Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento illegittimo e risarcimento del danno

Decadenza dall'impugnativa del licenziamento e risarcimento dei danni

Natura professionale della malattia

Nozione di mobbing

Licenziamento: proporzionalità tra violazione contestata e recesso per giusta causa

Licenziamento illegittimo e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 20 febbraio 2015, n. 3486

Pres. Stile; Rel. Maisano; P.M. Servello; Ric. D.G.; Controric. S.M. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Licenziamento illegittimo - Risarcimento del danno - Determinazione - Obbligo di diligenza - Art. 1227 c.c. - Applicabilità - Sussistenza

La regola generale di cui all'art. 1227, comma 2, c.c., che impone al creditore o al danneggiato di evitare, usando la normale diligenza, i danni che possano essere arrecati alla propria sfera giuridica dall'altrui comportamento illecito, sempre che ciò non risulti per i medesimi troppo oneroso o incida in misura apprezzabile sulla loro libertà d'azione, opera anche con riguardo al rapporto di lavoro.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Messina, che a sua volta aveva confermato la pronuncia di primo grado con riferimento all'illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, ma aveva, tuttavia, ridotto la misura del risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità (in luogo delle dieci liquidate dal Tribunale) in considerazione dell'aliunde percipiendum, per avere la lavoratrice omesso, in qualità di creditore, ed in contrasto con l'ordinario obbligo di diligenza, di adoperarsi ai fini della limitazione del danno derivante dal comportamento illecito del datore di lavoro. Alla base della decisione della Corte d'Appello vi era la considerazione del fatto che la lavoratrice aveva rifiutato la proposta transattiva avanzata dalla società dopo il licenziamento. La lavoratrice proponeva ricorso per cassazione, criticando la sentenza impugnata con riferimento alla misura del risarcimento del danno, e sottolineando che la proposta transattiva avanzata dalla società sarebbe consistita in un demansionamento vietato ai sensi dell'art. 2103 c.c.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato che la proposta transattiva formulata alla lavoratrice prevedeva, innanzitutto, il mantenimento da parte della stessa del medesimo inquadramento e del relativo trattamento economico, pur nella diversa ed inferiore posizione lavorativa messale a disposizione; in secondo luogo, ha sottolineato che le mansioni alla stessa offerte non avrebbero comportato alcun pregiudizio professionale, trattandosi di compiti comunque propedeutici alle precedenti mansioni svolte dalla stessa. Ebbene, secondo la Corte di Cassazione tali ragioni sono idonee a fondare la decisione della Corte d'Appello in ordine alla determinazione del danno risarcibile, che è quindi esente da vizi logici, essendo tra l'altro coerente con l'orientamento interpretativo consolidatosi nella giurisprudenza, secondo cui anche con riguardo al rapporto di lavoro opera la regola generale di cui all'art. 1227, comma 2, c.c., che impone al creditore o al danneggiato di evitare, usando la normale diligenza, i danni che possano essere arrecati alla propria sfera giuridica dall'altrui comportamento illecito, sempre che ciò non risulti per i medesimi troppo oneroso o incida in misura apprezzabile sulla loro libertà d'azione (vedi, da ultimo, Cass. n. 24265/2013).

Sulla base di tali elementi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto il ricorso.




Decadenza dall'impugnativa del licenziamento e risarcimento dei danni

Cass. Sez. Lav. 18 febbraio 2015, n. 3245

Pres. Vidiri; Rel. Balestrieri; P.M. Matera; Ric. G.G.; Controric. S. s.p.a.;

Impugnativa di licenziamento - Decadenza - Richiesta di risarcimento dei danni connessi all'illegittimità del licenziamento - Proponibilità - Preclusione

Al lavoratore che non abbia tempestivamente impugnato il licenziamento non solo è precluso di accertare in via giudiziale l'illegittimità del recesso ma anche di avanzare eventuali pretese risarcitorie con riferimento a danni che siano connessi al licenziamento medesimo. Ciò in quanto l'ordinamento prevede, per la risoluzione del rapporto di lavoro, una disciplina speciale, con un termine breve di decadenza (sessanta giorni) all'evidente fine di dare certezza ai rapporti giuridici.

