Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno

Nozione di mobbing

Licenziamento per giusta causa

Conversione del rapporto da part-time a full-time

La Cassazione accoglie una nozione estensiva di trasferimento d'azienda

Infortunio sul lavoro e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 15 gennaio 2016, n. 583

Pres. Stile; Rel. Bronzini; Ric. M.F.; Contr. I.N.A.I.L.;

Lavoro subordinato - Infortunio sul lavoro - Risarcimento del danno - Valutazione e liquidazione - In genere - Danni biologico ed esistenziale - Automaticità della loro esistenza e del conseguente riconoscimento - Esclusione - Onere probatorio incombente al lavoratore - Sussistenza

La risarcibilità di plurime voci di danno non patrimoniale è ammessa purché tali voci siano allegate e provate nella loro specificità e quindi non automaticamente liquidate in via cumulativa in relazione allo stesso evento. Tale principio realizza una ragionevole mediazione tra l'esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all'integrità psico-fisica della persona che hanno tratti unitari e che possono essere globalmente valutati e quella di valutare la possibile incidenza dell'atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del "cittadino-lavoratore" protetti non solo dalle fonti costituzionali interne, ma anche da quelle internazionali e comunitarie (segnatamente dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). Tuttavia è onere del lavoratore provare che un particolare e specifico aspetto della sua personalità e integrità morale (anche dal punto di vista professionale) non sia stato già risarcito a titolo di danno morale; altrimenti si ricadrebbe nella prassi già stigmatizzata con la sentenza delle Sezioni Unite del n. 26973 del 2008 - cha ha sancito il principio della tendenziale unicità della categoria del danno non patrimoniale con conseguente inammissibilità della sua suddivisione in varie "sottocategorie" - e si verrebbe a duplicare l'entità del danno morale risarcibile senza un obiettivo e razionale fondamento.

Nota

La vicenda in esame trae origine da una sentenza del Tribunale di Terni che, in conseguenza di un infortunio sul lavoro, aveva accertato che la responsabilità dell'evento era esclusivamente della società datrice di lavoro e aveva determinato l'entità del danno non patrimoniale in euro 88.151,50 per danno morale ed euro 52.890,90 per danno esistenziale, oltre alla liquidazione del danno biologico e patrimoniale.

La Corte d'Appello, successivamente adita, accoglieva il ricorso proposto dalla datrice di lavoro esclusivamente con riferimento al capo relativo al danno esistenziale, chiarendo che il risarcimento di tale voce di danno doveva essere escluso alla luce della giurisprudenza di legittimità che esclude appunto la ripetizione di voci di danno già liquidate a titolo di danno morale non patrimoniale.

Avverso tale pronuncia il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione allegando violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 c.c. Secondo l'assunto del ricorrente, tutti i pregiudizi diversi dalle sofferenze soggettive e dalla lesione dell'integrità psico-fisica avrebbero dovuto essere risarciti in quanto conseguenza della violazione dei diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti. Il ricorrente, in particolare, deduceva di aver subito rilevanti danni, già liquidati dal giudice di primo grado, conseguenti alle significative ripercussioni nel contesto familiare, sociale e lavorativo riportate a seguito dell'infortunio subito: tali danni andavano liquidati in aggiunta al danno morale ed al danno biologico.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando la nota pronuncia delle Sezioni Unite del 2008 (n. 26973/2008), che ha affermato il principio della tendenziale unicità della categoria del danno non patrimoniale con conseguente inammissibilità della sua suddivisione in varie "sottocategorie" che possono condurre a una moltiplicazione delle voci di danno, tra cui in particolare quella per "danno esistenziale", liquidate in relazione alla medesima situazione di sofferenza individuale. La Cassazione ha altresì sottolineato come la sentenza della Corte d'Appello avesse, in ogni caso, richiamato anche una giurisprudenza precedente (cfr. Cass. n. 13549/2006, Cass. n. 6572/2006; Cass. n. 2546/2007) che ammette, invece, la risarcibilità di plurime voci di danno non patrimoniale purché allegate e provate nella loro specificità e quindi non automaticamente liquidate in via cumulativa in relazione allo stesso evento. La Corte ha precisato che tale tendenza giurisprudenziale sembra in via di consolidamento, in quanto realizza una ragionevole mediazione tra l'esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all'integrità psico-fisica della persone che hanno tratti unitari e che possono essere globalmente valutati e quella di valutare la possibile incidenza dell'atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del "cittadino - lavoratore" protetti non solo dalle fonti costituzionali interne, ma anche da quelle internazionali e comunitarie (segnatamente dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). Tuttavia è pacificamente onere del lavoratore provare che un particolare e specifico aspetto della sua personalità e integrità morale (anche dal punto di vista professionale) non sia stato già risarcito a titolo di danno morale; altrimenti si ricadrebbe nella prassi già stigmatizzata con la richiamata sentenza delle Sezioni Unite del 2008 e si verrebbe a duplicare (o addirittura triplicare) l'entità del danno morale risarcibile senza un obiettivo e razionale fondamento. Secondo quanto affermato dalla Cassazione, nella fattispecie in esame, la Corte territoriale aveva osservato che la sentenza di primo grado aveva liquidato le somme attribuite per danno morale e per danno esistenziale in relazione alle medesime sofferenze patite dal lavoratore ed accertate in istruttoria - e cioè al ridursi drastico di attività ludiche, con grave contraccolpo psicofisico ed un senso di mortificazione nel contesto familiare, degli amici e del lavoro - portando così ad una duplicazione del danno risarcibile. E pertanto, facendo corretta applicazione dei principi sopra richiamati, aveva correttamente escluso la risarcibilità del danno esistenziale.




Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav. 8 gennaio 2016, n. 158

Pres. Macioce; Rel. D'Antonio; P.M. Ceroni; Ric. C.A.; Controric. I.N.A.I.L..

Lavoro subordinato - Mobbing - Configurabilità - Elementi costitutivi

Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo.

Nota

La Corte d'Appello di Perugia, in riforma della sentenza del tribunale di Terni, rigettava la domanda proposta da un lavoratore volta ad ottenere nei confronti dell'INAIL la rendita per malattia professionale (disturbo dell'adattamento con umore depresso) derivante dalla condotta mobbizzante posta in essere nei suoi confronti dal datore di lavoro. La Corte territoriale riteneva insussistente il denunciato comportamento mobbizzante (consistente in una serie di condotte, quali, la collocazione in cassa integrazione, la messa in ferie forzata e lo stato di inattività perpetrato per un certo lasso temporale), in assenza di prova dell'intento persecutorio del datore di lavoro.

Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi.

In particolare, il ricorrente denunciava: a) violazione di legge, per aver la Corte d'Appello omesso una valutazione complessiva degli elementi mobbizzanti denunciati, da cui emergeva l'univoco disegno datoriale di estromettere il lavoratore; b) vizio di motivazione (erronea valutazione delle risultanze probatorie e omesso e/o insufficiente esame di fatti decisivi), per aver la Corte di merito totalmente trascurato la CTU svolta in primo grado (che aveva affermato il collegamento tra le patologie riscontrate e le condotte mobbizzanti).

La Suprema Corte, valutando congiuntamente le censure, ha rigettato il ricorso richiamando la nozione di mobbing più volte affermata (Cass. 06/08/2014 n. 17698 e Cass. 07/08/2013 n. 18836) e ribadendo che, ai fini della sussistenza di una condotta lesiva rilevante del datore di lavoro è necessario che via siano sia l'elemento oggettivo (molteplicità e sistematicità di comportamenti di carattere persecutorio) che l'elemento soggettivo (coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare un danno). L'accertamento di tali elementi è rimesso al giudizio di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, riservato al giudice di merito, il quale dovrà valutare, in maniera rigorosa, entrambi gli elementi costitutivi della fattispecie. Ebbene, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza di una condotta mobbizzante, non essendo stata fornita in giudizio dal lavoratore la prova dell'elemento soggettivo (volontà del datore di lavoro di nuocere).

La Suprema Corte ha ritenuto tale pronuncia immune da censure - avendo la Corte di merito dato conto, con argomentazione logicamente congrua, delle fonti del proprio convincimento - e reputando, al contrario, le censure avversarie volte, sostanzialmente, a sollecitare una rivisitazione del quadro probatorio, inammissibile in Cassazione a fronte di una congrua valutazione dello stesso da parte del Giudice di merito.

