Contenzioso

Rassegna della cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Il danno esistenziale per ritardata corresponsione del trattamento economico di maternità

La prassi aziendale fonda il diritto alla qualifica superiore

Pretestuosità delle continue richieste del dipendente e licenziamento

Ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del dipendente

Licenziamento per giusta causa

Il danno esistenziale per ritardata corresponsione del trattamento economico di maternità

Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2016, n. 2217

Pres. Stile; Rel. Manna; P.M. Matera; Ric. R.L.; Contr. I.N.P.S.

Art. 2059 c.c. - Danno esistenziale - Autonoma categoria di danno - Insussistenza - Criterio di liquidazione del danno non patrimoniale - Art. 115 cpv c.p.c. - Sussistenza – Presupposti

Il danno esistenziale inteso, non già quale autonoma categoria di danno ma, come criterio di liquidazione della più generale posta di danno non patrimoniale - risarcibile ex art. 2059 c.c. - può, in forza dell'art. 115 cpv c.p.c., essere desunto dalle massime di comune esperienza ma, in tal caso, è necessario che: a) il fatto illecito abbia leso diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; b) la lesione sia grave, nel senso che l'offesa deve superare una soglia minima di tollerabilità; c) il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti immaginari, quali quello alla qualità della vita o alla felicità.

Nota

La Corte di appello di Lecce, in riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale della medesima città, aveva respinto la domanda avanzata da una lavoratrice nei confronti dell'INPS tesa ad ottenere il risarcimento del danno esistenziale patito per effetto della ritardata corresponsione del trattamento economico di maternità.

La lavoratrice propone ricorso per cassazione denunciando violazione e falsa applicazione di legge nella parte in cui la sentenza ha negato che la tardiva corresponsione del trattamento economico di maternità sia suscettibile di arrecare un danno esistenziale risarcibile per la lesione dei diritti inviolabili della persona.

La Cassazione rigetta il ricorso, prendendo le mosse innanzitutto dalla pronuncia delle Sezioni Unite (n. 26972/2008) in forza della quale non è ammissibile nel nostro ordinamento l'autonoma categoria di danno esistenziale, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona.

Invero, se per danno esistenziale si intendono i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, deve rilevarsi che gli stessi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c. - secondo cui "il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge" - interpretato in modo conforme alla Costituzione. Se, invece, nel danno esistenziale, prosegue la Cassazione, si includono i pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, la categoria sarebbe illegittima atteso che tali pregiudizi non sono risarcibili per il divieto posto, sempre, dall'art. 2059 c.c.

E' pur vero, precisa la Suprema Corte, che il danno esistenziale inteso quale criterio di liquidazione del danno non patrimoniale può, in forza dell'art. 115 cpv c.p.c., essere desunto dalle massime di comune esperienza ma, in tal caso, è necessario che:

a) il fatto illecito abbia leso diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; b) la lesione sia grave, nel senso che l'offesa deve superare una soglia minima di tollerabilità; c) il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti immaginari, quali quello alla qualità della vita o alla felicità.

Secondo la Cassazione, la corte di merito ha fatto corretta applicazione dei predetti princìpi escludendo che il mero pregiudizio alla qualità della vita (su cui il Tribunale aveva basato l'accoglimento della domanda) sia risarcibile. Le difficoltà economiche allegate dalla lavoratrice, quale effetto del ritardato pagamento del trattamento previdenziale, possono al più determinare ricadute negative di ordine patrimoniale ma non assurgere, come prospettato dalla ricorrente, ad intollerabile lesione della dignità umana.




La prassi aziendale fonda il diritto alla qualifica superiore

Cass. Sez. Lav. 2 febbraio 2016, n. 1965

Pres. Amoroso; Rel. Berrino; Ric. R. S.p.A.; Controric. A.L;

Lavoro - Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - Mansioni - Diritto alla qualifica - Fondamento nella prassi aziendale - Configurabilità - Estremi - Interpretazione - Preminente rilievo del canone fissato dall'art. 1363 cod. civ.

