Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare del dipendente assente per infortunio

Licenziamento disciplinare e immutabilità della contestazione

Tutela obbligatoria e scelta fra riassunzione e risarcimento

Uso del mezzo privato e infortunio in itinere

Socio-lavoratore subordinato nelle società di persone

Licenziamento disciplinare del dipendente assente per infortunio

Cass. Sez. Lav. 7 aprile 2016, n. 6774

Pres. Nobile; Rel. Bronzini; P.M. Celentano; Ric. M.O.; Controric. A.S.p.A.

Lavoro subordinato - Infortunio - Malattia - Licenziamento per giusta causa - Svolgimento di altra attività lavorativa durante l'infortunio o la malattia - Violazione doveri di correttezza e buona fede - Obbligo di diligenza e fedeltà -Configurabilità - Criteri - Fattispecie.

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per infortunio o malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buonafede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, non solo allorché tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza dell'infortunio o della malattia dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, ma anche nell'ipotesi in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio.

Nota

La Società A. S.p.A. contestava disciplinarmente al dipendente la violazione dei doveri di fedeltà, diligenza e buona fede perché, pendente lo stato d'infortunio e nonostante la malattia denunciata, si sarebbe recato in più occasioni sia presso l'agenzia assicurativa da lui gestita, sia a fare la spesa. Al termine del procedimento disciplinare il dipendente veniva licenziato per giusta causa posto che, secondo la Società, la protratta assenza dal lavoro non era giustificata da fatti impeditivi della prestazione e, comunque, il comportamento del dipendente aveva pregiudicato il recupero più rapido della capacità lavorativa.

Avverso il provvedimento della Società il dipendente proponeva ricorso al Giudice del lavoro di Taranto sostenendo che i postumi dell'infortunio fossero incompatibili con le mansioni affidate dalla datrice di lavoro che comportavano stazione eretta e trasporto di carichi pesanti come computer e televisioni. Il Tribunale di Taranto rigettava il ricorso proposto e dichiarava la legittimità del licenziamento. Secondo il Giudice di Taranto la prova testimoniale aveva accertato che le mansioni svolte presso la datrice di lavoro non erano dissimili da quelle svolte nell'agenzia assicurativa. Inoltre, la circostanza per cui il ricorrente si fosse recato dallo zio (nello stabile in cui si trovava l'agenzia) solo per riposarsi, dando istruzioni alle segretarie seduto in poltrona, era in sé inverosimile e comunque smentita dalle prove testimoniali. Il Tribunale concludeva nel senso che l'avere lavorato durante lo stato d'infortunio costituiva violazione del dovere di fedeltà e dei principi di correttezza e buona fede. La prestazione era in realtà eseguibile e il lavoratore aveva l'onere di mettere a disposizione le proprie energie lavorative eventualmente con l'esclusione dei lavori più gravosi.

La Corte d'Appello confermava la pronuncia del Tribunale impugnata dal dipendente.

Avverso la sentenza della Corte d'Appello il dipendente proponeva ricorso per Cassazione contestando la tardività della contestazione disciplinare (avvenuta più di un mese dopo l'ultimo episodio accertato dalla società) e che la Corte non aveva considerato che la società era da subito a conoscenza dei movimenti del dipendente e quindi avrebbe dovuto contestare tempestivamente i comportamenti tenuti. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Da un lato, infatti, la Cassazione ha sostenuto che tra il fatto e la contestazione non si ravvisasse dilazione dei tempi, posto che la società, prima di iniziare il procedimento disciplinare, aveva correttamente verificato gli episodi di attività svolta in costanza d'infortunio, le certificazioni ricevute e la compatibilità tra l'attività svolta presso l'Agenzia e quella presso la società. Il breve intervallo temporale tra il fatto e la contestazione non poteva far ritenere che il datore di lavoro avesse abdicato al potere disciplinare né certamente ha messo il dipendente in difficoltà nel giustificare la condotta tenuta.

Dall'altro, la Suprema Corte ha ritenuto che rientrasse nel poter del datore di lavoro esaminare la gravità del comportamento del dipendente valutando se si trattasse o meno di un'episodica attività, anche tenuto conto dei principi di buona fede e correttezza. Infatti, come a più riprese confermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 5 novembre 2009, n. 23444), durante il periodo di malattia il rapporto di lavoro rimane caratterizzato dagli usuali obblighi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), diligenza (art. 2104 c.c.) e fedeltà (art. 2105 c.c.). Questi obblighi si traducono in un dovere del lavoratore di adoperarsi per conseguire una pronta guarigione cui fa da contrappunto il divieto di svolgere attività lavorativa o extra lavorativa nella misura in cui questa possa pregiudicare la guarigione stessa.




