Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento illegittimo ed esercizio del diritto di opzione

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Distacco internazionale e calcolo del T.F.R.

Il direttore di testata giornalistica e i requisiti per la subordinazione

Licenziamento in tronco per grave insubordinazione

Licenziamento illegittimo ed esercizio del diritto di opzione

Cass. Sez. Lav. 22 gennaio 2015, n. 1169

Pres. Macioce; Rel. Berrino; P.M. Matera; Ric. G. M.; Contr. O. E. S.p.A.;

Licenziamento individuale - Illegittimità - Tutela reale - Esercizio da parte del lavoratore dell'opzione di cui all'art. 18, quinto comma, L. 300/70 - Cessazione del rapporto di lavoro alla data di comunicazione al datore di lavoro dell'opzione - Pagamento delle retribuzioni per il periodo successivo - Esclusione - Ritardo nel pagamento dell'indennità sostitutiva - Applicabilità art. 429, comma 3, c.p.c. - Danno ulteriore - Ammissibile - Onere della prova a carico del lavoratore.

In caso di licenziamento illegittimo, qualora il lavoratore opti per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, ex art. 18, comma quinto, L. 300/70 (ante L. 92/2012), il rapporto di lavoro si estingue alla data di comunicazione al datore di lavoro di tale scelta, con la conseguenza che per il periodo successivo non è più dovuta alcuna retribuzione. L'obbligazione avente ad oggetto il pagamento dell'indennità sostitutiva è soggetta alla disciplina di cui all'art. 429, terzo comma, c.p.c., per il caso di inadempimento o ritardo nell'adempimento, salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di aver subìto un danno ulteriore.

Nota - Il Tribunale del lavoro di Brescia, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento orale intimato ad un lavoratore, condannando il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni maturate fino alla data di richiesta di reintegra nonché dell'indennità sostitutiva della stessa sulla base dell'opzione esercitata dal lavoratore.

La Corte di appello di Brescia aveva, parzialmente, modificato tale statuizione condannando la società datrice di lavoro al risarcimento nella misura ridotta di cinque mensilità, oltre che al pagamento di quindici mensilità a titolo di indennità sostitutiva.

La Corte di merito aveva rilevato che, pur se il licenziamento orale, e quindi nullo, non soggiace alla disciplina di cui all'art. 18 dello Stat. Lav., per non esservi stata alcuna interruzione del rapporto, in ogni caso tale previsione era stata applicata dal primo giudice e sulla relativa statuizione si era formato il giudicato, ragione per cui poteva intervenirsi solo sulla quantificazione del danno che, nel caso di specie, risultava essere stato liquidato in misura eccessiva, tenuto conto che il lavoratore aveva subito optato per l'indennità sostitutiva della reintegra, manifestando una volontà incompatibile con la ripresa del lavoro.

Avverso tale statuizione il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando la violazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori in quanto, sostiene, che nel caso di esercizio dell'opzione di cui al quinto comma della norma citata, il lavoratore ha diritto al pagamento di tutte le retribuzioni maturate sino alla data di effettivo pagamento dell'indennità sostitutiva e non fino alla data di esercizio del diritto di opzione.

La Cassazione rigetta il ricorso, confermando l'orientamento espresso recentemente dalle Sezioni Unite (27 agosto 2014, n. 18353), secondo cui, in caso di licenziamento illegittimo, ove il lavoratore, nel regime della cosiddetta tutela reale (nella specie, quello, applicabile "ratione temporis", previsto dall'art. 18, L. 300/70, nel testo anteriore alle modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92), opti per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 18, quinto comma, il rapporto di lavoro si estingue con la comunicazione al datore di lavoro di tale scelta, anche se non viene subito effettuato il pagamento dell'indennità stessa e senza che permanga - per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore né può essere pretesa dal datore di lavoro - alcun obbligo retributivo. Con la conseguenza che l'obbligazione avente ad oggetto il pagamento dell'indennità sostitutiva, in caso di ritardato adempimento o inadempimento, è soggetta alla "mora debendi", con applicazione dell'art. 429, terzo comma, c.p.c., salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore.




Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 2015, n. 1262

Pres. Roselli; Rel. Manna; P.M. Servello; Ric. A.L.; Controric. S.M.M. S.p.A.

