Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Avv. Elio Cherubini - Toffoletto De Luca Tamajo e Soci Studio Legale in Milano

Licenziamento disciplinare

Mobbing e onere della prova

Licenziamento del dirigente

Licenziamento per giusta causa

Licenziamento per scarso rendimento

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2015, n. 13671

Pres. Lamorgese; Rel. Nobile; P.M. Matera; Ric. L.L.; Contr. M.L. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Immutabilità degli addebiti - Portata - Valutazione dei precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni dal licenziamento - Ammissibilità – Limiti

Il principio della immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell'art. 7 Statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati, e collocantisi a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell'imprenditore.

Lavoro subordinato - Sanzioni disciplinari - Previsione sul codice disciplinare di sanzioni conservative per violazione delle regole di correttezza - Accertamento della maggiore gravità del fatto e della conseguente legittimità del licenziamento in tronco intimato dal datore di lavoro - Ammissibilità – Fattispecie

In riferimento alla previsione del codice disciplinare, contenuta in un contratto collettivo di lavoro, la quale, in caso di violazione delle regole di correttezza nei confronti dei terzi, preveda l'irrogazione di sanzioni conservative, è corretta sul piano logico-giuridico la valutazione del giudice di merito che escluda la riconducibilità a tale previsione di una mancanza che ecceda di molto i limiti della semplice scorrettezza, ledendo principi fondamentali della convivenza civile, e quindi - facendo applicazione del principio che il licenziamento per giusta causa, di natura ontologicamente disciplinare, può fondarsi, oltre che su mancanze previste dal c.d. codice disciplinare di fonte collettiva o datoriale, anche direttamente sulla legge per violazione dei doveri fondamentali del lavoratore - ritenga legittima e giustificata l'irrogazione da parte del datore di lavoro della sanzione del licenziamento in tronco.

Nota

La sentenza in commento trae spunto da una sentenza del Tribunale di Latina del 17 febbraio 2009 (in epoca, dunque, precedente alla Riforma Fornero) che aveva respinto la domanda proposta da un lavoratore, diretta a ottenere la declaratoria della illegittimità del licenziamento irrogatogli per avere abbandonato il posto di lavoro lasciando anche incustodito il mezzo aziendale assegnato.

La Corte d'Appello di Roma, successivamente adita dal lavoratore, rigettava l'appello rilevando che, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, la lettera di licenziamento non conteneva fatti diversi da quelli oggetto della contestazione e che, con riferimento alla recidiva, si trattava di un elemento adottato come criterio di proporzionalità della sanzione. La Corte affermava, poi, che la condotta contestata non era riconducibile alla mera ipotesi dell'abbandono del posto di lavoro, essendo stato anche lasciato incustodito il mezzo aziendale assegnato, già caricato per la consegna dei pasti caldi, con conseguente interruzione del servizio e con lesione irreparabile del rapporto fiduciario.

Il lavoratore proponeva quindi ricorso per Cassazione con due motivi.

Con il primo motivo il lavoratore denunciava in particolare violazione dell'art. 7 della legge n. 300/1970, lamentando che le argomentazioni nuove addotte dall'azienda nella lettera di licenziamento - ovvero l'assoluto venir meno del rapporto fiduciario posto alla base del rapporto e la recidività in varie mancanze - non potevano essere prese in considerazione, posto che su detti aspetti non aveva potuto svolgere alcuna difesa, in quanto non specificamente contestati.

La Corte di Cassazione ha respinto il primo motivo di ricorso rilevando innanzitutto che, come affermato dal giudice di merito, la considerazione sul venir meno del vincolo fiduciario riguardasse una mera esplicazione delle ragioni del licenziamento per giusta causa e non già un fatto nuovo da contestare al lavoratore e che la recidiva non rappresentava un elemento costitutivo della condotta, oggetto prima della contestazione e poi del licenziamento, bensì un elemento adottato come criterio di proporzionalità della sanzione. Sul punto la Suprema Corte ha poi richiamato un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale "il principio della immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell'art. 7 Statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati, e collocantisi a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell'imprenditore" (v. Cass. 17 maggio 2003 n. 7734, Cass. 14 ottobre 2009 n. 21795, Cass. 19 gennaio 2011 n. 1145).

Con il secondo motivo, denunciando violazione delle disposizioni del CCNL applicato (in base alle quali l'abbandono del posto di lavoro senza giustificato motivo non è contemplato fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa ed è invece previsto fra le sanzioni conservative), il lavoratore rilevava come egli potesse essere punito dalla società al massimo con la sanzione disciplinare della sospensione.