Ha ritenuto, infine, la Corte di legittimità assolutamente irrilevante il mancato richiamo, nella sentenza gravata, delle conclusioni del CTU, atteso che non spetta al consulente l'accertamento dei fatti qualificati come mobbing.



Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 4 gennaio 2016, n. 21

Pres. Venuti; Rel. Cavallaro; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. F.C. S.r.l.; Contr. L.R.;

Licenziamento per giusta causa - Giudizio di impugnativa - Domanda di annullamento del licenziamento - Include la domanda di riconoscimento del diritto al preavviso - Rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento - Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c. - Sussiste

Il giudice, anche d'impugnazione, che ometta di pronunciarsi anche d'ufficio sulla possibilità che un licenziamento intimato per giusta causa possa essere qualificato in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, incorre nella censura di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione cassa con rinvio una sentenza d'appello in materia di licenziamento per giusta causa, affermando un principio estremamente interessante per i datori di lavoro, perchè consente a questi ultimi di "salvare" in giudizio licenziamenti intimati per giusta causa, anche se sorretti da fatti riconducibili meramente ad un giustificato motivo soggettivo.

Come è noto, dal punto di vista sanzionatorio le due forme di recesso si differenziano unicamente per il diritto al preavviso riconosciuto al lavoratore licenziato per giustificato motivo soggettivo (eventualmente anche monetizzabile), negato - al contrario - nei casi di licenziamento per giusta causa (c.d. in tronco): in questi ultimi la gravità della condotta addebitata al lavoratore determina l'impossibilità di una prosecuzione, anche temporanea - limitata cioè al solo preavviso - del rapporto. Va premesso che, nella stragrande maggioranza dei casi di impugnativa del licenziamento disciplinare, il lavoratore agisce in giudizio chiedendo, genericamente, l'annullamento dell'atto di recesso datoriale, assumendone il carattere ingiustificato ed articolando richieste di carattere sia reintegratorio che risarcitorio. Orbene, con la pronuncia in questione, alla richiesta di annullamento del licenziamento per giusta causa la Cassazione riconduce altresì - ritenendola compresa nella prima - la domanda di riconoscimento dell'indennità del preavviso: dovuta unicamente nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Conseguentemente, la Corte radica in capo al giudice un obbligo di verificare - anche d'ufficio - l'eventuale fondatezza di tale ultima domanda. Ad opinione del Collegio, il medesimo ragionamento opera altresì nell'ipotesi opposta, in cui sia il datore di lavoro ad agire in giudizio impugnando una pronuncia sfavorevole di primo grado: quando, cioè, dal punto di vista sostanziale sia il datore di lavoro a proporre una domanda di accertamento della legittimità del licenziamento irrogato al lavoratore. Sul punto, i Giudici di legittimità, dopo aver premesso che "la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro", affermano:

"E se ciò in generale abilita il giudice a convertire (rectius, valutare) un licenziamento per giusta causa in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo senza che ciò comporti violazione dell'art. 112 c.p.c. (fermo restando il principio dell'immutabilità della contestazione e persistendo la volontà del datore di risolvere il rapporto), dal momento che nelle più ampie pretese economiche collegate dal lavoratore all'annullamento del licenziamento ritenuto ingiustificato ben può ritenersi compresa quella di minore entità derivante da un licenziamento che, pur qualificandosi come giustificato, preveda il diritto del lavoratore al preavviso, il carattere meramente qualificatorio della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo comporta che, ove il datore di lavoro impugni globalmente la sentenza di primo grado che ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento, nella sua domanda al giudice d'appello di dichiarare la legittimità della risoluzione del rapporto deve ritenersi compresa la minor domanda di dichiarare la risoluzione dello stesso rapporto per la sussistenza di giustificato motivo soggettivo". Ebbene, dall'inclusione, all'interno delle domande relative all'accertamento della illegittimità/legittimità del licenziamento per giusta causa, di quelle relative alla valutazione della eventuale sussistenza del giustificato motivo soggettivo (e del relativo diritto al periodo di preavviso), la Corte fa discendere una diversa articolazione del thema decidendum devoluto al giudice, affermando che quest'ultimo, in base al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all'art. 112 c.p.c., è tenuto a verificare, anche d'ufficio, la possibilità di convertire per via giudiziale il licenziamento in tronco in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Conseguenza di ciò è che l'eventuale omissione di tale adempimento - come nel caso della sentenza in commento - comporterà la sussistenza di un valido motivo di ricorso per Cassazione.



