Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Demansionamento e onere della prova

Accesso al fascicolo personale del dipendente

Nesso di causalità ad ampio spettro in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali

Assenza prolungata dal lavoro e licenziamento

Autonomia e subordinazione: l'irrilevanza del nomen juris attribuito dalle parti

Demansionamento e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 13 aprile 2016, n. 7300

Pres. Stile; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric. E.S. s.p.a. e T.I. s.p.a.; Controric. C.N..

Demansionamento - Onere di allegazione e prova dell'inesatto adempimento dell'obbligo ex art. 2103 cod. civ. - A carico del lavoratore - Sussistenza - Onere di allegazione e prova dell'esatto adempimento di tale obbligo - A carico del datore di lavoro - Sussistenza

In tema di demansionamento, spetta al lavoratore, che intenda reagire al potere direttivo che assuma esercitato illegittimamente, prospettare le circostanze volte a dare fondamento alla denuncia, con un onere di allegazione degli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio. Sul datore di lavoro, convenuto in giudizio, incombe, invece, l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero mediante la prova che l'una o l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 c.c., da un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di demansionamento, ed, in particolare, sul riparto degli oneri di allegazione e prova tra il lavoratore (ricorrente in giudizio) e datore di lavoro (convenuto). Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il mutamento di mansioni operato nei confronti di una lavoratrice, con condanna della società datrice di lavoro alla reintegra nel posto di lavoro con mansioni equivalenti a quelle precedenti il trasferimento. La Corte territoriale respingeva, tuttavia, la domanda risarcitoria, pure proposta, in assenza di specifiche allegazioni relative alla (solo paventata) lesione della professionalità.

La società, avverso tale sentenza, proponeva ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi (anche riguardanti la cessione del rapporto di lavoro in conseguenza di un trasferimento di ramo d'azienda, altra questione oggetto di giudizio, su cui non ci si soffermerà in questa sede).

In particolare, la ricorrente denunciava violazione di legge (artt. 1223, 2103 e 2697 c.c.), per aver la Corte d'Appello affermato che l'onere della prova dell'esatto adempimento dell'obbligo derivante dall'art. 2103 c.c. incomba sul datore di lavoro.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando i ben noti principi (già affermati da Cass. Sez. Un. 06/03/2009, n. 5454; Cass. 06/03/2006, n. 4766; Cass. 18/09/2015, n. 18431) sul riparto degli oneri di allegazione e prova in materia di demansionamento. La Corte di legittimità ha, infatti, ribadito che, se sul lavoratore grava l'onere di allegare e provare gli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, sul datore di lavoro incombe l'onere di fornire la "prova contraria", ovvero di provare l'esatto adempimento del suo obbligo. Tanto può avvenire attraverso la prova: 1) o della mancanza in concreto di qualsiasi demansionamento; 2) o del legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari tale da giustificare il demansionamento; 3) o, comunque, di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 cod. civ.. Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, senza incorrere nelle violazioni denunciate, avendo la stessa rilevato che, a fronte della circostanziata allegazione, da parte della lavoratrice, dell'inadempimento datoriale e considerate le risultanze processuali che dimostravano la sussistenza del demansionamento, nessuna circostanza la società aveva dedotto e provato per contrastare le affermazioni attoree.




Accesso al fascicolo personale del dipendente

Cass. Sez. Lav. 7 aprile 2016, n. 6775

Pres. Nobile; Rel. Tria; Ric. R.G.; Controric. T.I. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Trattamento dei dati personali - Tutela amministrativa - Tutela giurisdizionale - Alternatività dei rimedi - Limiti Lavoro - Lavoro subordinato - Diritto soggettivo di accesso al fascicolo personale - Sussistenza - Tutela giurisdizionale - Compatibilità tutela dinnanzi al Garante Privacy Lavoro - Lavoro subordinato - Diritto a valutazioni datoriali oggettive - Sussistenza - Onere di motivazione in capo al datore - Possibilità di sindacato giudiziale - Limiti

