento in ordine all'intensità dell'elemento colposo.

Con specifico riferimento all'elemento soggettivo della condotta addebitata, ossia "all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo", la Suprema Corte ha escluso che nel caso di specie la condotta posta in essere dal lavoratore (che era consistita in una mera "svista" commessa dal cassiere il quale, operando al terminale, aveva sbagliato nel digitare il numero di conto corrente cui addebitare una operazione), potesse essere ricondotta alla "colpa" propriamente intesa, in senso disciplinare/ giuslavoristico, e che pertanto fosse idonea ad integrare una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento.

La Cassazione ha, inoltre, ritenuto nulla per manifesta genericità, ed in contrasto con l'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, l'ulteriore contestazione disciplinare mossa al lavoratore con la quale gli era stato addebitato di aver tenuto un "complessivo atteggiamento di completa noncuranza delle ordinarie regole collaborative", senza ulteriore specificazione delle circostanze in cui tale condotta si sarebbe estrinsecata.



Giusta causa di licenziamento

Cass., sez. Lav., 1 dicembre 2014, n. 25380

Pres. Macioce; Rel. Balestrieri; P.M. Ceroni; Ric. D.G.G.; Controric. I.I. s.p.a.

Licenziamento - giusta causa - vincolatività previsioni collettive - esclusione - intempestiva e non veritiera comunicazione dell'assenza - sussistenza giusta causa di recesso

Nei licenziamenti ante riforma Fornero il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo e può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Nota

La Corte d'Appello ha riformato la sentenza di primo grado dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore in seguito alla contestazione di ingiustificata e protratta assenza, nonché di non veridicità della comunicazione inerente la causa del suo impedimento al lavoro.

I giudici del gravame, dopo aver chiarito che i fatti contestati rientravano nelle previsioni del CCNL applicabile ed in quelle contenute nel codice disciplinare aziendale ha precisato che essi erano, comunque, tali da ledere la fiducia in modo irreparabile e, quindi, giustificassero il recesso ex art. 2119 c.c.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi. La società ha resistito con controricorso.

La Suprema Corte ha analizzato congiuntamente i motivi, dichiarandoli in parte inammissibili ed in parte infondati.

In primo luogo, vertendosi in ipotesi di licenziamento ante riforma Fornero, la Cassazione ha ricordato il principio di cui alla massima, aderendo a specifici precedenti in termini (Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060), così respingendo i motivi di ricorso inerenti una presunta violazione del CCNL di categoria.

La Corte ha, poi, sottolineato che il protrarsi dell'assenza ingiustificata per un notevole lasso temporale e la non veridicità delle comunicazioni in merito alla causa dell'impedimento - rappresentanti circostanze pacifiche - di per sé integrano una giusta causa ex art. 2119 c.c.

Il ricorso è stato, quindi, rigettato.

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