Contenzioso

Versamenti alla previdenza integrativa e base di calcolo per il Tfr

di Silvano Imbriaci

I versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare, anche con riferimento al periodo precedente la riforma introdotta dal Dlgs 21 aprile 1993, n. 124, non hanno natura retributiva, trattandosi di esborsi non legati da nesso di corrispettività con la prestazione lavorativa; ciò esclude tali somme dalla base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro. È questo il principio espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 4684/2015, risolvendo un contrasto giurisprudenziale tra due opposti orientamenti sulla ricostruzione della natura dei versamenti alla previdenza complementare ai fini della loro inclusione nel Tfr. Occorre precisare, in via preliminare, che la questione è circoscritta ai versamenti precedenti l'entrata in vigore del Dlgs 21 aprile 1993, n. 124, normativa resa nell'ambito della riforma della previdenza complementare, ispirata al concetto di capitalizzazione individuale (accumulo dei versamenti integrativi in un conto individuale) e di contribuzione definita (la contribuzione versata, sommata ai frutti derivanti dall'investimento di quanto via via accantonato, determina la misura della futura pensione o prestazione integrativa).
Secondo la tesi della natura retributiva dei versamenti alla previdenza complementare (cfr. Cass. n. 545/2011) occorre evidenziare il nesso di corrispettività degli esborsi datoriali con la prestazione lavorativa (si tratterebbe di una sorta di “retribuzione con funzione previdenziale”: Cass. SS.UU. n. 974/1997), con la conseguenza della loro automatica computabilità nell'importo del Tfr alla cessazione del rapporto. L'orientamento opposto (su cui ad es. Cass. n. 9016/2012) muove dalla considerazione circa l'esistenza di un concetto di retribuzione allargata, nella quale possono rientrare molte forme di trasferimento di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore, in via diretta o in via di retribuzione differita. Tuttavia i versamenti al Fondo integrativo non possono dirsi omogenei rispetto alla retribuzione comunque intesa, dal momento che non possono dirsi corrisposti al lavoratore, essendo destinati ad alimentare una provvista utile (direttamente o indirettamente) a garantire un trattamento pensionistico più sostanzioso. Del resto, è l'idea che aveva già condotto la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 421/1995) a ricostruire la natura dei versamenti in questione in senso non retributivo, intervenendo sull'art. 9 bis del d.l. n. 103/1991, norma che stabiliva in via di interpretazione autentica che l'art. 12 della legge n. 153/1969 (sulla retribuzione imponibile) doveva necessariamente escludere dalla base imponibile le contribuzioni accantonate per il finanziamento dei trattamenti integrativi previdenziali ed assistenziali (ponendo fine dunque alla paradossale contribuzione su contribuzione). La Corte costituzionale aveva comunque ritenuto legittima la previsione di una contropartita necessaria rappresentata dall'introduzione di un contributo di solidarietà a carico dei datori di lavoro in favore delle gestioni pensionistiche cui erano iscritti i lavoratori.
Da queste basi muove la decisione delle Sezioni Unite del 9 marzo u.s., che, dopo aver passato in rassegna i principi generali in materia di previdenza complementare e le tesi dei due opposti orientamenti, opta decisamente per la natura non retributiva dei versamenti alla previdenza complementare. L'obbligo a carico del datore di lavoro di versare tali somme nasce da un rapporto contrattuale distinto rispetto al rapporto di lavoro e non incide sugli istituti retributivi applicati, in quanto è finalizzato all'erogazione di una prestazione/pensione a favore del lavoratore, su cui il lavoratore ha una forma di aspettativa (le somme versate non entrano direttamente nel suo patrimonio). Il meccanismo dell'accantonamento alla previdenza complementare è autonomo rispetto al rapporto di lavoro, tanto è vero che i versamenti non sono monetizzabili a favore del lavoratore e, cosa più importante, in caso di cessazione del rapporto senza il raggiungimento del diritto alla pensione integrativa, il lavoratore non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro. Da un punto di vista contributivo e fiscale, inoltre, tali somme, come abbiamo visto, non sono assoggettate a contribuzione obbligatoria ordinaria (al netto del contributo di solidarietà) e non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente ai sensi dell'art. 3, comma 2, lett. a) del Dlgs n. 314/1997, per cui la loro inclusione nella base di calcolo del Tfr sarebbe del tutto incoerente con tali limitazioni. Da un punto di vista giurisprudenziale, infine, le Sezioni Unite non disconoscono quell'orientamento della Corte di Giustizia che individua i versamenti alla previdenza complementare come vantaggi pagati direttamente o indirettamente dal datore di lavoro al lavoratore, suggerendo quindi la possibilità di una persistente natura retributiva degli stessi (cfr. sent. 17 aprile 1997, causa 147/1995). Tale accostamento, infatti, secondo la Cassazione, non implica di per sé che, in ogni caso, le quote corrisposte dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare rientrino automaticamente nella base di calcolo del Tfr.

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