Adibizione del lavoratore a mansioni diverse - Contrasto con l'art. 2103 c.c. - Insussistenza - Condizioni - Equivalenza convenzionale tra le mansioni precedenti e quelle successive - Insufficienza - Valutazione ponderata della professionalità del lavoratore - Necessità

Nell'indagine circa l'esistenza o meno di un'equivalenza tra le vecchie e le nuove mansioni non basta il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Risarcimento del danno - Mobbing - Elementi costitutivi - Configurabilità

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Sindacabilità da parte del giudice - Limiti - Effettività delle ragioni giustificatrici dedotte - Necessità

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sebbene non sia sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, nondimeno spetta al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore, nel senso che ne risulti l'effettività e la non pretestuosità.

Nota - La Corte d'Appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda, proposta da un lavoratore, di risarcimento del danno da dequalificazione, mentre rigettava sia la domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia la domanda di risarcimento del danno da mobbing.

Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per cassazione articolato in un unico motivo, con il quale lamentava vizio di motivazione nella parte in cui l'impugnata sentenza, pur riconoscendo il demansionamento subito dallo stesso, non ne ha però tenuto conto ai fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da mobbing e dell'impugnativa di licenziamento. Con ricorso incidentale, la società lamentava vizio di motivazione della pronuncia della Corte territoriale nella parte in cui, pur ritenendo che le nuove mansioni assegnate al lavoratore fossero consone alla professionalità posseduta dallo stesso, ha poi, in maniera contraddittoria, ravvisato una sostanziale riduzione quantitativa della mansioni affidate.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso principale ed ha disatteso quello incidentale, avendo osservato come la Corte di merito, con sentenza immune da vizi logici o giuridici, abbia accertato l'avvenuto demansionamento ai danni del ricorrente principale, il quale era stato assegnato a mansioni che, pur se coerenti in astratto al livello di categoria, esprimevano, di fatto, una minore capacità professionale. Trattasi, più specificamente, del caso di un lavoratore, il quale, sebbene nominato responsabile del nuovo Ufficio Marketing, non era stato neppure messo in condizioni di espletare le nuove mansioni - che consistevano nella ricerca di potenziali clienti mediante navigazione in Internet - non disponendo finanche di un computer.

A supporto del proprio decisum la Cassazione ha richiamato l'orientamento, ormai consolidato in sede di legittimità, secondo cui il divieto di mutamento in peius delle mansioni ex art. 2103 c.c. presuppone che l'assegnazione delle nuove mansioni consenta di salvaguardare, in concreto, il livello professionale acquisito e fornisca un'effettiva garanzia dell'accrescimento delle capacità professionali del dipendente; e ciò indipendentemente dalla sussistenza di un'equivalenza formale tra le mansioni svolte in precedenza e quelle nuove (cfr. ex plurimis Cass. 08/03/2013, n. 5798; Cass. 23/07/2007, n. 16190).

La Suprema Corte ha poi ritenuto immune da vizi logici - giuridici la sentenza impugnata nella parte in cui ha dato atto della mancanza di prova del mobbing, non essendo sufficienti, per la configurabilità della fattispecie, un demansionamento ed alcune trattenute retributive, seppure illigittime. Ed invero, la Suprema Corte, richiamando la nozione di mobbing, più volte affermata in sede di legittimità (Cass. 06/08/2014, n. 17698; 17/02/2009 n. 3785; v. anche Cass. 28/08/2013, n. 19814, in Guida al Lavoro, n. 42, 28) ha ribadito che, ai fini della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: a) la molteplicità e sistematicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso causale tra la condotta lesiva e il pregiudizio all'integrità psico-fisica subito dal lavoratore; d) l'elemento soggettivo, ossia dell'intento persecutorio; elementi tutti che non sono stati neppure prospettati dal lavoratore.