In materia di trattamento dei dati personali, il principio della alternatività del ricorso all'autorità giudiziaria rispetto al ricorso al Garante, previsto nell'ipotesi in cui entrambe le suddette iniziative abbiano il "medesimo oggetto" per essere compatibile con l'art. 24 Cost. deve essere inteso in senso specifico e conforme ai principi generali del diritto processuale e quindi nel senso che può applicarsi solo quando la domanda proposta in sede giurisdizionale e quella proposta in sede amministrativa (con ricorso al Garante) siano tali che in ipotesi di contestuale pendenza davanti a più giudici, potrebbero, in via generale, essere assoggettate al regime processuale della litispendenza o della continenza. Il diritto soggettivo del lavoratore di accedere al proprio fascicolo personale è tutelabile in quanto tale perché si tratta di una posizione giuridica soggettiva che trae la sua fonte dal rapporto di lavoro. Ciò non esclude - ma anzi rafforza - il diritto del lavoratore di rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali.
Il diritto riconosciuto ai lavoratori dipendenti di ottenere che le valutazioni datoriali su rendimento e capacità professionale, espresse con le note di qualifica, siano formulate nel rispetto dei parametri oggettivi può essere fatto valere in sede giudiziaria - pure a prescindere da un immediato effetto negativo subito, venendo in considerazione la tutela della dignità del lavoratore - onde ottenere il controllo da parte del giudice della conformità del procedimento seguito per la formulazione delle suindicate valutazioni ai suddetti parametri, gravando sul datore di lavoro l'onere di motivare le note di qualifica medesime, per permettere lo svolgimento di tale controllo giudiziale.

Nota

La sentenza in esame ha ad oggetto il caso di una dipendente che, a seguito di una grave malattia, aveva subito un cambio di mansioni non potendo più essere adibita al lavoro al videoterminale. A seguito della modifica la stessa aveva notato che le sue valutazioni professionali, sino a quel momento positive, erano notevolmente peggiorate. Pertanto la lavoratrice aveva adito il Garante Privacy, ai sensi della normativa regolatrice della privacy allora applicabile ratione temporis (L. n. 675/1996), richiedendo di essere messa a conoscenza di tutta la documentazione a lei relativa detenuta dalla società datrice di lavoro e di conoscere i criteri adottati per le sue valutazioni. Il Garante accoglieva le richieste ed emetteva due provvedimenti in favore della richiedente cui la società ometteva di ottemperare. Pertanto la lavoratrice adiva il Giudice del lavoro ma le sue domande venivano respinte dal Tribunale prima e dalla Corte d'Appello poi. In particolare la domanda della lavoratrice volta ad ottenere che la società datrice di lavoro mettesse a sua disposizione la documentazione a lei relativa veniva dichiarata improponibile poiché ritenuta avere il medesimo oggetto della domanda azionata dinnanzi al Garante Privacy, rimedio quest'ultimo che la legge considera alternativo rispetto alla tutela giurisdizionale. Conseguentemente anche tutte le ulteriori domande venivano rigettate.

La lavoratrice impugnava la sentenza della Corte d'Appello sotto vari profili, tra i quali l'erroneità dell'assunto relativo all'identità di oggetto delle domande proposte al Tribunale e al Garante della Privacy.

La Corte di Cassazione ha accolto tale motivo e ritenuto assorbiti gli altri, cassando la sentenza con rinvio e formulando alcuni principi di diritto.

In particolare la Suprema Corte ha affermato che l'improponibilità del ricorso giudiziale era stata impropriamente dichiarata in quanto l'alternatività del rimedio amministrativo rispetto a quello giurisdizionale deve essere intesa in senso specifico cosicché le domande poste ai diversi organi possano ritenersi coincidenti solo quando "siano tali che in ipotesi di contestuale pendenza davanti a più giudici, potrebbero, in via generale, essere assoggettate al regime processuale della litispendenza o della continenza".

Nel caso di specie l'oggetto delle domande non era il medesimo: la lavoratrice, infatti, aveva richiesto al Garante l'accesso al proprio fascicolo personale e l'esplicitazione dei criteri in base ai quali i fascicoli venivano formati e, solo a seguito della mancata ottemperanza della società ai relativi ordini del Garante, la stessa aveva proposto ricorso denunciando in primo luogo il mancato adempimento della società e in secondo luogo chiedendone il risarcimento del danno e reiterando le domande rimaste inadempiute o senza risposta.

In aggiunta la Corte ha anche avuto modo di affermare che ogni dipendente ha un vero e proprio diritto soggettivo, tutelabile tanto in sede amministrativa quanto giudiziale, ad accedere al proprio fascicolo personale tenuto dal datore di lavoro oltre che a conoscere le modalità con cui le valutazioni inserite nello stesso vengono formate. Tali modalità peraltro devono essere fondate su parametri oggettivi e il relativo procedimento di formazione può essere sottoposto all'esame del giudice.