Licenziamento disciplinare e immutabilità della contestazione

Cass. Sez. Lav. 24 marzo 2016, n. 5899

Pres. Stile; Rel. Venuti; P.M. Mastroberardino; Ric. G.L.; Controric. H.A.A. S.p.A.;

Art. 7 Stat. Lav. - Licenziamento disciplinare - Immutabilità della contestazione - Sostanziale modifica del fatto addebitato - Violazione - Sussiste

La violazione del principio di immutabilità della contestazione ricorre allorquando il licenziamento venga irrogato per causa diversa da quella enunciata nella lettera di contestazione, e cioè quando vi sia una sostanziale immutazione del fatto addebitato, in modo che il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa.

Nota

La Corte di appello di L'Aquila confermava la decisione del giudice di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore, tendente ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento con reintegra nel posto di lavoro, ed il risarcimento del danno. In particolare, la Corte di merito aveva, tra l'altro, ritenuto che nel caso di specie dovesse considerarsi pienamente rispettato il principio dell'immutabilità della contestazione disciplinare, in quanto il provvedimento di licenziamento che ne era conseguito era stato adottato in virtù dei medesimi fatti che avevano formato oggetto di addebito nella lettera di contestazione disciplinare (id est, mancata realizzazione dei controlli che il lavoratore aveva l'obbligo contrattuale di eseguire). Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su tre motivi. Nello specifico, il lavoratore denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 deducendo che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata, non vi fosse corrispondenza tra i fatti addebitati al dipendente e quelli per i quali il medesimo era stato licenziato. Ed infatti, secondo quanto sostenuto dal ricorrente, mentre nella lettera di contestazioni gli si addebitava di aver provocato l'incidente consistito nella fuoriuscita dell'alluminio fuso dal contenitore durante la fase di colata, nella lettera di licenziamento si faceva riferimento al fatto di non aver eseguito i dovuti controlli della fase di colata per circa 30 minuti, e nella memoria di costituzione venivano richiamate altre circostanze quali la mancata sospensione della colata, l'allontanamento dal forno, la mancata esecuzione dei controlli, la superficialità della sua condotta.

La Suprema Corte rigettava il ricorso. La Corte di legittimità, sulla premessa che la verifica della corrispondenza tra l'addebito contestato e quello posto a fondamento del licenziamento deve essere effettuata esclusivamente con riguardo al contenuto di tali provvedimenti e non anche con riferimento ai fatti e comportamenti attribuiti al lavoratore negli atti difensivi, ha evidenziato che a nulla rilevava che nella lettera di licenziamento fosse stato precisato che la mancanza di controllo si fosse protratta per circa 30 minuti, trattandosi di una circostanza confermativa dell'addebito già contestato che non comportava violazione del principio di immutabilità della contestazione. La Suprema Corte, richiamando propri precedenti in materia, ha altresì osservato che la violazione del principio di immutabilità della contestazione ricorre esclusivamente allorchè il licenziamento venga irrogato per causa diversa da quella enunciata nella lettera di contestazione, e cioè quando vi sia una sostanziale immutazione del fatto addebitato, in modo che il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa (in senso conforme cfr. Cass. 12 marzo 2010, n. 6091; Cass. 7 maggio 1991, n. 5054). Per le ragioni innanzi esposte la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando la sentenza gravata.




Tutela obbligatoria e scelta fra riassunzione e risarcimento

Cass. Sez. Lav. 1 aprile 2016, n. 6390

Pres. Macioce; Rel. Torrice; P.M. Celeste; Ric. P.F.E.M. S.r.l.; Controric. P.D.;

Lavoro subordinato - Tutela c.d. obbligatoria - Art. 8 della legge n. 604/1966 - Illegittimità del licenziamento - Conseguenze - Riassunzione o risarcimento del danno - Natura alternativa delle due obbligazioni - Libera scelta del datore di lavoro - Irrilevanza dei motivi - Fattispecie.