La Suprema Corte, nel rigettare anche il secondo motivo, si è uniformata a un proprio precedente orientamento in base al quale, con riferimento alla previsione del codice disciplinare, contenuta in un contratto collettivo di lavoro, la quale - in caso di violazione delle regole di correttezza nei confronti dei terzi - preveda l'irrogazione di sanzioni conservative, è corretta sul piano logico-giuridico la valutazione del giudice di merito che escluda la riconducibilità a tale previsione di una mancanza che ecceda di molto i limiti della semplice scorrettezza, ledendo principi fondamentali della convivenza civile, e quindi - facendo applicazione del principio che il licenziamento per giusta causa, di natura ontologicamente disciplinare, può fondarsi, oltre che su mancanze previste dal c.d. codice disciplinare di fonte collettiva o datoriale, anche direttamente sulla legge per violazione dei doveri fondamentali del lavoratore - ritenga legittima e giustificata l'irrogazione da parte del datore di lavoro della sanzione del licenziamento in tronco.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte di merito aveva correttamente osservato che la condotta contestata (consistente anche nell'aver lasciato incustodito il mezzo aziendale assegnato) non era riconducibile alla mera ipotesi dell'abbandono del posto di lavoro prevista dal contratto collettivo, ma si concretava in un diverso comportamento, da valutare secondo i principi in materia di giusta causa di risoluzione ex art. 2109 c.c.




Mobbing e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2015 n. 13693

Pres. Lamorgese; Rel. Lorito; Ric. T.M.; Controric. L. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Tutela delle condizioni di lavoro - Danno alla salute del lavoratore da cd. mobbing - Responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. - Configurabilità - Condizioni - Onere probatorio del lavoratore danneggiato - Oggetto - Dimostrazione dell'avvenuta violazione di regole contrattuali o legali o della mancata adozione di misure di prevenzione

L'art. 2087 c.c., non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di allegare e provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la dimostrazione di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro 1'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Nota

La decisione della Suprema Corte in commento ha ad oggetto la ripartizione dell'onere probatorio tra datore e lavoratore nel caso in cui quest'ultimo richieda il risarcimento del danno da cd. mobbing. Investita della controversia in esame, la Corte d'Appello di Roma aveva confermato la sentenza emessa dal Tribunale con la quale era stata dichiarata la legittimità della sanzione della multa irrogata dalla Società alla lavoratrice per ripetuti ritardi ed era stata respinta la domanda risarcitoria della lavoratrice stessa in merito all'asserito mobbing, per difetto di prova.

Contro la decisione della Corte d'Appello la lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione denunciando, tra l'altro, violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., dell'art. 39 Cost. e di plurime disposizioni dello statuto dei lavoratori, nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo del giudizio.

Nello specifico la lavoratrice sosteneva che il datore di lavoro ha l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psicofisica del lavoratore, sul quale grava l'onere di dimostrare l'eventus damni e il nesso tra questo e la prestazione lavorativa. A tal proposito la lavoratrice rimarcava l'asserito errore dei giudici del gravame i quali si sarebbero limitati a rilevare un difetto di prova in merito alla condotta colposa del datore, omettendo di considerare la CTU medico legale che evidenziava l'esistenza di un nesso di causalità tra il comportamento datoriale e i disturbi psicofisici da lei sofferti.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo il motivo inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo stato riportato il tenore della CTU sulla quale il motivo è articolato e, in ogni caso, infondato. Quanto a quest'ultimo profilo, la Corte di Cassazione ha sostenuto che, poiché l'art. 2087 c.c. non integra un'ipotesi di responsabilità oggettiva, nel caso in cui il lavoratore formuli una domanda di risarcimento danni da mobbing è lo stesso lavoratore a dover allegare e provare l'esistenza del danno, così come quella del fatto materiale e delle regole di condotta che assume essere state violate. Solo ove tale onere sia stato adempiuto, il datore è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all'inosservanza di obblighi su di lui incombenti.

Secondo la Suprema Corte, pertanto, in difetto di assolvimento da parte del lavoratore dell'onere probatorio su di lui incombente, sul datore di lavoro non grava alcun onere.




Licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2015, n. 14301

Pres. Vidiri; Rel. Maisano; Ric. A.G.J. S.p.A; Controric. F.G.B.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento di dirigente - Giustificatezza - Equiparabilità alla nozione legale di giusta causa e giustificato motivo - Esclusione - Valutazione - Rimessa al giudice di merito - Sindacabilità in cassazione - Esclusione - Limiti.