La Suprema Corte, invece, ha cassato con rinvio la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui la stessa ha rigettato la domanda di impugnativa del licenziamento, affermando l'insindacabilità nel merito della scelta aziendale di soppressione del nuovo ufficio - cui era stato adibito il ricorrente appena due mesi prima - ma senza in alcun modo verificare, in concreto, l'effettività della ragione dedotta a base del licenziamento. Sul punto la Suprema Corte ha ribadito il principio, ormai consolidato in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, secondo cui, se è vero che il giudice non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa - espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - è altrettanto vero che allo stesso compete il controllo in ordine alla effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. 14/05/2012, n. 7474; Cass. 30/11/2010, n. 24235; Cass. 02/10/2006, n. 21282).

La Corte d'Appello di Venezia è stata chiamata, dunque, ad accertare se la soppressione dell'ufficio - da poco creato, cui era stato assegnato il ricorrente - rispondeva ad una genuina esigenza aziendale o costituiva semplicemente un artificio per collocare il dipendente in una posizione lavorativa ab origine destinata ad essere eliminata.




Distacco internazionale e calcolo del T.F.R.

Cass. Sez. Lav. 22 gennaio 2015, n. 1168

Pres. Macioce; Rel. Amoroso; Ric. F. S.p.A.; Controric. C.C.M.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Comandi e distacchi - Distacco di un lavoratore - Presupposto - Interesse del datore di lavoro - Necessità - Accertamento - Conseguenze - Trattamento di fine rapporto - Base di calcolo - Inderogabilità - Conseguenze

La dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all'assunzione del lavoratore e l'effettivo beneficiario della prestazione (c.d. distacco o comando) è consentita soltanto a condizione che essa realizzi, per tutta la sua durata, uno specifico interesse imprenditoriale tale da consentirne la qualificazione come atto organizzativo dell'impresa che la dispone, così determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e la conseguente temporaneità del distacco, coincidente con la durata dell'interesse del datore di lavoro allo svolgimento della prestazione del proprio dipendente a favore di un terzo.
Nell'ipotesi di distacco internazionale infragruppo, è invalido, per contrarietà alla norma imperativa di cui all'art. 2120 c.c., il patto individuale che preveda il computo del trattamento di fine rapporto sulla base della sola retribuzione nominale, con esclusione degli emolumenti percepiti dal dipendente a titolo non occasionale per effetto delle prestazioni lavorative rese a favore delle consociate distaccatarie.

Nota - La sentenza in commento, dopo aver analizzato la fattispecie del distacco, affronta la questione della computabilità - ai fini della determinazione del trattamento di fine rapporto - degli emolumenti percepiti a titolo non occasionale dal dipendente di una società italiana per effetto del suo distacco presso società estere, consociate alla prima.

Più precisamente, il lavoratore, in prime cure, aveva denunciato l'illegittimità di un accordo individuale concluso con la datrice di lavoro, che prevedeva il calcolo del T.F.R. sulla base della sola "retribuzione nominale", lamentando, per l'effetto, l'erroneità del computo del predetto trattamento, effettuato senza tener conto, tra il resto, dell'"indennità affitto, del contributo scuola, dei biglietti di viaggi aereo, del controvalore dell'auto".

Il Tribunale, in parziale accoglimento del ricorso, riconosceva l'incidenza, ai fini della determinazione del T.F.R., delle seguenti voci retributive: "indennità di residenza, premio mobilità, bonus e superbonus, premio annuo, indennità di sede".

La Corte di merito, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ampliava, a favore del lavoratore, la suddetta base di calcolo, includendovi "indennità affitto; contributo scuola; viaggi aerei; polizza assicurazione integrativa", escludendo, invece, l'"auto aziendale".

La Suprema Corte conferma la decisione d'appello, sulla base delle seguenti considerazioni.

Anzitutto - osserva la Cassazione - la dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all'assunzione del lavoratore e l'effettivo beneficiario della prestazione è consentita soltanto a condizione che continui ad operare, sul piano funzionale, la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante, nel senso che il distacco realizzi uno specifico interesse imprenditoriale che consenta di qualificare il distacco medesimo quale atto organizzativo dell'impresa che lo dispone, così determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa ed il conseguente carattere non definitivo del distacco stesso.

