Contenzioso

Rassegna della Cassazione 12 dicembre 2014 - 7 gennaio 2015

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Permessi ex legge 104/1992

Licenziamento per giusta causa

Licenziamento disciplinare

Licenziamenti collettivi e criteri di scelta

Infortunio in itinere

Permessi ex legge 104/1992

Cass. Sez. Lav. 22 dicembre 2014, n. 27232

Pres. Macioce; Rel. Nobile; P.M. Matera; Ric. C.M. Controric. E.T.;

Lavoro subordinato - Diritti del prestatore di lavoro - Permessi retribuiti ex art. 33 legge n. 104 del 1992 - Portata

In tema di permessi retribuiti di cui all'art. 33 legge n. 104 del 1992, deve ritenersi che la presenza in famiglia di altra persona che possa provvedere all'assistenza del parente non escluda di per sé il diritto del lavoratore ai permessi mensili retribuiti.

NOTA - Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Milano, che, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva accertato il diritto della lavoratrice a fruire mensilmente di tre giorni di permesso retribuito ex art. 33 della legge 104/1992, essendo quest'ultima figlia unica di genitori anziani, di cui la madre era in condizioni d'inabilità al 100% ed il padre era gravemente malato e non in condizioni di poter assistere la moglie; pertanto la lavoratrice era da considerarsi l'unica persona che assisteva con continuità la madre, con conseguente diritto ai benefici di cui alla predetta legge.

Non rilevava, infatti, a detta della Corte territoriale, il difetto del requisito della convivenza con la persona handicappata e dell'assistenza continua, poiché in base alla ratio della norma - che, nella sua formulazione precedente alla riforma della legge 183/2010, imponeva come necessari i requisiti della continuità ed esclusività dell'assistenza - non era possibile interpretare restrittivamente tali concetti, non potendo altrimenti il lavoratore neanche svolgere attività lavorativa. Tanto rilevato, la Corte affermava che nella specie poteva ritenersi raggiunta la condizione richiesta solo nel 2006, quando, con l'aggravarsi delle condizioni di salute del padre, di fatto era rimasta solo la colf a garantire un'assistenza parziale alla persona handicappata, vista l'assenza della ricorrente.

Con due motivi di ricorso la datrice di lavoro ha dedotto la violazione dell'art. 33 della legge 104/1992, sulla base del fatto che la notevole distanza geografica tra il Comune di domicilio della lavoratrice e quello di domicilio della madre doveva indurre a negare nella fattispecie la sussistenza della continuità dell'assistenza, mentre l'esclusività era smentita dalla circostanza della presenza quotidiana, nell'abitazione della madre, di una colf oltreché, per lo meno fino a tutto il 2005, anche dell'aiuto costante da parte del padre.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato innanzitutto che la verifica della continuità ed esclusività dell'assistenza costituisce accertamento di fatto riservato al giudice di merito, e come tale insindacabile in sede di legittimità, se conforme a diritto o congruamente motivato. Inoltre, come è stato già chiarito dalla Corte in altre occasioni (v. Cass. n. 13481/2004), quanto al requisito dell'esclusività, deve ritenersi che la presenza in famiglia di altra persona che sia tenuta o che possa provvedere all'assistenza del parente non escluda di per sé il diritto del lavoratore ai permessi mensili retribuiti, essendo presumibile che, essendo comunque il lavoratore impegnato con il lavoro, all'assistenza del parente provveda anche altra persona, ed è senz'altro ragionevole che quest'ultima possa fruire di alcuni giorni di libertà, in coincidenza con la fruizione dei tre giorni di permesso del lavoratore.

Ugualmente, poi, deve interpretarsi in senso elastico e rispondente alla ratio della norna anche il requisito della continuità, essendo evidente che, in ragione del lavoro espletato dal lavoratore, ben può esservi una continuità non giornaliera (ad esempio settimanale) di assistenza del parente, senza dubbio meritevole di tutela.

Ebbene, nella specie la Corte territoriale si è adeguata a tale criterio elastico e, legittimamente e con congrua motivazione, ha ritenuto sussistenti i requisiti della continuità e della esclusività con decorrenza dal 2006. Sulla base di tali principi la Corte di Cassazione ha pertanto concluso per il rigetto del ricorso della lavoratrice.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 12 dicembre 2014, n. 26232

Pres. Vidiri; Rel. Doronzo; P.M. Matera; Ric. M. E.; Controric. P. B.;

Licenziamento - Giusta causa - Carica sindacale - Cessazione - Omessa comunicazione all'amministrazione datrice - Legittimità

E' legittimo il licenziamento del lavoratore che abbia fraudolentemente omesso di comunicare all'amministrazione datrice la perdita dell'incarico sindacale di segretario provinciale al fine di poter illegittimamente beneficiare dell'aspettativa sindacale pure in assenza delle condizioni che ne legittimassero il godimento.

