Contenzioso

Legittimo il recesso oltre la soglia del comporto

di Uberto Percivalle e Serena Pasquetto

La sentenza della Corte d'appello di Milano (sez. lavoro) n. 780 del 5 ottobre scorso offre interessanti spunti sul requisito di tempestività cui soggiace il recesso datoriale per superamento del periodo di comporto.

Investita della controversia in esame, la Corte ha confermato la decisione del giudice di prime cure con la quale era stata dichiarata la legittimità del recesso intervenuto a distanza di ben 457 giorni dalla scadenza del comporto, decorso a seguito di 365 giorni di malattia continuativa (cosiddetto comporto secco).

Il ricorso della lavoratrice si fondava sulla considerazione che l'aver tollerato 457 giorni di malattia (dopo un comporto di 365 giorni) prima di intimare il licenziamento, avesse ingenerato in lei l'affidamento nella conservazione del posto di lavoro, malgrado il prolungarsi della malattia. È interessante notare come la lavoratrice intendesse, tra l'altro, provare che la legittima aspettativa di riprendere servizio dipendesse da colloqui d'incoraggiamento intercorsi con i responsabili aziendali, dopo aver superato il termine di comporto. I giudici sul punto sono stati tranchant nel ritenere che, proprio la correttezza e la buona fede che la lavoratrice riteneva violate, dovevano far ritenere che si trattasse solo di parole d'incoraggiamento, comprensibili dato il momento critico della vita della dipendente, ma prive di valenza giuridica nell'obbligare al suo reinserimento al rientro dalla malattia, dato l'inevitabile evolversi della situazione organizzativa di qualsiasi società.

La Corte d'appello, nel respingere l'eccezione d'intempestività del recesso, ha richiamato quella giurisprudenza assolutamente prevalente secondo cui il datore ha il diritto di attendere il rientro in servizio del lavoratore malato per poter valutare un possibile riutilizzo nell'assetto riorganizzativo, ma senza che tale attesa costituisca una rinuncia al diritto di recesso.

Non esistendo termini di legge, la tempestività del licenziamento dopo il rientro deve valutarsi caso per caso. Su tale punto si deve constatare come nel caso al vaglio la società abbia proceduto al licenziamento in tempi stretti, dopo soli nove giorni dal rientro in servizio della lavoratrice. Si potrebbe pensare (anche se a dire il vero la Corte d'appello non lo afferma) che il brevissimo intervallo tra la ripresa in servizio e il licenziamento sia stato valutato come prova della buona fede nell'attendere il rientro dalla malattia, anche se per poi decidere il recesso. Questo spiegherebbe perché in precedenti casi (ad es. Cass. 267/91), il decorso di un tempo più lungo dal rientro, non spiegabile con la necessità aziendale di verificare concretamente l'opportunità di conservare il posto di lavoro, abbia invece portato a una censura di intempestività.

Peraltro l'esigenza di tempestività del recesso dopo il rientro in servizio deve fare i conti con le concrete caratteristiche organizzative e dimensionali che influiscono sul processo decisionale (su tale considerazione la Suprema Corte (sez. lavoro) con sentenza 16267/15 ha recentemente ritenuto che, nell'ambito di una società di mille dipendenti, il decorso di un mese e mezzo dal rientro in servizio non integrasse una rinuncia al recesso).

Inoltre ricordiamo che, se la richiesta di accertamenti sullo stato di salute del lavoratore non implica alcuna rinuncia al diritto di recesso (Cass. 7047/03), al contrario, la concessione di un periodo di congedo parentale (Cass. 1438/08) o di ferie (Cass. 20722/15) può interrompere il collegamento temporale-causale tra il superamento del comporto e il licenziamento intimato al rientro in servizio, mettendone in dubbio la fondatezza.

In conclusione, se la sentenza commentata esclude che, perdurando la malattia, basti superare la soglia del comporto per rendere intempestivo il licenziamento, nel caso di licenziamento intimato dopo il rientro in servizio, vi è rischio che il lasso di tempo, seppur piuttosto breve, tra il momento della ripresa lavorativa e l'irrogazione del licenziamento, eventualmente accompagnato da altre circostanze penalizzanti, possa equivalere ad implicita rinuncia a risolvere il rapporto.

Corte d'appello di Milano 780/15

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