Nota

La Corte di appello dell'Aquila, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pescara, che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice ed aveva parzialmente accolto le domande formulate dalla stessa, rigettava in toto le domande proposte dalla lavoratrice. In particolare la Corte territoriale osservava che l'intervenuta decadenza della sig.ra G. dalla facoltà di proporre impugnativa avverso il provvedimento di recesso per aver provveduto all'impugnativa dello stesso oltre il termine di sessanta giorni prescritto per legge, precludeva alla stessa di avanzare qualsivoglia pretesa risarcitoria connessa alla dedotta illegittimità del licenziamento. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice fondato su quattro motivi.

Col primo motivo la lavoratrice impugnava la sentenza di appello denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 111 Cost., ritenendo che erroneamente la Corte territoriale avesse omesso di pronunciarsi sulla eccezione di inammissibilità dell'appello, per difetto assoluto di legittimazione processuale attiva della società appellante, tenuto conto che la medesima società, a seguito di fusione per incorporazione nella società S. S.p.A., era stata cancellata dal registro delle imprese ed aveva perciò cessato di esistere da un punto di vista giuridico. Col secondo ed il terzo motivo la lavoratrice impugnava la sentenza di appello per omessa ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia, rappresentato dal difetto di procura della società appellante per difetto di rappresentanza della persona fisica che aveva conferito mandato al difensore della società medesima per la proposizione del gravame e, comunque, per inesistenza della persona giuridica rappresentata. La Suprema Corte ha dichiarato l'infondatezza, oltre che l'inammissibilità, di tali motivi di gravame, evidenziando, per un verso, che come aveva esattamente osservato la Corte territoriale, risultava provato che la persona fisica che aveva conferito mandato al difensore della società, per la proposizione dell'appello, fosse il legale rappresentante della società medesima e che, per altro verso, la società appellante non poteva ritenersi estinta, per effetto della fusione per incorporazione da parte della società S. S.p.A., in quanto, a seguito della riforma del diritto societario, la fusione per incorporazione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, senza che ciò comporti - come invece accadeva prima della riforma - l'estinzione della società incorporata e la contestuale sostituzione, da parte della società incorporante, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alla prima (cfr. Cass. 11 dicembre 2013, n. 27762; Cass. Sezioni Unite 14 settembre 2010, n. 19509; Cass. 22 marzo 2010, n. 6845).

Col quarto motivo la ricorrente lamentava che anche in caso di decadenza dall'impugnativa del licenziamento non poteva ritenersi preclusa al lavoratore la facoltà di rivendicare il risarcimento degli eventuali danni riconducibili al recesso illegittimo. La Suprema Corte ha rigettato anche quest'ultimo motivo di ricorso ribadendo l'orientamento consolidato espresso in materia, alla stregua del quale deve ritenersi che nel caso in cui il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato il licenziamento: "... è precluso l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso e, conseguentemente, la tutela risarcitoria in base alle leggi speciali, né il giudice può conoscere dell'illegittimità del licenziamento per ricollegare al recesso illegittimo le conseguenze risarcitorie di diritto comune, in quanto l'ordinamento prevede, per la risoluzione del rapporto di lavoro, una disciplina speciale, con un termine breve di decadenza (sessanta giorni) all'evidente fine di dare certezza ai rapporti giuridici."(cfr. in senso conforme Cass. 6 agosto 2013, n. 18732; Cass. 3 marzo 2010, n. 5107; Cass. 5 febbraio 2010, n. 2676).

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che, nell'ipotesi prospettata, il lavoratore può avvalersi esclusivamente dell'azione diretta all'accertamento di danni diversi, non connessi al licenziamento, rispetto ai quali, nel caso di specie, non era stata fornita alcuna prova. Per le ragioni esposte la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la sentenza impugnata.