Conversione del rapporto da part-time a full-time

Cass. Sez. Lav. 14 dicembre 2015, n. 25159

Pres. Roselli; Rel. Bronzini; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. F.S.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Orario di lavoro - In genere - Trasformazione a tempo parziale del rapporto a tempo pieno - Mancata concessione - Inadempimento contrattuale per violazione degli obblighi di buona fede e correttezza - Sussistenza - Condizioni - Conseguenze

In tema di prestazioni di lavoro subordinato, la mancata concessione della trasformazione del rapporto da "part time" a tempo pieno, ove nel caso concreto quest'ultima risulti giuridicamente doverosa ai sensi e per gli effetti della contrattazione collettiva, costituisce violazione dei criteri di buona fede e correttezza che debbono ispirare l'esecuzione del contratto e, quindi, inadempimento contrattuale, di cui si può chiedere l'accertamento in relazione alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla mancata trasformazione del rapporto di lavoro. In siffatta ipotesi, la misura del risarcimento va logicamente individuata nelle somme non percepite in relazione alla mancata trasformazione.

Nota

La sentenza in commento affronta la questione del diritto di precedenza alla conversione del rapporto da part-time a full-time, con specifico riferimento al tema del risarcimento del danno in caso di violazione di tale diritto. Con sentenza del Tribunale di Bergamo veniva accertato l'inadempimento della società convenuta rispetto all'obbligazione di conversione del rapporto di lavoro della ricorrente da part-time a full-time, sancita da un accordo sindacale. Conseguentemente la società veniva condannata al pagamento delle relative differenze retributive. La Corte d'Appello di Milano confermava tale sentenza, sostenendo che tanto la richiesta di conversione da parte della lavoratrice quanto le assunzioni operate dalla società nel periodo rilevante erano pacifiche.

La società proponeva ricorso in Cassazione contro tale sentenza, cui la lavoratrice resisteva con controricorso.

In primo luogo, la società sosteneva la non sussistenza del diritto alla conversione del rapporto in capo alla lavoratrice poiché le assunzioni cui aveva proceduto erano state a tempo determinato e successivamente convertite a tempo indeterminato in base a sentenze che avevano accertato la nullità dei termini apposti.

Sul punto la Suprema Corte confermava la sentenza della Corte territoriale ribadendo che la società non aveva provato le circostanze di cui sopra e aggiungendo che, in ogni caso, anche ove le stesse fossero state dimostrate ciò non avrebbe determinato il venir meno del diritto della lavoratrice, posto che l'accordo sindacale in esame non distingueva tra le ragioni specifiche dell'assunzione.

In secondo luogo la società sosteneva che non fossero dovute le differenze retributive cui era stata condannata perché non era stata resa la corrispondente prestazione lavorativa. Anche su tale punto la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato affermando che, in tema di prestazioni di lavoro subordinato, la mancata concessione della trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno, ove risulti giuridicamente doverosa, "costituisce violazione dei criteri di buona fede e correttezza che debbono ispirare l'esecuzione del contratto e, quindi, inadempimento contrattuale, di cui si può chiedere l'accertamento in relazione alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla mancata trasformazione del rapporto di lavoro". Conseguentemente la misura del risarcimento dovuto è stata correttamente individuata nelle retribuzioni non percepite per la mancata trasformazione.

In virtù di quanto sopra la Cassazione ha rigettato l'intero ricorso.



La Cassazione accoglie una nozione estensiva di trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2015, n. 24804

Pres. Amoroso; Rel. Nobile; P.M. Matera; Ric. S.A.S. s.c.p.a.; Contr. D.L. più altri;

Art. 2112 c.c. - Cessazione attività da parte della società cedente - Assunzione da parte della cessionaria di personale già dipendente presso la società cedente - Atto autoritativo della P.A. - Trasferimento d'azienda - Sussistenza