Il diritto del lavoratore subordinato alla qualifica corrispondente alle mansioni svolte (ex art. 2103 cod. civ.) può fondarsi anche sull'esistenza di una prassi aziendale, intesa come comportamento uniforme e costante del datore di lavoro in ordine al tipo di inquadramento dei lavoratori addetti ad identiche mansioni.
Nell'interpretazione del contratto collettivo di diritto comune un ruolo preminente e del tutto particolare deve essere assegnato alla regola di cui all'art. 1363 cod. civ., stante la natura complessa e particolare dell'"iter" formativo della contrattazione sindacale, la non agevole ricostruzione della comune volontà delle parti contrattuali attraverso il mero riferimento al senso letterale delle parole, l'articolazione della contrattazione su diversi livelli (nazionale, provinciale, aziendale, ecc.), la vastità e complessità della materia trattata in ragione dei molteplici profili della posizione lavorativa (con ricorso a strumenti sconosciuti alla negoziazione tra parti private, quali preamboli, premesse, note a verbale, ecc.), il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali, non necessariamente coincidente con quello comune e, da ultimo, il carattere vincolante che non di rado assumono nell'azienda l'uso e la prassi.

Nota

La sentenza in commento affronta la questione delle possibili fonti attributive del diritto alla qualifica superiore.

In concreto, il lavoratore rivendicava il diritto ad un inquadramento superiore (in specie, quello di capo redattore), con applicazione del trattamento economico corrispondente, allegando il protratto svolgimento di mansioni di coordinamento di una struttura redazionale relativa ad un'unica rubrica televisiva.

La società obiettava che, a mente del CCNL applicabile, la responsabilità di un singolo servizio redazionale a carattere continuativo legittimava il riconoscimento della sola qualifica - effettivamente attribuitagli - di capo servizio, presupponendo, invece, il diritto alla qualifica di redattore capo il coordinamento di più servizi della redazione centrale o dell'ufficio di corrispondenza.

Sia il Tribunale che la Corte d'Appello accoglievano la pretesa del ricorrente, respingendo unicamente la domanda del lavoratore volta al riconoscimento di una specifica indennità di funzione.

Il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione, deducendo, tra il resto, che la Corte di merito non aveva tenuto conto che, a mente del CCNL, la qualifica di capo redattore presupponeva lo svolgimento di "attività di servizi della redazione centrale", nelle quali non poteva essere inclusa una "rubrica di approfondimento delle notizie", pena la violazione del criterio dell'interpretazione letterale della norma collettiva, sovrapponendo al piano della obiettiva rilevanza delle attività redazionali oggetto di coordinamento, ad opera della figura del capo redattore, un criterio imperniato sulla qualità dell'attività delle rubriche radiotelevisive, in nessun modo considerato dalla clausola contrattuale.

La Suprema Corte ha respinto tali censure, evidenziando, anzitutto, che la disposizione collettiva - e, segnatamente, la locuzione "attività di servizi" - era "talmente ampia da impedire di ritenere che si siano volute escludere dal novero dei servizi anche le rubriche di approfondimento delle notizie diffuse nel corso dei notiziari e dei telegiornali che rappresentano, per la loro particolare qualità, un momento altrettanto significativo di quello del loro confezionamento, trattandosi, in ultima analisi, della stessa materia oggetto di divulgazione per mezzo dei sistemi radiotelevisivi".

Conclusione, questa, suffragata, a parere dei Giudici di legittimità, da un'ulteriore argomentazione consistente nell'esistenza di una prassi aziendale, accertata dal Tribunale, in virtù della quale "i responsabili delle rubriche ricevevano il trattamento economico dei capo redazione". Circostanza vieppiù rilevante - statuisce la Cassazione - in quanto il diritto del lavoratore subordinato alla qualifica corrispondente alle mansioni svolte può fondarsi anche sull'esistenza di una prassi aziendale relativa all'assegnazione di un inquadramento ai lavoratori addetti a determinate mansioni, anche in deroga alle previsioni del contratto collettivo.