Natura professionale della malattia

Cass. Sez. Lav. 16 febbraio 2015, n. 3097

Pres. Mammone; Rel. Garri; Ric. M.A.C.; Controric. INAIL;

Malattia professionale - Malattia ad eziologia multifattoriale - Nesso di causalità - Prova presuntiva - Insufficienza - Prova concreta e specifica dell'esposizione al rischio ambientale e della sua idoneità causale - Necessità

Perché si configuri un'ipotesi di malattia professionale, qualora la malattia si presenti ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione - quantomeno in via di probabilità - in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale e alla sua idoneità causale alla determinazione dell'evento morboso.

Nota

Nel caso di specie la Corte di Cassazione interviene su una decisione della Corte territoriale che, in riforma della pronuncia del giudice di prime cure, aveva escluso la natura professionale della malattia di un lavoratore, dipendente di un'impresa edilizia con mansioni di imbianchino, affetto da bronco pneumopatia cronico ostruttiva. Nel corso del giudizio di appello era emerso, infatti, che la patologia accertata in capo al lavoratore, non tabellata per il settore dell'edilizia, non era causalmente ricollegabile alle mansioni del lavoratore, il quale, tra l'altro, era risultato un forte fumatore. Inoltre, secondo la Corte d'Appello adita non erano stati forniti in giudizio elementi idonei a stabilire un nesso di causalità tra la patologia insorta in capo al lavoratore e le sostanze presenti nell'ambiente lavorativo (ad esempio polveri di cemento). Pertanto, posto che non si trattava di una malattia tabellata, la Corte territoriale aveva ritenuto che, ai fini del riconoscimento della sua natura professionale, fosse necessario che, contrariamente a quanto era emerso in giudizio, risultassero allegati ed acquisiti elementi che consentissero di accertare l'esposizione del lavoratore a fattori patogeni specifici nell'esecuzione della prestazione lavorativa. In assenza di tali elementi, non era stata riconosciuta la sussistenza di una malattia professionale in capo al lavoratore.

Avverso tale decisione di secondo grado hanno proposto ricorso per Cassazione gli eredi del lavoratore, sostenendo, in particolare, che la Corte territoriale non avrebbe correttamente applicato il principio dell'equivalenza delle condizioni in virtù del quale deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell'evento; l'esclusione del nesso eziologico sarebbe in tal senso ammissibile solo ove si ravvisi l'esistenza di un fattore estraneo all'attività lavorativa di per sé sufficiente a determinare la patologia riscontrata e tale non sarebbe, ad avviso dei ricorrenti, l'accertata qualità di fumatore del lavoratore.

La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, afferma invece che nell'ipotesi di malattia ad eziologia multifattoriale il nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di concreta e specifica dimostrazione - quanto meno in via di probabilità - in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale e alla sua idoneità causale alla determinazione dell'evento morboso (cfr. tra le altre Cass. n. 15400/2011). Nel caso di specie la Corte territoriale adita aveva verificato che non era stata offerta un'adeguata prova dell'avvenuta esposizione del lavoratore a fattori patogeni che potessero essere posti in connessione concausale con la broncopatia cronica ostruttiva da cui era affetto il lavoratore che, per contro, era risultato un importante fumatore e, come tale, era esposto al rischio di contrarre proprio tale patologia. In ragione di quanto precede la Corte di Cassazione conferma, quindi, la decisione del giudice del gravame, che, alla luce dei fatti accertati, aveva escluso che nel caso di specie ricorresse un'ipotesi di una malattia professionale.




Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav. 18 febbraio 2015, n. 3256

Pres. Stile; Rel. De Marinis; P.M. Servello; Ric. N.D.; Controric. S.P. s.p.a.;

Reiterazione di sanzioni disciplinari illegittime - Mobbing – Insussistenza

Si ha mobbing allorché sia ravvisabile da parte del datore o di un superiore gerarchico un atteggiamento sistematico e protratto nel tempo di ostilità verso il dipendente che si concretizzi in una molteplicità di comportamenti così da tradursi in forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica tali da indurre la mortificazione morale e l'emarginazione del lavoratore.