NOTA - La Corte di appello di Brescia confermava la sentenza del precedente grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato al sig. M. per aver beneficiato dell'aspettativa sindacale in assenza delle condizioni che la legittimassero, avendo perso la qualità di rappresentante sindacale e taciuto fraudolentemente tale circostanza all'amministrazione datrice.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso il lavoratore fondato su tre motivi.

In particolare, il dipendente censurava la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione dei contratti e degli accordi collettivi nazionali di lavoro e del DPCM 27/10/1994, n. 770, ritenendo che, ai sensi della predetta normativa, non fosse configurabile alcun obbligo in capo al lavoratore di comunicare al datore di lavoro il venir meno della propria qualità di dirigente sindacale, ma che, al contrario, fosse obbligo delle confederazioni e delle organizzazioni sindacali di comunicare annualmente all'amministrazione datrice di lavoro la conferma di ciascun distacco sindacale in atto e le richieste di revoca.

Il ricorrente impugnava, altresì, la sentenza di secondo grado per insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che dell'art. 2697 del codice civile, ritenendo che la Corte territoriale non avesse esaminato e posto a fondamento della propria decisione l' "abbondante produzione documentale" acquisita nel processo e le risultanze della prova testimoniale, da cui risultava l'attribuzione al ricorrente della qualifica di rappresentante sindacale.

Aggiungeva il ricorrente che l'incarico gli era stato conferito "fino a data da destinarsi", come risultava dalla documentazione in atti, e che non era mai intervenuta alcuna revoca espressa della carica conferitagli nel 1998.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso confermando la sentenza impugnata.

In particolare, osservava la Corte che le censure di violazione di legge, con riferimento al disposto di cui all'art. 2, punto 6 del DPCM citato, dovevano ritenersi infondate atteso che la condotta addebitata al lavoratore, e posta a fondamento del licenziamento, non atteneva alla violazione dello specifico dovere di comunicazione delle cariche sindacali, posto dalla normativa citata a carico delle organizzazioni sindacali, ma consisteva nell'aver "fraudolentemente" taciuto all'amministrazione datrice la circostanza, nota al lavoratore, relativa alla perdita dei presupposti per il godimento dell'aspettativa sindacale, essendo stato accertato che, quantomeno dal 2002, il ricorrente non ricopriva più l'incarico di dirigente sindacale e sussisteva, pertanto, l'obbligo dello stesso di rientrare in servizio.

In punto di fatto, la Suprema Corte osservava, altresì, che doveva ritenersi corretto ed esaustivo, oltre che privo di contraddizioni, il ragionamento seguito dalla Corte territoriale che aveva ritenuto che, in assenza di prove offerte dal ricorrente circa il mantenimento della carica di dirigente sindacale (ed infatti, uno dei testimoni escussi aveva confermato la carica ma solo fino al 2002, mentre, da tale anno in poi, il successivo segretario provinciale aveva escluso sia la qualifica di dirigente in capo al ricorrente, sia lo svolgimento di una qualsivoglia attività sindacale), l'aver consapevolmente e dolosamente taciuto la perdita dell'incarico aveva leso l'interesse dell'amministrazione datrice di lavoro, che aveva mantenuto, per anni, un posto scoperto in organico.

Tale condotta, ha evidenziato la Corte, aveva pertanto leso, in modo irrimediabile, il vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro.

Per tali ragioni la Suprema Corte rigettava il ricorso.




Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 7 gennaio 2015, n. 15

Pres. Roselli; Rel. Bronzini; P.M. Fresa; Ric. P.S. s.r.l.; Controric. S.R.A.;

Licenziamento disciplinare - Condotta del lavoratore scorretta ed elusiva ma non mendace - Proporzionalità della sanzione espulsiva - Non sussiste - Illegittimità della sanzione

E' illegittima, in quanto sproporzionata, la sanzione espulsiva comminata all'esito di un procedimento disciplinare, qualora il lavoratore si sia reso responsabile di una condotta scorretta ed elusiva, ma non mendace.

NOTA - Nel caso oggetto della sentenza in commento un dipendente veniva licenziato all'esito di un procedimento disciplinare nell'ambito del quale gli era stato contestato di aver taciuto, anche a seguito di espressa richiesta datoriale, che non sussistevano i presupposti per abitare in una casa messagli a disposizione dal datore di lavoro, essendo egli nella disponibilità di altri alloggi.