Nesso di causalità ad ampio spettro in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali

Cass. Sez. Lav. 7 aprile 2016, n. 6761

Pres. Manna; Rel. Ghinoy; Ric. I.N.P.S.; Controric. S.G.;

Previdenza - Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Malattie professionali - Principio di equivalenza causale - Applicabilità - Conseguenze.

Nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce quale debba essere - in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, ai fini della risarcibilità del pregiudizio sofferto da un lavoratore - il nesso eziologicamente rilevante tra evento e danno.

Nella fattispecie, un lavoratore reclamava nei confronti dell'ente previdenziale il diritto ad una rendita vitalizia per malattie professionali (ipoacusia da terapia clinica ed epatopatia HCV), allegando che le stesse fossero conseguenza della malaria contratta nell'esercizio dell'attività lavorativa prestata in Nigeria. La Corte del merito, all'esito del giudizio di rinvio disposto dalla Suprema Corte, riconosceva il diritto patrimoniale del dipendente, condannando l'istituto al pagamento di una rendita vitalizia.

L'ente previdenziale proponeva ricorso per cassazione, lamentando, tra il resto, che l'epatopatia non fosse riconducibile alle condizioni igienico-sanitarie carenti in cui erano stati eseguiti, in Nigeria, i rilievi ematici per il controllo della malaria, bensì ad un fattore esterno - una siringa infetta - che avrebbe interrotto il nesso causale con la prestazione lavorativa.

La Suprema Corte respinge il ricorso, statuendo che, da un lato, i ripetuti prelievi di sangue erano stati eseguiti in Nigeria in condizioni igienico-sanitarie carenti, senza siringhe ed aghi sterili monouso, e che, dall'altro, una siringa infetta non poteva ritenersi un "fattore esterno", tale da interrompere il nesso di causalità tra attività lavorativa e malaria. Ciò sull'assunto che, anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge. Col corollario - proseguono i giudici di legittimità - dell'indennizzabilità degli ulteriori effetti dipendenti da cause sopravvenute estranee a qualsiasi attività lavorativa, i quali abbiano modificato gli esiti di un precedente infortunio, a condizione che le cause sopravvenute siano direttamente collegabili all'infortunio medesimo, in quanto inserite nel processo causale come fattori di determinazione dell'ulteriore aggravamento del danno e non già come meri fatti occasionali od accidentali.




Assenza prolungata dal lavoro e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 8 aprile 2016, n. 6900

Pres. Stile; Rel. Lorito; P.M. Mastroberardino; Ric. R.O.; Contr. I. di B.P.&C. s.n.c.;

Assenza prolungata dal lavoro - Mancata comunicazione al datore di lavoro delle ragioni dell'assenza - Violazione dei principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. - Sussistenza - Risoluzione del rapporto - Ammissibilità

Alla luce dei princìpi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., il comportamento del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell'abbandono della relativa pretesa, è idoneo a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva.

Nota

La Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda avanzata da un lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro tesa ad ottenere l'accertamento dell'inefficacia del licenziamento intimatogli oralmente.

A fondamento della propria decisione la corte di merito rilevava che dalle risultanze istruttorie era emerso che il datore di lavoro, dopo l'intervento chirurgico cui il lavoratore era stato sottoposto, aveva atteso per circa un mese il suo rientro al lavoro, senza ricevere dal dipendente alcuna notizia né certificazioni mediche attestanti il suo stato di salute. Il datore di lavoro aveva interpretato - secondo la Corte di appello correttamente - tale silenzio quale manifestazione di volontà del ricorrente di dismettere la propria posizione di lavoro, che aveva ingenerato, in ossequio ai princìpi generali di correttezza e buona fede, un legittimo affidamento in merito al mancato ripristino del rapporto, che doveva, quindi, considerarsi consensualmente risolto.

Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione rilevando che l'assenza ingiustificata dal lavoro non può, di per sé, presentare il carattere della univocità tale da consentire di ravvisarvi la volontà di dimissioni.

La Corte di cassazione respinge il ricorso, premettendo che, nel giudizio di impugnazione del licenziamento, qualora non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del lavoratore, un determinato comportamento da questi tenuto può lasciar presumere una sua volontà di recedere dal rapporto, purché l'indagine circa la sussistenza di dimissioni del lavoratore - che deve essere compiuta dal giudice di merito - venga condotta in conformità a canoni di rigorosità, essendo in discussione beni giuridici primari (cfr. Cass. del 11 novembre 2010, n. 22901).