La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo ex art. 1 della legge n. 604 del 1966, potendo rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. Quanto sin qui detto, tuttavia, presuppone pur sempre che il licenziamento rechi motivazione coerente e sia fondato su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, che escludano l'arbitrarietà del recesso: in altri termini, il recesso deve pur sempre ricollegarsi ad interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento e dunque ragioni obiettive ed effettive (che permettano la verifica di tali interessi), operando sempre il principio di buona fede e correttezza (ex artt. 1175 e 1375 c.c.) quale limite al potere datoriale di recesso.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte delinea la nozione di licenziamento legittimo del dirigente, da un lato, distinguendo la fattispecie della "giustificatezza" dai concetti di giusta causa e giustificato motivo oggettivo, e, dall'altro, definendo i limiti esterni di arbitrarietà e pretestuosità del recesso.

Nel caso di specie, un dirigente era stato licenziato per motivi disciplinari, consistenti in plurime condotte inadempienti contestate al dipendente. Il giudice di prime cure aveva dichiarato l'illegittimità dell'atto risolutorio, ritenendo provati, fra i molti contestati, i soli addebiti relativi ad un'assenza ingiustificata del dirigente durante una visita medica di controllo nonché l'"avere anticipato ad una dipendente la circostanza, non vera, per cui non le sarebbe stato rinnovato il contratto di lavoro".

La Corte del merito confermava la sentenza del Tribunale, che veniva impugnata con ricorso per cassazione dal datore di lavoro, il quale, essenzialmente, censurava la statuizione dei giudici d'appello sull'assunto che "trattandosi di licenziamento di dirigente, assumerebbe rilevanza anche la presenza di semplice dissidio sulle linee di politica aziendale, compromettendo il rapporto di fiducia".

La Suprema Corte ha respinto il ricorso con una motivazione articolata, che ripercorre i principî generali sulla nozione di licenziamento giustificato del dirigente.

Anzitutto, la Cassazione ricorda che la nozione di "giustificatezza", per la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo ex art. 1 della l. n. 604 del 1966, potendo rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore; correlativamente, il licenziamento del dirigente può fondarsi anche su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica. Tuttavia - soggiunge la Corte di legittimità - è sempre necessario che il recesso rechi motivazione coerente e sia fondato su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, che ne escludano l'arbitrarietà: in altri termini, il licenziamento deve pur sempre ricollegarsi ad interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento e dunque ragioni obiettive ed effettive (che permettano la verifica di tali interessi), operando sempre il principio di buona fede e correttezza quale limite al potere datoriale di recesso. Per altro verso, in tema di recesso non disciplinare - precisa la Cassazione - la libertà di iniziativa economica non è in grado ex se di offrire copertura a licenziamenti immotivati o pretestuosi.

Facendo applicazione di tali principî, il Supremo Collegio ha confermato la sentenza d'appello, che aveva escluso, con motivazione congrua e logica, che gli unici due episodi risultati provati, tra tutti quelli posti a base del recesso, fossero di entità e gravità tali da giustificare il licenziamento, ancorché di un dirigente.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 25 giugno 2015, n. 13158

Pres. Lamorgese; Rel. Venuti; P.M. Matera; Ric. M.S.; Controric. A.U.L.S.S.

Giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo - Giudizio di proporzionalità della sanzione -- Valutazione della gravità dei fatti addebitati al dipendente -- Criteri - Individuazione

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore, che, per le sue concrete modalità e il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Nota

La Suprema Corte torna a pronunciarsi, ribadendo principi ormai noti, in materia di giusta causa di licenziamento e sul giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e recesso.

La sentenza in esame attiene al caso di un lavoratore, infermiere professionale alle dipendenze di una struttura pubblica, licenziato per aver svolto la medesima attività presso un centro di analisi privato convenzionato con il Servizio Sanitario nazionale. Trattasi di un licenziamento antecedente alla Riforma Fornero.

La Corte d'Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento, essendo ravvisabili, nella specie, una situazione di conflitto di interesse potenziale tra le due attività e, conseguentemente, una lesione del vincolo fiduciario, tenuto conto delle seguenti circostanze: 1) l'impegno, in termini di ore, che il dipendente era tenuto ad assicurare presso la struttura pubblica e i frequenti cambi di turno richiesti; 2) il divieto di prestare attività presso centri privati, come risultante dal contratto di lavoro e da fonti normative.

Avverso tale sentenza il dipendente proponeva ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso l'Azienda.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ribadendo un principio, ormai consolidato in materia di licenziamento per giusta causa/giustificato motivo soggettivo, secondo cui il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso; con la conseguenza che l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (cfr. ex plurimis Cass. 22/06/2009, n. 14586; Cass. 26/07/2010, n. 17514; Cass. 13/02/2012, n. 2013). Più specificamente, nella sentenza de qua, la Suprema Corte ha precisato che spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, assegnandosi rilievo all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.

