Contenzioso

Rassegna della cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per riduzione di personale

Criteri di scelta nei licenziamenti collettivi

Licenziamento per giusta causa

Contratti di somministrazione a termine

Lavoro straordinario e prova presuntiva

Licenziamento per riduzione di personale

Cass. Sez. Lav. 1 febbraio 2016, n. 1842

Pres. Venuti; Rel. Balestrieri; P.M. Mastroberardino; Ric. A. S.p.A.; Controric. e Ric. Inc. B.L.;

Licenziamento collettivo - Art. 4, comma 9, Legge n. 223/1991 - Comunicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare - Violazione - Inefficacia - Sussiste

I licenziamenti per riduzione di personale, effettuati ai sensi dell'art. 4 legge n. 223/1991 sono inefficaci, ai sensi del terzo comma del successivo art. 5, qualora siano intimati in violazione della prescrizione prevista dal nono comma dell'art. 4, che impone al datore di lavoro la comunicazione, agli uffici competenti ed alle organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.

Nota

Con ricorso al tribunale di Roma il lavoratore impugnava il licenziamento irrogatogli dalla società datrice all'esito di una procedura di licenziamento collettivo e, dopo aver dedotto l'inefficacia e/o la nullità e/o l'illegittimità della procedura di mobilità che l'aveva visto coinvolto, chiedeva che fosse dichiarata l'illegittimità del licenziamento, con conseguente reintegra nel proprio posto di lavoro. Radicatosi il contraddittorio il tribunale di Roma respingeva la domanda. Avverso tale sentenza proponeva appello il lavoratore e resisteva la società datrice di lavoro. La Corte di appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento impugnato, ordinando alla società la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro con condanna della stessa al pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni globali di fatto maturate dal momento del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra. In particolare, la Corte territoriale riteneva che la comunicazione effettuata dalla società datrice, ai sensi del nono comma dell'art. 4 della legge n. 223/1991, dovesse ritenersi insufficiente in quanto priva dell'elenco completo di tutti i dipendenti dell'azienda - essendo indicati invece solo i dipendenti licenziati -, e priva altresì della puntuale indicazione delle modalità di applicazione dei criteri selettivi adottati per individuare i dipendenti da licenziare. Per la cassazione di tale sentenza proponeva ricorso la società datrice di lavoro, affidato a tre motivi. Resisteva il lavoratore con controricorso, contenente ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, con riferimento alla misura della retribuzione globale di fatto adottata come parametro di riferimento per il calcolo del risarcimento del danno ritenuto spettante.

La società ricorrente denunciava, innanzitutto, la violazione dell'art. 4, commi 2 e 9 della L. n. 223/1991, sostenendo che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la comunicazione che il datore di lavoro deve effettuare per iscritto all'Ufficio regionale del lavoro - nonché alla Commissione regionale per l'impiego ed alle associazioni di categoria -, ai sensi dell'art. 4, comma 9, L. n. 223/1991, dell'elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con la specificazione per ciascun soggetto, del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, ecc., nonché con la puntuale indicazione delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta, non rientra tra le procedure la cui inosservanza, a norma dell'art. 5, comma terzo, della medesima legge, comporta l'inefficacia dei licenziamenti, non rappresentando un adempimento in grado di inficiare la legittimità degli accordi e dei licenziamenti conseguenti. La Suprema Corte rigettava il ricorso principale ed accoglieva quello incidentale.

La Suprema Corte ha osservato che la tesi difensiva sostenuta dalla società ricorrente risultava in contrasto col consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui i licenziamenti per riduzione di personale, effettuati ai sensi dell'art. 4 legge n. 223/1991 sono inefficaci, ai sensi del terzo comma del successivo art. 5, qualora siano intimati in violazione delle procedure previste dal medesimo art. 4, in tal senso dovendosi interpretare - sia sulla base di criteri meramente letterali, sia di criteri sistematici e funzionali -, il riferimento dell'art. 5 alla "violazione delle procedure richiamate all'art. 4 comma dodicesimo". Tale sanzione consegue, pertanto, prosegue la Suprema Corte, anche nel caso di violazione della prescrizione posta dal nono comma dell'art. 4, che impone al datore di lavoro la comunicazione agli uffici competenti ed alle organizzazioni sindacali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (in senso conforme cfr. Cass. 26 marzo 2010, n. 7407; Cass. 23 gennaio 2009, n. 1722; Cass. 18 maggio 2006, n. 11660; Cass. 18 gennaio 2000, n. 510; Cass. 22 marzo 1999, n. 2701; Cass. 21 luglio 1998, n. 7169; Cass. 14 novembre 1998, n. 11480).