Nell'ambito della cosiddetta tutela obbligatoria, la previsione dell'art. 8 della legge n. 604/1966 sull'alternatività tra riassunzione e risarcimento del danno deve essere interpretata, per assicurarne la conformità ai principi costituzionali, nel senso che la scelta effettuata all'esito della sentenza che pronunci sull'illegittimità del licenziamento è rimessa per legge al datore di lavoro obbligato, con conseguente irrilevanza dei motivi che hanno ispirato detta scelta.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento intimato nell'ambito della c.d. tutela obbligatoria, impugnato dal lavoratore e successivamente ritenuto illegittimo dal Tribunale di Chieti, che condannava la società alla riassunzione del lavoratore ovvero, in alternativa, al risarcimento del danno nella misura pari a tre mensilità di retribuzione. La società procedeva alla riassunzione del lavoratore, dopodiché, alcuni giorni dopo, procedeva a un nuovo licenziamento per motivi oggettivi (per fine dei lavori nel cantiere cui il lavoratore era stato addetto). Il lavoratore adiva nuovamente il Tribunale di Chieti che dichiarava nullo tale secondo licenziamento per illiceità del motivo, sul rilievo che la scelta della datrice di lavoro, effettuata all'esito della pronunzia giudiziale di illegittimità del primo licenziamento, violava i principi di correttezza e buona fede e determinava l'illegittimità del successivo licenziamento. Conseguentemente, il Tribunale condannava la società alla riammissione in servizio del lavoratore ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla riammissione.

Tale sentenza veniva confermata anche in secondo grado dalla Corte d'Appello dell'Aquila, che riteneva che la sequenza cronologica dei fatti attestava l'intento elusivo della condotta della società realizzatasi nella scelta di riassumere il lavoratore in luogo di pagare l'indennità risarcitoria. Contro la sentenza di secondo grado ricorre la società, deducendo che, a differenza di quanto previsto dall'art. 18 della legge n. 300/1970, il licenziamento intimato in regime di tutela obbligatoria non ha incidenza sulla continuità del rapporto, in quanto il successivo eventuale accertamento di illegittimità comporta per il datore di lavoro l'obbligo alternativo di riassumere ex nunc il lavoratore ovvero di pagare l'indennità risarcitoria. La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato, rilevando innanzitutto che la scelta effettuata dal datore di lavoro, all'esito della sentenza che pronunci sull'illegittimità del licenziamento in regime di tutela obbligatoria, è rimessa per legge al datore di lavoro obbligato, con conseguente irrilevanza dei motivi che hanno ispirato detta scelta (cfr. in senso analogo anche Cass. 14426/2000). A sostegno di tale assunto, la Corte ha anche richiamato la sentenza n. 44/1996 della Corte Costituzionale, la quale ha affermato che, per le imprese con meno di 15 dipendenti, la legge del tutto ragionevolmente riconosce al datore di lavoro la scelta in ordine alla possibilità di riassumere il lavoratore illegittimamente licenziato, ovvero di risarcirgli il danno conseguente all'accertata illegittimità del licenziamento. Tra l'altro, sempre con tale pronuncia, la Corte costituzionale ha precisato che l'art. 8 della L. 604/1966 - interpretato in modo conforme agli artt. 1286 e ss. del codice civile - prevede che, operata la scelta fra due prestazioni, si determina l'irrevocabilità della stessa, e il debitore (quindi il datore di lavoro) resta liberato dalla seconda prestazione.

Agli argomenti richiamati dalla citata giurisprudenza costituzionale, la Corte di Cassazione ha aggiunto la considerazione che - a differenza della reintegra ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori - la riassunzione di cui all'art. 8 della legge n. 604 del 1966 determina sempre la ricostituzione ex nunc di un nuovo rapporto di lavoro.

Sulla scorta di tali principi e considerazioni la Corte di Cassazione ha ritenuto che, nel caso di specie, non è possibile attribuire alcuna rilevanza al motivo che ispirò la scelta della società datrice di lavoro in esito alla declaratoria di illegittimità del primo licenziamento (ovvero di riassumere il lavoratore, piuttosto che di pagargli l'indennità risarcitoria nella misura liquidata dal giudice), motivo che, di per sé solo, non vale ad inficiare nemmeno il successivo licenziamento, oggetto del ricorso in esame.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per l'accoglimento del ricorso, cassando la sentenza impugnata, con conseguente rigetto del ricorso di primo grado del lavoratore.




