Contenzioso

Legittimo il rifiuto della prestazione lavorativa se manca la sicurezza

di Massimiliano Biolchini e Lorenzo Zanotti

Laddove vengano meno le condizioni di sicurezza sul luogo di lavoro, i dipendenti possono legittimamente rifiutarsi di rendere la propria prestazione lavorativa, conservando al contempo il diritto alla retribuzione.


Tale principio è stato recentemente ribadito dalla sentenza della Corte di cassazione n. 836/2016, con riferimento al caso di un'azienda nel cui reparto assemblaggio si era verificata la caduta di alcuni manufatti, con potenziale grave pericolo per l'addetto che ne fosse stato investito. In occasione dell'ennesimo incidente, gli operai si erano rifiutati di proseguire il lavoro sino all'ultimazione degli interventi di riparazione da parte della squadra di manutenzione. Per la società tale sospensione unilaterale della prestazione lavorativa andava qualificata come sciopero, con la conseguenza che il personale astenutisi dal lavoro non aveva diritto alla retribuzione corrispondente al periodo di fermo.
La tesi sostenuta dall'azienda è stata smentita dalla Corte, la quale ha chiarito che a fronte della violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di garantire condizioni di sicurezza sul lavoro ai sensi dell'articolo 2087 del codice civile, non solo è legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva altresì il diritto alla retribuzione, non potendogli derivare conseguenze sfavorevoli in ragione dell'inadempimento datoriale.


Questa ricostruzione trova fondamento nei principi civilistici in materia contrattuale, secondo cui, in caso di inadempimento da parte di uno dei contraenti, l'altra parte può autotutelarsi rifiutando di rendere la propria prestazione corrispettiva fino a quando perduri l'inadempimento. Va rilevato, in proposito, come in ossequio al canone della buona fede nei rapporti contrattuali (e, per quanto qui interessa, nel rapporto di lavoro), affinché il rifiuto della prestazione lavorativa sia legittimo e permanga il diritto alla retribuzione, non è sufficiente che il datore di lavoro venga meno ad uno qualsiasi dei propri obblighi, ma occorre - come nel caso di specie - che l'inadempimento appaia di rilevanza tale da giustificare l'interruzione della prestazione. Occorre, pertanto, operare una valutazione comparativa dei comportamenti delle parti, che tenga conto non soltanto della coincidenza temporale tra i due inadempimenti, ma anche del canone di proporzionalità della reazione di una parte rispetto all'inadempimento dell'altra, e del nesso di causalità tra le due condotte.


In questo senso, occorre tenere presente che l'articolo 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, è posto a presidio di beni di rilievo costituzionale (quale il bene primario della salute), così risultando idoneo, nei casi di più grave violazione dello stesso, a giustificare l'interruzione della prestazione lavorativa.


In linea con quanto detto, il principio ribadito dalla Cassazione con la sentenza in commento potrebbe estendersi anche ai casi più gravi di mobbing, tali da comportare una persistente violazione dell'articolo 2087 del codice civile da parte del datore di lavoro, colpevole di non aver adottato misure idonee a predisporre un ambiente di lavoro sufficientemente sereno e scevro da comportamenti lesivi dell'integrità psicofisica dei lavoratori.


Ugualmente, deve ritenersi possibile per il lavoratore sollevare l'eccezione di inadempimento laddove il datore di lavoro venga meno alla propria obbligazione principale, consistente nel pagamento della retribuzione. In altri casi, invece, la giurisprudenza tende ad escludere l'utilizzabilità del rimedio in parola, come nell'ipotesi di ordini datoriali ritenuti illegittimi, quali la richiesta di svolgere mansioni inferiori (situazione che potrà eventualmente trovare tutela in sede giudiziale).


In tutti i casi, non si potrà comunque prescindere da un'attenta valutazione degli interessi in gioco, tenendo conto, in particolare, del rischio che il lavoratore unilateralmente astenutosi dalla prestazione possa andare incontro a sanzioni disciplinari laddove non riesca a provare che l'inadempimento datoriale era tale da giustificare l'immediata interruzione della prestazione lavorativa.

La sentenza 836/16 della Corte di cassazione

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