Criteri di scelta nei licenziamenti collettivi

Cass. Sez. Lav. 3 febbraio 2016, n. 2113

Pres. Venuti; Rel. Ghinoy; Ric. G.G. + 13; Controric. C.E. S.p.A.;

Licenziamento collettivo per riduzione del personale - Criteri di scelta ex art. 5 Legge 223/1991 - Onere della prova

Grava sul datore di lavoro l'onere di allegazione dei criteri di scelta applicati e la prova della loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi ultimi (qualora siano stati utilizzati i criteri legali dei carichi familiari, della anzianità e delle esigenze tecnico produttive) dello stato familiare, dell'anzianità e delle mansioni, mentre grava sul lavoratore l'onere di dimostrare 1'illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la scelta sarebbe stata falsamente o illegittimamente applicata.

Nota

Un gruppo di lavoratori, con distinti ricorsi, agiva in giudizio per sentir dichiarare l'illegittimità dei licenziamenti intimatigli, nell'aprile 2010, al termine di una procedura di mobilità che aveva riguardato settanta dipendenti, ed ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 Statuto dei Lavoratori (secondo la formulazione antecedente alla Legge 92/2012) e il relativo risarcimento del danno. A tal fine, tra gli altri motivi, i ricorrenti deducevano l'illegittima interpretazione e applicazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5 Legge 223/1991. In particolare, sostenevano che i carichi di famiglia dovessero essere verificati in concreto e non sulla base dei meri assegni familiari e che il criterio dell'anzianità dovesse essere riferito al dato anagrafico, anziché all'anzianità di servizio.

Il Tribunale rigettava tutti i ricorsi con tre distinte sentenze che, previa riunione dei procedimenti, venivano confermate dalla Corte d'Appello di Ancona. La Corte territoriale confermava che non poteva censurarsi la scelta datoriale di utilizzare gli assegni famigliari e che l'anzianità di servizio poteva essere ritenuta preminente rispetto all'anzianità anagrafica.

Avverso tale sentenza una parte dei lavoratori ricorreva in cassazione; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo inammissibili buona parte dei trentasette motivi formulati dai ricorrenti.

La Suprema Corte ha ritenuto inammissibili anche i motivi di ricorso relativi all'interpretazione e applicazione dei criteri di scelta, ribadito il principio di diritto (già espresso in Cass. 5358/1998; Cass 5718/1999 e Cass. 12711/2000) secondo cui grava sul datore di lavoro l'onere di allegare i criteri di scelta applicati e la prova della loro piena applicazione, indicando per ciascuno dei lavoratori licenziati (qualora siano stati utilizzati i criteri legali dei carichi familiari, della anzianità e delle esigenze tecnico produttive) lo stato familiare, l'anzianità e le mansioni, mentre il lavoratore ha l'onere di dimostrare 1'illegittimità della scelta, indicando i lavoratori in relazione ai quali la scelta sarebbe stata falsamente o illegittimamente applicata.

I ricorrenti si erano limitati a censurare l'errata applicazione dei criteri di scelta, senza precisare quali sarebbero state le conseguenze nel caso concreto in base alla comparazione tra il proprio punteggio e quello dei lavoratori che non erano stati licenziati.

Ciò posto, quanto ai carichi di famiglia, la Corte di Cassazione ha ribadito che tale criterio è finalizzato a tutelare i lavoratori con maggior fabbisogno economico e che quindi la valutazione deve aver riguardo ai famigliari effettivamente a carico del lavoratore, come comunicati al datore di lavoro, e non alla situazione di fatto che determina il diritto alla fruizione degli assegni famigliari.