Mentre in primo grado il ricorso del lavoratore avverso il provvedimento espulsivo subito veniva rigettato, la Corte d'Appello adita dichiarava l'illegittimità del licenziamento e disponeva la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, rilevando, in particolare, che la sanzione espulsiva era sproporzionata e che nel contratto di assunzione il lavoratore non aveva assunto alcun impegno di comunicare la propria situazione abitativa, obbligo che, peraltro, non si rinveniva neppure nell'ambito delle previsioni di cui al CCNL applicato.

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione conferma il giudizio di sproporzione formulato dalla Corte territoriale adita, nonostante il fatto che il lavoratore si fosse reso responsabile di un atto scorretto e sanzionabile dal punto di vista disciplinare, posto che occupava, quasi a titolo gratuito, un alloggio di proprietà aziendale, in virtù del rapporto di lavoro, senza possedere i requisiti necessari, essendo egli già proprietario di due alloggi. La risposta omissiva del lavoratore alla richiesta di informazioni formulatagli dal datore di lavoro, era, quindi, secondo la Suprema Corte, consapevolmente preordinata a nascondere quest'ultima circostanza e, in ogni caso, egli avrebbe dovuto rispondere con lealtà collaborativa alla lettera datoriale, posto che occupava quasi gratuitamente un alloggio di proprietà del datore di lavoro.

Peraltro, prosegue la Cassazione, a prescindere da quale fosse la fonte contrattuale a monte della fornitura dell'alloggio al lavoratore, tale fornitura non poteva che essere correlata all'indisponibilità da parte del lavoratore di un'abitazione propria.

Pertanto, osserva la Suprema Corte, omettendo di rispondere alla sopra citata richiesta di informazioni di parte datoriale, il lavoratore ha violato le norme di correttezza e buona fede e si è così reso passibile di sanzione disciplinare. Tuttavia, il comportamento posto in essere non è, secondo la Corte di Cassazione, di gravità tale da dover essere sanzionato con un provvedimento espulsivo, anche perché il lavoratore non ha risposto il falso, ma ha solo reso informazioni elusive e il datore di lavoro è stato comunque in grado di fare prontamente delle verifiche sulla situazione.

Peraltro, rileva la Suprema Corte, non era neppure emerso con certezza che le abitazioni di proprietà del lavoratore fossero effettivamente libere e disponibili, con la conseguenza che una sanzione non espulsiva sarebbe stata idonea e sufficiente.




Licenziamenti collettivi e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 22 dicembre 2014, n. 27237

Pres. Macioce; Rel. Amendola; P.M. Servello; Ric. S.M.; Controric. F.G.A. s.p.a.;

Licenziamenti collettivi - Criteri di scelta negoziali - Requisiti - Oggettività ed assenza di discrezionalità - Prossimità a pensione - Criterio ammissibile se determina graduatoria rigida e controllabile

In materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali per l'individuazione dei destinatari del licenziamento può anche essere unico e consistere nella prossimità al pensionamento, purché esso permetta di formare una graduatoria rigida e possa essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro.

NOTA - La Corte d'Appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata la domanda di un lavoratore volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli a seguito di una procedura di mobilità ex L. 223/91. In particolare la Corte territoriale ha ritenuto generiche ed indimostrate le deduzioni inerenti il difetto del nesso causale tra le motivazioni poste dalla società a base della procedura ed il singolo recesso.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo lamentando che la Corte territoriale avesse mal valutato la sussistenza del predetto nesso causale, omettendo, in particolare, di verificare che, avendo la società motivato la procedura con l'impossibilità di riconvertire su impianti a nuova tecnologia un certo numero di lavoratori, effettivamente il ricorrente rientrasse in tale alveo.

La Suprema Corte ha respinto il motivo sottolineando che esso non tiene conto del fatto che, a valle della comunicazione di apertura, è intervenuto un accordo sindacale ove si è individuato come criterio di scelta la prossimità a pensione ed è pacifico che il ricorrente avrebbe conseguito il trattamento di quiescenza durante il periodo di mobilità, pertanto il suo inserimento nell'alveo dei licenziati era del tutto legittimo, anche considerando che nell'accordo non era stato stabilito che il criterio selettivo della pensionabilità dovesse operare solo tra i lavoratori non riconvertibili su impianti a nuova tecnologia. Peraltro, osserva la Corte, nella lettera di apertura si era fatto espresso riferimento ad un piano di contenimento dei costi rispetto al quale il criterio della pensionabilità - che attua un minor costo sociale - rappresenta un criterio di scelta oltremodo legittimo.