Uso del mezzo privato e infortunio in itinere

Cass. Sez. Lav. 13 aprile 2016, n. 7313

Pres. Bronzini; Rel. Riverso; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.M.; Controric. INAIL;

Infortunio in itinere - Uso del mezzo privato - Presupposti di indennizzabilità - Carattere necessitato e normalità del percorso - Criteri interpretativi - Valori di rango costituzionale e standards comportamentali della società civile - Velocipede - Uso sempre necessitato - Limiti - Rischio elettivo

In materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, ai fini dell'indennizzabilità dell'infortunio "in itinere" anche in caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato deve aversi riguardo a criteri che individuino la legittimità o meno dell'uso del mezzo in questione secondo gli "standards" comportamentali esistenti nella società civile e rispondenti ad esigenze tutelate dall'ordinamento, quali un più intenso legame con la comunità familiare ed un rapporto con l'attività lavorativa diretto ad una maggiore efficienza delle prestazioni non in contrasto con una riduzione del conflitto fra lavoro e tempo libero.

Nota

La Corte D'Appello di Firenze ha riformato la sentenza di primo grado con cui era stata accolta la domanda di un lavoratore volta al riconoscimento di aver subito un infortunio in itinere mentre ritornava dal lavoro alla sua abitazione in bicicletta. Il Tribunale aveva ritenuto che la distanza da coprire fosse eccessiva per andare a piedi anche in relazione alla necessità di assistere un familiare. I giudici del gravame hanno riformato la decisione sul presupposto che la distanza da coprire non era tale da rendere l'uso della bicicletta necessitato né era stata dimostrata la contingente necessità familiare dedotta.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo l'inclusione dell'uso della bicicletta nella tutela assicurativa dell'infortunio in itinere stante la necessità, protetta dall'ordinamento, di favorire spostamenti che riducano costi economici, ambientali e sociali.

La Suprema Corte ha accolto il motivo, affermando il principio di cui alla massima e ritenendo la decisione della Corte territoriale in contrasto con esso per aver valutato la legittimità dell'uso del mezzo privato esclusivamente con il criterio della distanza abitazione-lavoro mentre essa va individuata in relazione ad un criterio di normalità-razionalità che tenga conto dei vari standards comportamentali esistenti nella società civile. Nel pervenire a tale conclusione la Cassazione ha ripercorso la disciplina dell'infortunio in itinere ed i vari approdi giurisprudenziali, richiamando la disciplina dell'art. 12 L. 38/2000 - che richiede per l'indennizzabilità dell'infortunio che l'uso del mezzo privato sia necessitato ed il percorso "normale" - nonché l'orientamento consolidato che individua il limite dell'indennizzabilità nel rischio elettivo, inteso come tutto ciò che sia estraneo e non attinente all'attività lavorativa, dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore che crei volutamente una situazione diversa da quella inerente l'attività lavorativa, ponendo in essere una condotta interruttiva del nesso lavoro-evento (Cass 17 maggio 2000, n. 6431). Sulla scia della massima enunciata la Cassazione individua, quali criteri identificativi della "necessità" della scelta del lavoratore di usare il mezzo privato, la normalità e ragionevolezza e, nell'interpretare l'art. 12 L. 38/2000, afferma che deve farsi ricorso valori guida dell'ordinamento di rango costituzionale idonei a risolvere il conflitto fra interesse dell'istituto assicuratore a non erogare prestazioni che esulino dalle sue funzioni di copertura di rischi propri delle attività lavorative e quello del lavoratore di vedere non escluso dall'ambito di tali attività momenti peculiari della sua personalità di uomo-lavoratore in esse coinvolte, quali la libertà di fissazione della residenza, il rapporto con la comunità familiare, una più intensa tutela previdenziale. Secondo la Corte, in quest'ottica, assume significativo rilievo la tendenza dell'ordinamento a favorire l'uso della bicicletta, di recente manifestatasi nella L. 221 del 28.12.2015, il cui art. 5, commi 4 e 5 (modificando gli art. 2 e 210 del T.U. 1124/65), hanno integrato la materia dell'infortunio in itinere, chiarendo che l'uso del velocipede - ovvero, ai sensi del codice della strada, il veicolo con due o più ruote funzionante a propulsione esclusivamente muscolare, anche se assistita - "deve intendersi sempre necessitato". Per effetto di tale riforma, quindi, l'utilizzo della bicicletta nel tragitto casa-lavoro è sempre assicurato, al pari dell'andare a piedi o con il mezzo di trasporto pubblico. La Cassazione precisa che, sebbene nel caso esaminato la normativa citata non era ancora applicabile ratione temporis, essendo espressione di istanze sociali presenti da tempo nell'ordinamento, va utilizzata dal giudice in chiave interpretativa al fine di dare contenuto alla norma elastica contenuta nell'art. 12 L. 38/2000. La sentenza della Corte territoriale viene, pertanto, cassata, avendo fatto riferimento, quale criterio interpretativo, unicamente alla distanza, mentre l'uso della bicicletta per recarsi al lavoro va valutato in relazione al costume sociale, alle normali esigenze familiari del lavoratore, alla presenza di mezzi pubblici di trasporto ed alla loro modalità di organizzazione, alla tipologia del percorso effettuato, alla conformazione dei luoghi, alle condizioni climatiche e, soprattutto alla tendenza presente nell'ordinamento - di cui la riforma citata rappresenta una chiara manifestazione - rivolta all'incentivazione dell'uso della bicicletta.