Ebbene, la Suprema Corte, venendo all'esame del caso di specie, ha ritenuto non adeguatamente motivata la sentenza impugnata sulla scorta delle seguenti considerazioni: a) la Corte territoriale non ha considerato che dalla prova testimoniale espletata e dalla documentazione prodotta risultava provata l'esistenza di una prassi aziendale per cui tutti potevano richiedere cambi di turno, previo avviso all'infermiere coordinatore; b) la Corte, comunque, non ha spiegato quale disservizio e/o danno i cambi di orario richiesti dal ricorrente avrebbero arrecato alla struttura pubblica; c) la Corte di merito non ha tenuto conto dell'esiguità dell'apporto lavorativo del ricorrente presso la struttura privata e dell'assenza di precedenti disciplinari in capo al lavoratore; d) la Corte d'Appello, infine, ha omesso di considerare che l'esclusività del rapporto di lavoro pubblico (prevista dal contratto individuale e da fonti normative) non è un principio assoluto, conoscendo lo stesso delle deroghe.




Licenziamento per scarso rendimento

Cass. Sez. Lav. 9 luglio 2015, n. 14310

Pres. Vidiri; Rel. Doronzo; P.M. Celentano; Ric. D.M.M.; Contr. V.O. n.v.;

Licenziamento per scarso rendimento - Risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. - Notevole discostamento dai parametri aziendali - Ammissibilità

Se è vero che nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un determinato risultato ma alla messa a disposizione del datore di lavoro delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove tuttavia siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento da detti parametri costituisce segno o indice di non corretta esecuzione e può legittimare il licenziamento per scarso rendimento.

Nota

La Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale del lavoro di Ivrea, aveva rigettato la domanda proposta da un lavoratore volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli. La Corte, dissentendo dalla decisione del primo giudice, aveva ritenuto che la contestazione formulata per scarso rendimento risultava fondata in quanto, dall'esame dei report settimanali, era emersa la scarsa produttività del dipendente, sia in assoluto che per comparazione con la produttività di altri colleghi aventi il suo stesso profilo; che la contestazione doveva ritenersi altresì tempestiva poiché il giudizio sulla sussistenza della scarso rendimento presuppone un'osservazione protratta nel tempo; infine, che la società non aveva violato il principio di buona fede non segnalando al lavoratore la difformità dagli standard, in quanto "è fuor di logica" ritenere che gravi sul datore di lavoro l'onere di sollecitare il dipendente ad adempiere l'obbligazione fondamentale del rapporto lavorativo, che è quella di eseguire la prestazione dedotta.

Avverso tale decisione il lavoratore propone ricorso per Cassazione denunciando la tardività della contestazione di addebito, considerato che, a suo dire, la società sin dall'anno precedente era stata in grado di verificare il preteso scarso rendimento, nonché la violazione dell'art. 7 L. 300/1970 e dell'art. 1175 c.c.

La Corte respinge il ricorso, rilevando, in primo luogo, che l'immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi tenere conto del tempo necessario all'accertamento dei fatti. Nel caso di specie correttamente la Corte di appello aveva considerato la necessità per l'imprenditore di servirsi di un congruo periodo di osservazione per valutare la condotta del lavoratore e confrontarla con quella dei suoi colleghi, al fine di ravvisare se vi fosse la violazione del dovere di diligenza (cfr. Cass. del 22 gennaio 2009, n. 1632), anche considerato che la violazione contestata al lavoratore è costituita non già da un unico episodio, o da più episodi singolarmente considerati, bensì da una condotta continuativa, che si è protratta nel tempo.

Il licenziamento per c.d. scarso rendimento, prosegue la Cassazione, costituisce un'ipotesi di recesso datoriale per notevole inadempimento agli obblighi contrattuali, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento, ex artt. 1453 e ss. c.c.

Ciò in quanto nel contratto di lavoro subordinato il dipendente non si obbliga al raggiungimento di un risultato ma alla messa a disposizione delle proprie energie nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento di un obiettivo prefissato non costituisce di per sé inadempimento. Ove, però siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento da tali parametri può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione.

Nel caso in esame, a parere dei giudici di legittimità, la Corte di appello aveva correttamente ravvisato una enorme sproporzione tra l'attività lavorativa del ricorrente rispetto a quella dei suoi colleghi, anche di inquadramento inferiore e di minore anzianità, considerando, nel periodo di riferimento, che lo stesso aveva realizzato attività di minore qualità professionali ed un indice di produttività del tutto insoddisfacenti.

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