In quest'ottica la Cassazione, aderendo a precedenti in termini (Cass. 2 settembre 2003, n. 12871; Cass 6 ottobre 2006, n. 21541), ha affermato il principio di cui alla massima, aggiungendo, altresì, che la prossimità a pensionamento integra un criterio oggettivo e razionale che permette di scegliere, a parità di condizioni, il lavoratore che subisce il danno minore dal licenziamento, potendo sostituire il reddito da lavoro con il reddito da pensione. (Cass. 20 febbraio 2013, n. 4186).

Nel respingere il motivo la Suprema Corte coglie anche l'occasione per ribadire principi oltremodo consolidati in tema di verifica e controllo dei licenziamenti collettivi affermando che "la legge n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato "ex post" nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto "ex ante" alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell'operazione (ivi compresa la sussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di "effettive" esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva."(Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cass. 3 marzo 2009, n. 5089; Cass. 18 settembre 2007, n. 19347).




Infortunio in itinere

Cass. Sez. Lav. 23 dicembre 2014, n. 27364

Pres. Lamorgese; Rel. Amendola; Ric. M.G.; Controric. C. S.p.A.; P.M. Celeste;

Lavoro subordinato - Infortunio in itinere - Responsabilità risarcitoria ex art. 2087 c.c. - Responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro - Esclusione - Oneri probatori incombenti rispettivamente sul lavoratore e sul datore di lavoro

L'art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno a causa dell'attività lavorativa svolta, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l'una e l'altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

NOTA - Un dirigente conveniva avanti il Tribunale di Cosenza il proprio datore di lavoro per sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti in occasione di un incidente stradale, verificatosi mentre era alla guida di un'auto aziendale per ragioni di lavoro. Il ricorrente deduceva che, all'epoca del sinistro, il datore di lavoro aveva stipulato con una compagnia assicurativa una polizza contro gli infortuni professionali. Reclamava quindi l'operatività di tale copertura assicurativa, da attuarsi mediante la chiamata in causa dell'impresa assicurativa, da parte dell'azienda.

La società contestava la pretesa del dirigente e chiamava in garanzia l'assicurazione.

Il Tribunale rigettava il ricorso, ritenendo che il dirigente fosse legittimato ad agire direttamente nei confronti dell'assicurazione per ottenere il ristoro dei danni patiti.

La Corte d'Appello di Catanzaro, respingeva l'impugnazione promossa dal dipendente, ritenendo invece che lo stesso non avesse allegato alcun profilo di responsabilità del datore di lavoro, essendosi limitato ad affermare di aver subito un incidente mentre si trovava alla guida di una vettura aziendale per ragioni di lavoro.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva il dirigente; il datore di lavoro e l'assicurazione rimanevano intimati.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore, ritenendo infondato il motivo con cui lo stesso lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. nonché difetto assoluto di motivazione della sentenza impugnata, per aver ritenuto che non avesse allegato un inadempimento del datore di lavoro. In particolare, a sostegno di tale censura, il ricorrente deduceva che in tema di infortunio in itinere, il requisito dell'"occasione di lavoro" implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio, indipendentemente dal grado maggiore o minore di questo, e presuppone il nesso eziologico tra lavoro, rischio ed evento che costituisce fonte di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.

La Corte di Cassazione, ha premesso che l'art. 2087 c.c. costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico che fa obbligo al datore di lavoro di adottare, sul luogo di lavoro, tutte le misure idonee ad assicurare la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro, in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, anche al di là delle particolari misure tassativamente imposte dalle varie leggi speciali sulla prevenzione degli infortuni.

Ciò posto, la Suprema Corte ha ribadito il proprio consolidato orientamento (ex plurimis Cass. 2038/2013) secondo cui l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Di conseguenza, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno a causa dell'attività lavorativa svolta l'onere di provare: l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l'una e l'altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

Infatti, solo la tutela prevista dall'assicurazione infortuni e malattie professionali garantita dall'INAIL ha come unico presupposto la mera "occasione di lavoro" - intesa come condizione di collegabilità, anche indiretta, dell'evento all'attività lavorativa - con la conseguenza che l'indennizzo può essere riconosciuto anche per eventi verificatisi nel percorso fatto dal dipendente per recarsi al lavoro. Al contrario, in un giudizio risarcitorio proposto nei confronti del datore di lavoro è indispensabile che il ricorrente fornisca al giudice e alla controparte tutti gli elementi fattuali necessari affinché sia apprezzabile un colpevole inadempimento del convenuto, non potendo il lavoratore limitarsi a dedurre di avere riportato un danno in occasione o durante la prestazione lavorativa.

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