Alla luce di tali principî, i giudici di legittimità ritengono "motivata" la decisione della Corte di merito, che aveva ritenuto integrata la fattispecie del distacco. Segnatamente, la Suprema Corte reputa corretta, ai fini della sussistenza della fattispecie in parola, la valorizzazione dei seguenti "elementi sintomatici: la previsione iniziale dell'immediata disponibilità del dirigente ad operare presso tutte le consociate estere del gruppo; il mantenimento della posizione previdenziale in Italia presso" la società distaccante; "il mantenimento dell'obbligo del pagamento del trattamento di fine rapporto in capo alla" società distaccante; il fatto che "al momento della risoluzione del rapporto per dimissioni del dirigente" sia stata la distaccante "a porsi quale interlocutrice del dirigente per definire gli aspetti economici di tale risoluzione".

Appurato che la distaccante fosse l'effettiva datrice di lavoro - prosegue la Cassazione - la stessa non poteva sottarsi dall'includere nel T.F.R. quanto percepito dal lavoratore, a titolo non occasionale, anche durante i periodi prestati presso le altre consociate. Infatti - argomenta la Suprema Corte - da un lato, l'art. 2120 c.c. include nel calcolo del T.F.R. tutte le somme - comprese l'equivalente delle prestazioni in natura - corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione solo di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese; dall'altro, il carattere non occasionale delle indennità percepite durante i periodi prestati presso le altre consociate emerge dal fatto che le stesse erano state corrisposte con periodicità mensile per numerosi anni. Sicché, a parere dei giudici di legittimità, la Corte d'Appello ha correttamente ritenuto illegittimo - per contrasto con una norma imperativa ed inderogabile a livello di contratto concluso dal singolo lavoratore, qual è l'art. 2120 c.c. - il patto individuale contrario che preveda il calcolo del T.F.R. solo sulla retribuzione base, accertando, per l'effetto, la natura retributiva ai fini della determinazione del T.F.R. anche dell'indennità per affitto, del contributo scuola, del rimborso dei biglietti per viaggi aerei, del premio polizza assicurazione integrativa.




Il direttore di testata giornalistica e i requisiti per la subordinazione

Cass. Sez. Lav. 20 gennaio 2015, n. 855

Pres. Roselli; Rel. Tria; P.M. Matera; Ric. F.U.B.; Controric. e ric. incid.;

Lavoro subordinato (rapporto di) - Autonomia o subordinazione (differenza tra) - Direttore di testata giornalistica - Carattere subordinato del rapporto - Configurabilita` - Condizioni.

Il mero conferimento dell'incarico di direttore responsabile di un periodico, ai sensi della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 3 con la relativa indicazione dello stesso nel periodico, non comporta, di per sè, l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato che sussiste ove, sulla base delle modalità effettive di esecuzione della prestazione, sia accertato, oltre allo svolgimento di una attività pubblicistica, ancorchè episodica, e alla assunzione delle responsabilità esterne derivanti dalla legge, il continuativo esercizio delle responsabilità interne derivanti dalla preposizione, circa gli orientamenti e gli specifici contenuti del quotidiano o periodico, anche se all'opera redazionale si provveda in collettivo, con gli altri collaboratori interni della testata; è, invece, irrilevante il contenimento della soggezione del direttore al potere direttivo della proprietà editoriale, nei limiti delle direttive originariamente impartite, derivando l'ampia autonomia decisionale di chi dirige un quotidiano o periodico sia dalla preposizione al vertice della organizzazione giornalistica, sia dal contenuto spiccatamente fiduciario del rapporto, sia dalla garanzia costituzionale del pluralismo e della libertà di informazione.

Nota - La sentenza in esame trae spunto dal caso di un lavoratore al quale una Fondazione aveva conferito un incarico pluriannuale corrispondente alla qualifica di "direttore responsabile" di una rivista, anche se qualificato come "consulenza giornalistica", senza vincoli di orario e di dipendenza nonchè con possibilità di operare in piena autonomia nell'ambito della linea editoriale già definita. Il lavoratore, ritenendo di aver operato in regime di subordinazione, adiva il Giudice del Lavoro per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della Fondazione e l'illegittimità del recesso intimatogli.