In tema di trasferimento d'azienda, la funzione garantistica nei confronti dei lavoratori assegnata dall'art. 2112 c.c. - in conformità anche con le indicazioni contenute nella normativa europea di riferimento e con le sentenze della Corte di giustizia UE in materia - comporta l'accoglimento di una nozione estensiva del trasferimento di azienda, la quale ricomprende in esso tutte le ipotesi di trasferimento anche di una singola attività di impresa, sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di rapporti interessati al fenomeno traslativo, anche quindi in assenza del trasferimento di significativi beni patrimoniali, materiali o immateriali.
In tal senso deve ritenersi applicabile l'art. 2112 c.c. anche nei casi in cui il trasferimento d'azienda non derivi dall'esistenza di un contratto tra cedente e cessionario ma sia riconducibile ad un atto autoritativo della P.A.

Nota

La Corte di appello di Palermo confermava la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Agrigento che aveva accolto l'opposizione ex art. 1, comma 51, L. n. 92/2012, proposta da una serie di lavoratori, così annullando il licenziamento collettivo loro intimato per cessazione dell'attività da parte della loro datrice di lavoro. La Corte di merito dichiarava che un'altra società consortile (d'ora in poi SAS) a totale partecipazione pubblica era subentrata nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, conseguentemente ordinava a quest'ultima di reintegrare in servizio i lavoratori, condannandola, altresì, al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. In sintesi, la corte territoriale aveva accertato la sussistenza di un trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c. essendo la SAS subentrata nella stessa attività economica già svolta dalla precedente azienda ed avendo utilizzato la quasi totalità della forza lavoro in precedenza addetta all'attività medesima.

Avverso tale sentenza la SAS propone ricorso per cassazione denunciando violazione dell'art. 2112 c.c., in quanto la corte di merito avrebbe erroneamente ritenuto che il semplice passaggio di personale da un soggetto ad un altro, che è subentrato nell'attività economica da questo svolta, costituisca di per sé trasferimento d'azienda. La violazione sarebbe consistita nel non ritenere necessario l'accertamento del tipo di attività svolta e delle concrete modalità di essa, nonchè nell'omessa verifica dell'effettivo passaggio o meno di beni o strumenti materiali, affinché si realizzi la fattispecie di cui all'art. 2112 c.c.

La Cassazione ritiene il motivo non meritevole di accoglimento. Invero, come ha più volte precisato la medesima sezione, in materia di trasferimento d'azienda, le direttive comunitarie, nell'ambito del fenomeno della circolazione aziendale, perseguono lo scopo di garantire ai lavoratori - assicurando la continuità dell'inerenza del rapporto di lavoro all'azienda, o alla parte di essa, trasferita ed esistente al momento del trasferimento - la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell'imprenditore. Ne consegue che per "ramo d'azienda", come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e consenta l'esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo, il cui accertamento presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, quali l'eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, l'avvenuta riassunzione della maggior parte del personale ad opera della nuova impresa, l'eventuale trasferimento della clientela nonchè il grado di analogia tra le attività esercitate prima e dopo la cessione (Cass. 17 marzo 2009, n. 6452).

Del resto, prosegue la Suprema Corte, deve essere ribadito che la funzione garantistica nei confronti dei lavoratori comporta l'accoglimento di una nozione estensiva del trasferimento d'azienda, la quale ricomprende in esso tutte le ipotesi di trasferimento anche di una singola attività di impresa - sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di rapporti interessati al fenomeno traslativo - anche, quindi, in assenza del trasferimento di significativi beni patrimoniali, materiali o immateriali (Cass. 22 luglio 2002, n. 10701; Cass. 17 marzo 2009, n. 6452).

Peraltro è stato più volte chiarito che l'art. 2112 c.c. deve ritenersi applicabile anche nei casi in cui il trasferimento d'azienda non derivi dall'esistenza di un contratto tra cedente e cessionario ma sia riconducibile ad un atto autoritativo della P.A. (Cass. 15 ottobre 2010, n. 21278) e che la norma postula soltanto che il complesso organizzato dei beni dell'impresa sia passato ad un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio.

Ebbene, applicando tali principi al caso in esame, a parere della Suprema Corte, correttamente la corte di merito aveva rilevato che la nuova SAS era subentrata nell'attività economica della precedente azienda, impiegando la quasi totalità della forza lavoro in precedenza addetta all'attività medesima, e quindi configurando un vero e proprio trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c.

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