In merito al criterio dell'anzianità, è stato affermato che è preferibile far riferimento all'anzianità di servizio, anziché a quella anagrafica, in quanto opzione interpretativa che privilegia la professionalità acquisita e la fedeltà all'azienda.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2016, n. 2648

Pres. Stile; Rel. Balestrieri; P.M. Mastroberardino; Ric. F.G.A. S.p.A.; Controric. M.P.;

Licenziamento per giusta causa - Contestazione disciplinare - Assenza di specifici riferimenti spaziali e temporali - Genericità della contestazione - Conseguenze - Violazione del diritto di difesa del lavoratore - Illegittimità del licenziamento

Il licenziamento per giusta causa è illegittimo per genericità della contestazione disciplinare qualora la contestazione, pur delineando la fattispecie illecita astratta, difetti di qualsiasi effettivo elemento necessario a concretizzare, dal punto di vista spaziale e temporale, l'addebito contestato, così impedendo al lavoratore di difendersi adeguatamente.

Nota

Nel caso di specie un lavoratore licenziato per giusta causa impugnava il provvedimento espulsivo datoriale lamentando la genericità della contestazione disciplinare rivoltagli e, in ogni caso, l'insussistenza dell'addebito contestatogli. In particolare, nel caso di specie al lavoratore era stato contestato di aver abusato del suo ruolo e della funzione aziendale attribuitagli dal datore di lavoro per raggiungere, verosimilmente nel 2010, un accordo illecito con un'altra azienda, in pregiudizio degli interessi economici e di immagine del proprio datore di lavoro, in ragione del quale aveva poi percepito indebiti vantaggi economici, per somme comprese tra i 5.000 e gli 8.000 euro, oltre a dazione di merce senza versare il corrispettivo. Nella predetta contestazione disciplinare erano state riportate le condotte addebitate al lavoratore (aver raggiunto un illecito accordo contrario agli interessi economici e di immagine del datore di lavoro al fine di perseguire un personale indebito vantaggio), erano stati identificati i soggetti con cui tale accordo era intervenuto, era stato indicato il periodo in cui detta intesa era stata raggiunta (verosimilmente nel 2010), era stata riportata l'entità dell'illecito vantaggio economico tratto dal lavoratore (tra i 5.000 e gli 8.000 euro, oltre a dazione di merce senza versare il corrispettivo) ed era stato descritto il contenuto dell'accordo stesso (ossia l'utilizzo da parte del lavoratore degli accrediti personali sul sistema informatico, che deteneva in ragione del ruolo ricoperto presso il datore di lavoro, al fine di agevolare la liquidazione di somme in favore dell'azienda terza con cui era intervenuto il predetto accordo illecito, per interventi di garanzia asseritamente truccati e riparazioni su prodotti del datore di lavoro che tale azienda terza avrebbe effettuato con ricambi non originali).

Nonostante il fatto che le informazioni sopra richiamate fossero state riportate nella lettera di contestazione - rispetto alla quale il lavoratore aveva peraltro fornito le proprie giustificazioni negando di aver posto in essere i fatti contestati - il Giudice di prime cure accoglieva il ricorso del lavoratore e dichiarava l'illegittimità del licenziamento per genericità della contestazione disciplinare; tale decisione veniva riformata in sede di opposizione, mentre la Corte territoriale adita in sede di reclamo ribaltava nuovamente la decisione, ritenendo generica la contestazione disciplinare e, dichiarando, pertanto, illegittimo il conseguente licenziamento irrogato.

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione conferma la predetta decisione della Corte territoriale e, quindi, l'illegittimità del licenziamento, per genericità della contestazione disciplinare. In particolare, la Suprema Corte richiama nella pronuncia in esame l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in tema di sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori subordinati, la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della connessa specificità, ancorché senza l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, rispettando i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (cfr. Cass. 15.5.2014 n. 10662, Cass. 17.11.2010 n. 23223, Cass. 5.7.2013 n. 16831, Cass. n. 5115/2010).

Nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la lettera di contestazione individua, anche con precisione, un fatto teoricamente censurabile disciplinarmente, ma resta confinata in tale categoria teorica (esistenza di un accordo attraverso il quale il dipendente avrebbe tratto illeciti profitti), senza tuttavia indicare quali fossero in concreto i fatti disciplinarmente rilevanti, effettivamente compiuti ed addebitati al lavoratore, che infatti non si sarebbe potuto compiutamente difendere nel merito e si sarebbe dovuto, invece, limitare alla generica negazione dell'addebito.

In ragione di quanto precede, la Suprema Corte ritiene condivisibile la decisione del Giudice del reclamo, secondo il quale nella contestazione è per un verso chiaramente delineata la fattispecie illecita astratta di una truffa ai danni del datore di lavoro, mediante un accordo tra il lavoratore e un soggetto terzo, il cui contenuto era stato specificato in sede di contestazione; d'altra parte, però, la contestazione in questione è da ritenersi generica, in quanto non precisa, nemmeno a titolo esemplificativo, gli episodi relativi alle procedure di garanzia asseritamente truccate e/o alle riparazioni che sarebbero state effettuate con ricambi non originali, difettando quindi di qualsiasi effettivo elemento (ad es. il numero di procedura degli interventi in garanzia, il modello del veicolo, l'oggetto dell'intervento, etc.), necessario a concretizzare, dal punto di vista spaziale e temporale, gli illeciti di cui il lavoratore è stato ritenuto responsabile, così impedendo a quest'ultimo di difendersi adeguatamente.




Contratti di somministrazione a termine

Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2016, n. 2734

Pres. Stile; Rel. Manna; P.M. Mastroberardino; Ric N.D.; Controric. L.O.M.I.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Contratti di lavoro in somministrazione - Art. 6 legge n. 604/1966 - Decadenza e regime di proroga di cui all'art. 32, comma 4 legge 183/2010 - Ambito di applicazione - Fondamento

In tema di somministrazione di lavoro, il regime di decadenza di cui al novellato art. 6 della legge n. 604/1966, come modificato dall'art. 32, comma 4, della legge n. 183/2010, non si applica ai soli contratti a termine in somministrazione in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa (24 novembre 2010), ma anche a quelli già scaduti a tale data.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d'Appello di Brescia con cui era stato rigettato il ricorso promosso dal lavoratore contro la sentenza del Tribunale della stessa sede, che ne aveva respinto, per intervenuta decadenza ex art. 32, comma 4, legge n. 183/2010, la domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità dei contratti di somministrazione in forza dei quali egli aveva prestato la propria attività lavorativa presso la società dal 2008 al 2010. Il lavoratore ha impugnato la decisione di secondo grado deducendo che il termine di decadenza di cui all'art. 6 della legge n. 604/1966, come modificato dall'art. 32 cit., non si applicherebbe ai contratti di somministrazione stipulati prima dell'entrata in vigore della legge n. 183/2010, trattandosi di norma irretroattiva. La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato sulla base di due considerazioni. La prima è che l'incipit del comma l bis dell'art. 32 cit. ("in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all'articolo 6, prima comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011"), richiamando una "prima applicazione", evoca oggettivamente un meccanismo per il quale è stato assicurato un adeguato arco temporale affinché i lavoratori e i loro difensori potessero adeguarsi alla nuova e più rigorosa disciplina che espone il dipendente licenziato all'onere di ben due diversi termini di decadenza (di impugnazione stragiudiziale e giudiziale); ciò non sarebbe stato necessario se tale nuovo meccanismo non fosse stato applicabile anche a contratti cessati prima dell'entrata in vigore dell'art. 32 cit.

In secondo luogo, l'introduzione di un termine di decadenza - laddove prima non vi era - non comporterebbe una retroattività vera e propria, ma soltanto l'assoggettamento di un diritto, già acquisito, ad un termine di decadenza per il suo esercizio. Ed infatti, secondo un consolidato orientamento della Corte, non sussiste retroattività ove la nuova norma disciplini status, situazioni e rapporti che, pur costituendo lato sensu effetti di un pregresso fatto generatore, siano distinti ontologicamente e funzionalmente, in quanto suscettibili di una nuova regolamentazione mediante l'esercizio di poteri e facoltà non consumati sotto la precedente disciplina.