Il Giudice di primo grado rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, dopo aver respinto le istanze istruttorie dello stesso, sul presupposto della loro inidoneità ad evidenziare la prospettata subordinazione. La sentenza di primo grado veniva successivamente riformata in sede di appello, ove veniva espletata prova testimoniale all'esito della quale i Giudici appuravano che il suddetto rapporto di lavoro non fosse consistito in una semplice consulenza nella direzione della rivista ma avesse comportato il continuativo esercizio delle attività connesse alla direzione del periodico, corrispondenti a quelle indicate nell'art. 6 del contratto collettivo applicato, con le conseguenti responsabilità e con pieno inserimento nella unità organizzativa della Fondazione che si occupava della rivista seguita dall'appellante. I Giudici d'appello osservavano, inoltre, che, in considerazione del ruolo dell'appellante, non assumeva alcun rilievo l'assenza di controlli.

La Fondazione ricorreva per Cassazione lamentando, in particolare, l'assenza nel caso di specie della subordinazione, per avere la Corte d'Appello dato erroneamente rilievo ad elementi secondari - quali l'osservanza di un orario di lavoro, l'uso di attrezzature dell'ente, il poter disporre di uno staff - senza attribuire la dovuta rilevanza ad elementi di primaria importanza, quali l'assenza della soggezione al potere direttivo e disciplinare, volontà manifestata dalle parti in sede contrattuale, il non inserimento nella struttura aziendale.

La Corte di Cassazione ha rigettato tale motivo di ricorso, osservando che la Corte d'Appello - sulla base di una scrupolosa valutazione delle risultanze probatorie di causa - avesse correttamente ritenuto la sussistenza della natura subordinata del rapporto del lavoratore, dando principale rilievo alla accertata sussistenza dell'inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell'organizzazione d'impresa, con consequenziale irrilevanza del contenimento della soggezione del direttore di testata giornalistica al potere direttivo della proprietà editoriale.

La Suprema Corte, nel decidere il caso in esame, ha applicato i criteri individuati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia di configurazione del vincolo della subordinazione nel lavoro giornalistico, in genere, e, in particolare, in riferimento al direttore di una testata giornalistica (ex multis Cass. 3 marzo 2009, n. 5079; Cass. 7 ottobre 2013, n. 22785). Da tale giurisprudenza, infatti, si desumono i seguenti principi: a) se, in linea generale, al fine di determinare l'esatta qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, il giudice di merito, cui compete di effettuare la suddetta valutazione, deve a tal fine attribuire valore prevalente - rispetto al "nomen iuris" adoperato in sede di conclusione del contratto - al comportamento tenuto dalle parti nell'attuazione del rapporto stesso, ciò vale, a maggior ragione, nel lavoro giornalistico, nel quale il vincolo della subordinazione assume una peculiare configurazione, data la natura squisitamente intellettuale delle prestazioni (vedi, per tutte: Cass. 10 aprile 2000, n. 4533; Cass. 19 agosto 2013, n. 19199); b) la qualificazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti come autonomo o subordinato deve considerare che, in tale ambito, il carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa, nonchè per la natura prettamente intellettuale dell'attività stessa, con la conseguenza che, ai fini dell'individuazione del vincolo, rileva specificamente l'inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell'organizzazione d'impresa (vedi, per tutte: Cass. 7 ottobre 2013, n. 22785 cit; Cass. 2 aprile 2009, n. 8068); c) il mero conferimento dell'incarico di direttore responsabile di un periodico, ai sensi della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 3 con la relativa indicazione dello stesso nel periodico, non comporta, di per sè, l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato che sussiste ove, sulla base delle modalità effettive di esecuzione della prestazione, sia accertato, oltre allo svolgimento di una attività pubblicistica, ancorchè episodica, e alla assunzione delle responsabilità esterne derivanti dalla legge, il continuativo esercizio delle responsabilità interne derivanti dalla preposizione, circa gli orientamenti e gli specifici contenuti del quotidiano o periodico, anche se all'opera redazionale si provveda in collettivo, con gli altri collaboratori interni della testata; è, invece, irrilevante il contenimento della soggezione del direttore al potere direttivo della proprietà editoriale, nei limiti delle direttive originariamente impartite, derivando l'ampia autonomia decisionale di chi dirige un quotidiano o periodico sia dalla preposizione al vertice della organizzazione giornalistica, sia dal contenuto spiccatamente fiduciario del rapporto, sia dalla garanzia costituzionale del pluralismo e della libertà di informazione (vedi, per tutte: Cass. 25 novembre 2010, n. 23925; Cass. 4 settembre 2000, n. 11596; Cass. 6 maggio 1999, n. 4558).