A tal riguardo - soggiunge il Supremo Collegio - occorre evidenziare che l'utilizzazione del criterio complementare della prassi aziendale nell'interpretazione del contratto collettivo discende direttamente dal ricorso al canone ermeneutico legale di cui all'art. 1363 c.c., atteso che: "nell'interpretazione del contratto collettivo di diritto comune un ruolo preminente e del tutto particolare deve essere assegnato alla regola di cui all'art. 1363 cod. civ., stante la natura complessa e particolare dell'"iter" formativo della contrattazione sindacale, la non agevole ricostruzione della comune volontà delle parti contrattuali attraverso il mero riferimento al senso letterale delle parole, l'articolazione della contrattazione su diversi livelli (nazionale, provinciale, aziendale, ecc.), la vastità e complessità della materia trattata in ragione dei molteplici profili della posizione lavorativa (con ricorso a strumenti sconosciuti alla negoziazione tra parti private, quali preamboli, premesse, note a verbale, ecc.), il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali, non necessariamente coincidente con quello comune e, da ultimo, il carattere vincolante che non di rado assumono nell'azienda l'uso e la prassi".




Pretestuosità delle continue richieste del dipendente e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 25 gennaio 2016, n. 1248

Pres. Roselli; Rel. Bronzini; P.M. Matera; Ric. F.R.; Contr. A. E.;

Lavoro pubblico - Licenziamento disciplinare - Abuso del diritto: continue istanze del dipendente di carattere meramente strumentale - Violazione dei doveri di correttezza e buona fede - Sussiste

L'abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto non abbia tenuto una condotta idonea a salvaguardare gli interessi dell'altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorchè il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali poteri o facoltà sono attribuiti.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione conferma la validità di un licenziamento operato da una Pubblica Amministrazione. In particolare, rileva che l'ex-dipendente, nell'intento di esercitare una pressione indiretta sull'Amministrazione, al fine di ottenere un trasferimento presso la città d'origine (provvedimento a cui peraltro ostava una clausola inserita nel contratto di lavoro che obbligava la dipendente a prestare servizio per almeno 5 anni nella regione d'assunzione), aveva posto in essere una vera e propria "guerra di carte": producendo continuamente istanze di trasferimento, ovvero di accesso agli atti, finalizzate ad esercitare un continuo controllo sull'esercizio dei poteri datoriali; il tutto con il risultato di aver aumentato esponenzialmente il numero di pratiche che il piccolo ufficio al quale era adibita era tenuto ad evadere e, al contempo, di averne avvelenato il clima interno. La Corte conferma le sentenze di merito che avevano ritenuto fondata la reazione dell'Amministrazione datrice di lavoro, consistente nell'intimazione all'ex dipendente di un licenziamento disciplinare, qualificando il comportamento di quest'ultima alla stregua di un "caso di scuola di abuso del diritto, trattandosi di istanze inutili e meramente di disturbo". Ed infatti, una volta acclarato l'intento, neppure troppo velato, ma di certo teleologicamente orientato, delle continue richieste della dipendente - vale a dire, tentare di "dare fastidio", esasperando il clima nell'Ufficio al fine di ottenere un trasferimento a cui la stessa non aveva diritto - la Cassazione ha ritenuto congrua la motivazione della Corte d'Appello, secondo cui tali comportamenti entravano in insanabile contrasto con i doveri di correttezza e buona fede a cui sono tenute le parti del rapporto di lavoro, ritenendo perciò fondato il licenziamento. Pur non potendo entrare nel merito dei fatti rilevanti nei precedenti gradi del giudizio, la Cassazione avalla la ricostruzione giuridica fatta dai giudici del merito, aprendo quindi alla configurabilità della fattispecie dell'abuso del diritto in casi del genere: invero non proprio inediti, soprattutto nel mondo del pubblico impiego.



Ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del dipendente

Cass. Sez. Lav. 28 gennaio 2016, n. 1608

Pres. Venuti; Rel. venuti; Ric. G.M.; Controric. E. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Trasferimenti - Presupposti - Sussistenza di ragioni tecniche e organizzative - Controllo giurisdizionale - Sindacabilità con riferimento alla sede di destinazione - Necessità

Il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa. Pertanto, tale accertamento non può essere limitato alla situazione esistente nella sede di provenienza ma deve estendersi anche alla sede di destinazione del lavoratore, restando a carico del datore di lavoro l'onere di provare l'esistenza delle suddette ragioni.

Nota

Con sentenza della Corte d'Appello di Napoli, che confermava la pronuncia del giudice di prime cure, veniva rigettata la richiesta del ricorrente volta alla declaratoria di illegittimità del trasferimento disposto dalla società datrice di lavoro nei suoi confronti e del successivo licenziamento, per non essersi presentato presso la sede cui era stato trasferito. In particolare il ricorrente, residente nella provincia di Napoli, era stato reintegrato nel posto di lavoro presso la società a seguito di sentenza che aveva dichiarato la sussistenza di un'interposizione illecita di manodopera ai suoi danni ed era stato invitato dalla società a prendere servizio in una sede sita in Livorno.

Il lavoratore aveva contestato il trasferimento e non si era presentato presso la sede assegnata.

La Corte territoriale aveva respinto l'eccezione d'inadempimento del ricorrente e aveva sostenuto la legittimità del trasferimento in quanto sorretto da ragioni tecniche produttive e organizzative ed essendo l'operato della società conforme a buona fede.

Contro tale sentenza ricorreva per Cassazione il lavoratore sostenendo, tra l'altro, violazione e falsa applicazione degli articoli 2103, 1175 e 1375 c.c. poiché la sussistenza delle ragioni tecniche produttive e organizzative avrebbe dovuto essere valutata con riferimento sia alla sede di provenienza che a quella di destinazione. Secondo il ricorrente, all'epoca del trasferimento, esistevano svariate sedi più vicine alla sua residenza cui poteva essere proficuamente assegnato. Il lavoratore, inoltre, ha sostenuto la violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. e l'omessa motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, ritenendo che la società non avesse né allegato in giudizio né provato la sussistenza delle ragioni di cui sopra.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati (tra gli altri) i motivi di cui sopra e conseguentemente ha accolto il ricorso cassando la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Napoli in diversa composizione. Da un lato, infatti, la Cassazione ha confermato che il sindacato del giudice, in tema di trasferimento, non può spingersi al merito della scelta imprenditoriale operata dal datore di lavoro, dall'altro però ha affermato che il datore di lavoro deve operare il trasferimento nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza, essendo tenuto a preferire - tra diverse possibili soluzioni organizzative per lui paritarie - quella meno gravosa per il dipendente. In aggiunta, la Suprema Corta ha statuito che "il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa" e che "tale accertamento non può essere limitato alla situazione esistente nella sede di provenienza ma deve estendersi anche alla sede di destinazione del lavoratore, restando a carico del datore di lavoro l'onere di provare l'esistenza delle suddette ragioni". A tale proposito, ha affermato la Cassazione, mentre la Corte d'Appello di Napoli ha correttamente accertato e motivato le ragioni che impedivano alla società datrice di lavoro di impiegare il lavoratore nelle sedi site in Campania, non ha fatto altrettanto con riferimento alla sede di destinazione prescelta.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 2 febbraio 2016, n. 1977

Pres. Roselli; Rel. Della Torre; P.M. Velardi; Ric. C.L.; Controric. e ricorr. incid. V.D..