Nota

Nella fattispecie in esame il Tribunale di Reggio Emilia, nonostante avesse ritenuto illegittime le sanzioni conservative ed il successivo licenziamento irrogato alla dipendente di una società di fornitura di lavoro temporaneo, ha disatteso la prospettazione in termini di mobbing delle condotte, assunte come vessatorie, poste in essere dal datore, ivi comprese quelle che avevano dato causa ai provvedimenti disciplinari poi annullati. Tale pronuncia è stata confermata dalla Corte di Appello di Bologna che, nel rigettare il gravame proposto dalla lavoratrice, ha osservato che, pur in presenza del riconoscimento da parte dell'Inail della natura professionale della lamentata malattia, non risultava provata la violazione dell'art.2087 c.c. né sotto il profilo oggettivo delle condotte - che avevano visto coinvolti tutti gli altri dipendenti - né sotto quello soggettivo, non essendo emerso alcun intento persecutorio.

Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo lamentando che il convincimento espresso dal giudice in ordine all'inconfigurabilità di un'ipotesi di mobbing risulterebbe inficiato da una considerazione delle condotte pregiudizievoli denunciate solo parziale ed incentrata sul comportamento di singoli addetti, trascurandosi che essi rappresentavano il mero tramite per mezzo del quale era stato attuato il disegno persecutorio riferibile alla società.

Nel rigettare il motivo la Suprema Corte osserva che la lamentata considerazione parziale degli elementi di fatto - e, quindi, le carenze logiche-giuridiche dell'iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale - non viene in alcun modo dimostrata, limitandosi la lavoratrice a ribadire la tesi secondo cui l'assunzione da parte della Società in un breve periodo (circa due mesi) di iniziative sanzionatorie poi risultate illegittime, non rappresenta solo un esercizio scorretto del potere disciplinare ma vale, di per sé, a configurare in termini di mobbing la condotta datoriale medesima. Nel respingere tale tesi la Cassazione afferma il principio di cui alla massima, delineando la nozione di mobbing e gli elementi che lo devono imprescindibilmente caratterizzare e richiamandosi sul punto a specifici precedenti in termini (Cass. 23 ottobre 2014, n. 22535; Cass 17 gennaio 2014, n. 898; Cass 17 febbraio 2009, n. 3785).




Licenziamento: proporzionalità tra violazione contestata e recesso per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2015, n. 2552

Pres. Macioce; Rel. D'Antonio; P.M. Ceroni; Ric. P.V.; Controric. A.T.L. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Proporzionalità della sanzione - Sussistenza - Sindacabilità in sede di legittimità - Limiti

In tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità.

Nota

Un funzionario responsabile dell'ufficio commerciale di un azienda di trasporti locali veniva licenziato per giusta causa in seguito a gravi violazioni dei suoi obblighi di vigilanza e di immediata denuncia. In particolare, al lavoratore era stato contestato di aver omesso di denunciare: gli ammanchi nella raccolta del denaro dai parcometri gestiti dall'azienda, nonostante tale attività rientrasse tra le responsabilità dell'ufficio commerciale di cui era a capo; e un furto di denaro dai parcometri, perpetrato da altro dipendente della società, al quale aveva personalmente assistito.

La Corte d'Appello di Firenze, in riforma della sentenza del Tribunale di Livorno che aveva accolto il ricorso del lavoratore, dichiarava la legittimità del licenziamento intimato dalla Società. La Corte riteneva che l'aver omesso di denunciare il collega autore del furto, una volta colto sul fatto, sostituendosi così alla direzione nel decidere sul da farsi ed impedendo all'azienda di recuperare il denaro sottratto, l'intenzione di coprire tale episodio attribuendo gli ammanchi a guasti, peraltro da tempo risolti, e l'avere adottato misure non concordate quanto inefficaci al fine di evitare il ripetersi delle sottrazioni di denaro, giustificavano il licenziamento per giusta causa.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva il lavoratore; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in applicazione del principio di diritto (già espresso in Cass. n. 7984/2011) secondo cui in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità. Ad avviso della Corte di Cassazione, infatti, la Corte territoriale aveva correttamente valutato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, nonché la proporzionalità fra i fatti e la sanzione inflitta tenuto conto, tra l'altro, della qualifica di responsabile dell'ufficio commerciale e preposto, in quanto tale, alla raccolta del denaro dai parcometri gestiti dall'azienda.

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