Inoltre, la giurisprudenza della sezione ha affermato che il comportamento - interpretato alla luce dei princìpi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. - del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell'abbandono della relativa pretesa è idoneo come tale a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva (cfr. Cass. del 28 aprile 2009, n. 9924).

Anche rifacendosi ad ordinamenti prossimi al nostro, quale quello tedesco (che in tali casi parla di Verwirkung), rileva la Cassazione che in siffatte ipotesi si verifica una preclusione all'azione, o più in generale ad una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di stretto diritto, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l'abbandono.

Applicando i predetti princìpi al caso sottoposto al suo esame, a parere della Suprema Corte, deve ritenersi corretto il ragionamento seguito dalla Corte di appello, la quale ha evidenziato che il lavoratore, dopo l'intervento chirurgico, ha atteso oltre un mese prima di rientrare al lavoro, senza inviare al datore di lavoro alcuna certificazione medica concernente le proprie condizioni fisiche e senza comunicare, neppure oralmente, alcuna notizia al riguardo, ingenerando così nel datore di lavoro, un ragionevole affidamento in ordine alla volontà del dipendente di non dare seguito al rapporto.




Autonomia e subordinazione: l'irrilevanza del nomen juris attribuito dalle parti

Cass. Sez. Lav. 13 aprile 2016, n. 7304

Pres. Venuti; Rel. Lorito; P.M. Matera; Ric. I.G.; Contr. I.N.P.S.;

Rapporto di lavoro - Autonomia/subordinazione - Qualificazione del rapporto - Nomen juris attribuito dalle parti - Irrilevanza - Potere qualificatorio del giudice - Modalità concrete di svolgimento del rapporto - Sussiste

Posto che il potere della qualificazione giuridica del contratto esula dall'autonomia negoziale dei privati, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro (con riferimento alla distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo) deve attribuirsi maggiore rilevanza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto, da cui è ricavabile l'effettiva volontà delle parti (iniziale o sopravvenuta), rispetto al "nomen iuris" adottato dalle parti.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna ad occuparsi dell'intricato tema della qualificazione del rapporto di lavoro, alla stregua della tradizionale dicotomia, di derivazione codicistica, tra subordinazione (art. 2094 c.c.) ed autonomia (art. 2222 c.c.).

Il tema è da parecchio tempo al centro del dibattito giurisprudenziale, ed ha avuto un notevole sviluppo in relazione al proliferare, dapprima, delle collaborazioni coordinate e continuative e, successivamente, del lavoro a progetto introdotto dal d.lgs. 276/2003 (c.d. riforma Biagi). Peraltro, alla luce delle disposizioni in materia contenute nel Jobs Act (cfr., in particolare, l'art. 2 del d.lgs. n. 81/2015), non è da escludersi che la questione qualificatoria del rapporto di lavoro mantenga intatto il proprio rilievo, oltre che sul piano dottrinale, anche su quello giurisprudenziale.

In buona sostanza, il discorso riguarda il rilievo da attribuirsi alla qualificazione del rapporto (ad es. come "autonomo") effettuata dalle parti, spesso anche in forma esplicita, al momento della stipulazione del contratto e, in particolare, la capacità di "resistenza" di tale attività qualificatoria rispetto a contestazioni (delle parti stesse o di terzi: ad esempio, un ente previdenziale) sorte successivamente con riguardo all'effettiva natura (subordinata o autonoma) del rapporto de quo. Sul punto, la Corte ribadisce il principio secondo cui "il potere della qualificazione giuridica del contratto esula dall'autonomia negoziale dei privati", ma spetta, in caso di controversie giudiziali, al giudice del merito. Beninteso, ciò non vuol dire che l'eventuale qualificazione operata dalle parti all'interno del contratto non abbia alcun rilievo, ma soltanto che, in sede di qualificazione del rapporto realmente intercorso tra le parti, il giudice debba verificare le "concrete modalità di svolgimento del rapporto": elemento da cui, a parere della Corte, "è ricavabile l'effettiva volontà delle parti (iniziale o sopravvenuta)" e che prevale "rispetto al "nomen iuris" adottato dalle parti".

Risulteranno quindi determinanti, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, le effettive condizioni di svolgimento della stesso, a prescindere dalla dichiarazione, sul punto, delle parti, eventualmente contenuta nel testo dell'accordo.

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