Licenziamento - Giusta causa - Insussistenza - "Meri moti dell'animo" - Irrilevanza disciplinare – Fattispecie

Sono privi di rilievo giuridico i meri atteggiamenti interiori, che non si traducano in fatti oggettivi esterni dipendenti dalla volontà del soggetto. Tanto è in linea con i principi generali dell'ordinamento e con il comune sentire, che rifuggono dall'ammettere la possibilità di sanzionare opinioni e moti dell'animo, pur se, in ipotesi, riprovevoli, essendo sempre richiesto che essi si attualizzino in condotte del soggetto che ne costituiscano espressione nell'ambiente sociale e nelle relazioni con i terzi, quale condizione preliminare per una loro eventuale rilevanza (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia della Corte di merito che ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad una lavoratrice - per aver la stessa, escussa come teste nella causa di licenziamento di un altro dipendente, consultato in udienza una email, mai trasmessa al superiore gerarchico e di cui è stata successivamente accertata la falsità - trattandosi di un fatto che, pur sintomatico di ostilità nei confronti del datore di lavoro, era rimasto racchiuso nell'ambito della sfera soggettiva del lavoratore e, come tale, da considerarsi privo di rilevanza sul piano disciplinare).

Cassazione (ricorso per) - Motivi del ricorso - Vizio di motivazione - Riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ad opera del d.l. n. 83 del 2012 - Portata - Sindacato di legittimità sulla motivazione - Riduzione al "minimo costituzionale" - Fondamento - Conseguenze

La riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.

Nota

La fattispecie, sottoposta al vaglio della Suprema Corte, attiene al licenziamento per giusta causa irrogato ad una lavoratrice, la quale, sentita in qualità di persona informata dei fatti nell'ambito del procedimento promosso da un altro dipendente (licenziato per aver insultato e colpito con un pugno al volto un collega) aveva consultato in giudizio la copia cartacea di una e-mail indirizzata al proprio superiore gerarchico (ma mai trasmessa a quest'ultimo e di cui era stata successivamente accertata la falsità) avente, quale contenuto, la rinnovata segnalazione di un problema (ancora irrisolto all'epoca della comunicazione) riguardante proprio il dipendente licenziato.

Il Tribunale di La Spezia, ritenendo tardiva la contestazione disciplinare, dichiarava l'illegittimità del licenziamento.

La Corte d'Appello di Genova - pur ritenendo tempestiva la contestazione, alla luce degli approfonditi accertamenti resisi necessari per una corretta formulazione degli addebiti - confermava la pronuncia di illegittimità del licenziamento, per carenza del requisito della proporzionalità, rilevando come, anche a voler considerare accertata la falsità della e-mail, non ricorressero neppure gli estremi di un comportamento disciplinarmente rilevante.