Licenziamento in tronco per grave insubordinazione

Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 2015, n. 1246

Pres . Macioce; Rel. Amoroso; P.M. Matera; Ric. L.S.C.; Contr. P.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Fattispecie previste dal contratto collettivo - Insubordinazione - Diverbio litigioso seguito dalle vie di fatto - Configurabilità - Proporzionalità della sanzione rispetto all'infrazione contestata - Necessità

La sanzione espulsiva è proporzionata alla gravità dell'addebito anche in presenza di un unico episodio di insubordinazione, qualora questo rientri in una delle fattispecie per le quali il contratto collettivo preveda il licenziamento senza preavviso (nella specie il rifiuto ingiustificato di ottemperare alle disposizioni del proprio superiore accompagnato dalla vivace contestazione di tali disposizioni, nonché l'aggressione del superiore stesso sia verbale, consistente nel proferire frasi minacciose e oltraggiose, sia fisica, concretatasi nello strattonamento e spintonamento, il tutto al cospetto del responsabile dello stabilimento, sono stati ritenuti integrare la fattispecie "dell'insubordinazione" e del "diverbio litigioso seguito da vie di fatto", entrambe legittimanti, a norma del contratto collettivo di settore, il licenziamento per giusta causa).

Nota - Il caso in esame trae origine da una pronuncia del Tribunale di Vasto con cui era stato rigettato il ricorso proposto da un lavoratore volto a far dichiarare l'illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli dalla società sua datrice di lavoro.

Il lavoratore, quindi, proponeva appello, dolendosi dell'erroneità della decisione di primo grado, secondo la quale la sua condotta - consistente nell'aver rifiutato di ottemperare alle disposizioni date dal proprio superiore, contestato vivacemente tali disposizioni costringendo l'intervento del responsabile dello stabilimento, aggredito verbalmente con minacce e frasi oltraggiose il superiore e alzato le mani sullo stesso spingendolo - integrava le ipotesi di "insubordinazione" e del "diverbio litigioso seguito dalle vie di fatto" previste dal contratto collettivo di settore quali fattispecie legittimanti il licenziamento per giusta causa. Secondo l'assunto del lavoratore, il giudice di primo grado non aveva, inoltre, considerato la sproporzione tra l'infrazione disciplinare e la sanzione, mai preceduta da richiami di sorta in 15 anni di servizio.

Avverso la sentenza della Corte d'Appello di L'Aquila, che aveva rigettato l'impugnazione confermando la pronuncia del Tribunale, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, contestando in particolare che il comportamento addebitatogli potesse inquadrarsi nella fattispecie dell'insubordinazione. Il lavoratore precisava, inoltre, che il contratto collettivo di settore individua una fattispecie complessa - ossia il diverbio litigioso seguito dalle "vie di fatto" - e che la ricostruzione della condotta contestatagli portava invece a escludere che nella fattispecie fossero ravvisabili tali "vie di fatto". Secondo il lavoratore, infatti, le sole ingiurie e minacce non potevano integrare gli estremi della fattispecie contrattuale.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo che nella fattispecie la Corte d'appello avesse correttamente valutato i fatti di causa riconducendoli nella fattispecie previste dal contratto collettivo quali ipotesi legittimanti il recesso per giusta causa. In particolare, secondo la Cassazione, il comportamento oltraggioso, intimidatorio e violento del lavoratore, concretatosi nello strattonamento e spintonamento del proprio superiore al cospetto del responsabile dello stabilimento, era stato debitamente ricondotto dalla Corte d'Appello nella fattispecie sia dell'"insubordinazione" sia del "diverbio litigioso seguito da vie di fatto" previste dal contratto collettivo.

Anche sotto il profilo della proporzionalità, infine, la Suprema Corte ha ritenuto che il giudice di secondo grado avesse correttamente motivato la propria decisione ribadendo, inoltre, che la sanzione espulsiva è proporzionata alla gravità dell'addebito anche in presenza di un unico episodio di insubordinazione.

 

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