Ebbene, nel caso di specie, il potere di chiedere in sede giurisdizionale l'accertamento della reale titolarità (in capo all'impresa utilizzatrice anziché in capo all'agenzia di somministrazione) di un rapporto di lavoro già esauritosi era indubbiamente già sorto prima dell'entrata in vigore dell'art. 32 cit., ma non si era ancora consumato (non essendosi verificata alcuna rinuncia o prescrizione e non essendo intervenuto un giudicato a riguardo). Per tali motivi, la Corte ha ritenuto che il regime di decadenza di cui all'art. 6 della legge n. 604/1966 si applichi anche ai contratti di somministrazione a termine già scaduti alla data del 24 novembre 2010, con conseguente rigetto del ricorso.




Lavoro straordinario e prova presuntiva

Cass. Sez. Lav. 29 gennaio 2016, n. 1781

Pres. Curzio; Rel. Arienzo; Ric. E. S.r.l.; Controric. G.M.;

Orario di lavoro - Lavoro straordinario - Onere della prova in capo al lavoratore - Prova presuntiva - Ammissibilità

Il lavoratore che agisce per ottenere il compenso per lavoro straordinario ha l'onere di dimostrare il numero di ore effettivamente lavorate oltre l'orario normale di lavoro.
Nel caso in cui venga provato lo svolgimento di lavoro straordinario per un preciso numero di ore in un determinato periodo, si può desumere la prova dello svolgimento di lavoro straordinario, per il medesimo numero di ore, anche nel periodo precedente, qualora il datore di lavoro non deduca che, nel corso del rapporto lavorativo, sia intervenuta una modifica nell'organizzazione del lavoro.

Nota

Un dipendente, con mansioni di fattorino, di una società che gestiva servizi di segreteria, otteneva la condanna del proprio datore di lavoro (e della relativa cessionaria) al pagamento di differenze retributive da lavoro straordinario.

La Corte d'Appello di Roma rigettava l'impugnazione promossa dalle società, considerando infondato il motivo d'appello relativo al mancato assolvimento, da parte del lavoratore, dell'onere della prova in merito allo svolgimento di lavoro straordinario per l'intero periodo oggetto della sentenza. Dall'istruttoria svolta era emerso che il dipendente avesse sempre prestato la propria attività, quale unico fattorino, presso il medesimo cliente (uno studio legale) e che, durante l'ultimo periodo, avesse lavorato dalle ore 8.30 alle 22.00, tutti i giorni della settimana (con una breve pausa pranzo). Le società appellanti non avevano dedotto che, nel periodo precedente a quello in cui era stato provato lo svolgimento di lavoro straordinario, vi era stata una modifica dell'organizzazione del lavoro. In particolare, non avevano dedotto né la presenza di altri fattorini, né che, in tale periodo, fosse intervenuto un mutamento nelle esigenze del cliente. Pertanto, ad avviso dei giudici di merito, doveva ritenersi provato, in via presuntiva, lo svolgimento di lavoro straordinario, per il medesimo numero di ore, anche con riguardo al primo periodo.

Avverso tale sentenza una delle società ricorreva in Cassazione; il dipendente e l'altra società rimanevano intimati.

La Corte di Cassazione, con ordinanza ex art. 375 c.p.c., ha rigettato il ricorso.

Dopo aver richiamato il principio di diritto secondo cui il lavoratore che agisca per ottenere il compenso per lavoro straordinario ha l'onere di dimostrare il numero di ore effettivamente lavorate oltre l'orario normale, ha chiarito che tale regola di giudizio non preclude il ricorso alla prova presuntiva. Precisando, peraltro, che a tal fine, non occorre che tra il fatto noto e il fatto ignoto sussista una relazione avente carattere di assoluta ed esclusiva necessità, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità. La Suprema Corte ha poi ribadito che l'opportunità di ricorrere a presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, costituisce accertamento di fatto rimesso al giudice del merito che, se correttamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di merito avessero correttamente valorizzato la circostanza della mancanza dimostrazione della presenza di altro personale che potesse avere svolto le incombenze necessarie per l'espletamento dei servizi di segreteria nel periodo antecedente a quello in cui era stato pacificamente dimostrato lo svolgimento di lavoro straordinario.

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