A sostegno di tale conclusione, la Corte osservava che: 1) se pure la ricorrente aveva con sé, all'udienza, una cartellina contenente la e-mail in questione (lo si ripete, ma trasmessa e rivelatasi, quindi, falsa) e se pure l'aveva consultata nel corso della sua deposizione, non aveva mai affermato di averla inviata al proprio superiore gerarchico; 2) la sola formazione e la disponibilità in udienza della copia della e-mail, non accompagnata dalla sua volontaria utilizzazione, era da considerarsi priva di rilevanza sul piano disciplinare, trattandosi di un fatto che, pur sintomatico di ostilità nei confronti del datore di lavoro, era rimasto racchiuso all'interno della sfera soggettiva del lavoratore; 3) l'acquisizione al processo di tale documento era stata determinata dal difensore della società che ne aveva fatto istanza; 4) al datore di lavoro non è derivato alcun pregiudizio dalla acquisizione in giudizio del suddetto documento, non valorizzando affatto il provvedimento giudiziale, nel cui ambito le dichiarazioni della lavoratrice sono state raccolte, la e-mail come fonte del proprio convincimento; 5) era completamente ininfluente la circostanza che la ricorrente fosse stata rinviata a giudizio per il reato di falso, e ciò per la diversità degli addebiti formulati nei suoi confronti con la lettera di contestazione.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi, con i quali censurava, in particolare: a) l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio (art. 360, n. 5 c.p.c.), costituiti dalla falsità della e-mail nonché dal suo utilizzo da parte della lavoratrice; b) la nullità della sentenza (ex art. 360, n. 4, c.p.c.) per carenza e incongruità della motivazione e omesso esame di risultanze probatorie; c) la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e 2106 c.c., per aver la Corte d'Appello erroneamente ritenuto sproporzionata la sanzione del licenziamento, avendo esaminato unicamente l'elemento soggettivo della condotta e non anche la falsificazione compiuta da un dipendente con posizione di responsabilità all'interno dell'azienda (condotta, quest'ultima da ritenersi grave e lesiva dell'obbligo di fedeltà del lavoratore e degli obblighi di buona fede e correttezza). La lavoratrice resisteva con controricorso e proponeva, altresì, ricorso incidentale condizionato, con riferimento a quella parte della sentenza di appello che aveva ritenuto infondato l'assorbente motivo, posto dal Giudice di primo grado a fondamento della declaratoria di illegittimità del licenziamento, relativo all'intempestività della contestazione disciplinare. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso principale e, conseguentemente, assorbito il ricorso incidentale condizionato. Quanto alla doglianza sub a), la stessa ha evidenziato come la falsità del documento non può ritenersi fatto "decisivo" per il giudizio, posto che la sentenza d'appello prescinde del tutto, nel suo percorso motivazionale, dal fatto che la e-mail sia stata o meno falsificata, affermando piuttosto che la sola formazione e possesso della e-mail, anche se si ammetta la sua falsità, non costituisce un fatto giuridicamente rilevante. Quanto alla censura sub b), la Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il motivo, trovando applicazione nel caso di specie - trattandosi di una sentenza depositata successivamente all'11/09/2012 - il "vizio motivazionale" così come riformulato dall'art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, convertito nella L. 07/08/2012, n. 134, secondo l'interpretazione fornitane dalle Sezioni Unite. Queste ultime, infatti, hanno recentemente affermato che sono denunciabili in Cassazione solo la "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico" e il "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili", riducendo così al "minimo costituzionale" il sindacato di legittimità sulla motivazione ed escludendo qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza della motivazione" (v. Cass. Sez. Un. 07/07/2014, n. 8053). Con riferimento alla censura sub c), la Suprema Corte ha rilevato come il giudizio circa la gravità della condotta (ex art. 2119 c.c.), operato dalla Corte territoriale, sia esente da critiche, avendo la stessa escluso che l'ingresso della e-mail tra le acquisizioni processuali sia stato determinato da un'iniziativa della lavoratrice (la quale non ha esibito il documento, né ha reso alcuna dichiarazione che ad esso facesse riferimento ed essendo stato lo stesso acquisito su istanza del legale della società). Inoltre, la Suprema Corte, ha ritenuto non violativa dell'art. 2119 c.c. (oltre che coerente con i principi generali dell'ordinamento e con il comune sentire) la affermata, dalla Corte territoriale, irrilevanza dei meri atteggiamenti interiori, ove gli stessi non si traducano in fatti oggettivi esterni dipendenti dalla volontà del soggetto. Parimenti, la Suprema Corte ha escluso la violazione dell'art. 2106 c.c., essendo la Corte di merito pervenuta ad escludere l'esistenza di un rapporto di proporzionalità tra condotta addebitata e sanzione espulsiva sulla base di una compiuta e analitica valutazione della fattispecie concreta e ciò tanto nella sua entità oggettiva come in quella soggettiva. Corretta è stata, dunque, ritenuta la pronuncia della Corte d'Appello, che ha ricondotto la fattispecie in esame (consistente, lo si ripete, nell'aver formato la e-mail, l'averla portata in giudizio insieme ad altri documenti e l'averli consultati) nell'alveo della colpa (e non del dolo), anche in considerazione dell'assenza di pregiudizio in capo al datore di lavoro; e ciò in quanto la predetta e-mail non solo non è stata menzionata nella deposizione testimoniale (che, quindi, si regge da sola), ma neppure è stata considerata (come fonte di convincimento) dal provvedimento giudiziale, nel cui ambito sono state raccolte le dichiarazioni della lavoratrice.

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