Si segnala che, in ordine all'infortunio in itinere occorso facendo uso della bicicletta, è stata di recente emanata dall'INAIL la circolare n. 14 del 25 marzo 2016 che analizza in dettaglio la disciplina attualmente in vigore anche alla luce della riforma attuata dalla citata L. 221/2015.




Socio-lavoratore subordinato nelle società di persone

Cass. Sez. Lav. 5 aprile 2016, n. 6576

Pres. Manna; Rel. Tricomi; P.M. Celeste; Ric. Z.L.; Controric. INPS;

Società di persone - Società in nome collettivo - Cumulabilità della qualità di socio e di lavoratore subordinato - Condizioni - Subordinazione del socio lavoratore nei confronti di un altro socio - Necessità

Nella società di persone che non siano enti giuridici distinti dai singoli soci, un rapporto di lavoro subordinato tra la società ed uno dei soci (che, assumendo la veste di dipendente, non perde i diritti connessi alla predetta qualità), è configurabile, in via eccezionale, nella sola ipotesi in cui il socio presti la propria attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio e sempre che la predetta prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale.

Nota

L'INPS, con verbale ispettivo del 1992, accertava la simulazione di un rapporto di lavoro subordinato tra una società in nome collettivo e il relativo socio di maggioranza, avendo accertato che il socio lavoratore era stato amministratore unico della società fino a quando tale carica era stata assunta dalla moglie, anch'essa socia, che, tuttavia, gli aveva delegato i poteri propri dell'amministratore unico.

La moglie, in qualità di legale rappresentante della società, proponeva opposizione al verbale ispettivo avanti al Tribunale di Lamezia Terme che accoglieva il ricorso.

La Corte d'Appello di Catanzaro, in accoglimento dell'impugnazione promossa dall'istituto previdenziale, dichiarava valido ed efficace il verbale di accertamento in merito alla simulazione del rapporto di lavoro subordinato del coniuge dell'appellata.

La Corte d'Appello motivava la decisione affermando che gravava sul socio che assume di aver instaurato a latere del rapporto associativo, un ulteriore e diverso rapporto di lavoro subordinato, la prova che l'attività lavorativa non integri un conferimento previsto dal contratto societario e che si svolga sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia. Avverso tale sentenza la società ricorreva in Cassazione; l'INPS resisteva con controricorso.

La ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. assumendo che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di secondo grado, spettasse all'Istituto dimostrare la pretesa simulazione del rapporto di lavoro. La Suprema Corte - dopo aver chiarito che ex art. 2697 c.c. è onere dell'istituto previdenziale dimostrare i fatti costitutivi del credito oggetto del verbale ispettivo - ha rigettato il ricorso negando che, nel caso di specie, vi fosse stata un'inversione dell'onere della prova, in quanto la Corte d'appello si era limitata ad accertare che il socio lavoratore era rimasto titolare di tutti i poteri propri dell'amministratore unico e che, di conseguenza, non vi era in azienda un altro socio che potesse esercitare nei suoi confronti il potere direttivo tipico del lavoro subordinato.

La Corte di Cassazione ha poi ribandito il principio (già affermato, tra le altre, in Cass. 4725/1999) secondo cui è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra una società di persone ed uno dei soci nella sola ipotesi in cui il socio presti la propria attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio, e sempre che la predetta prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale (tale principio trova, peraltro, applicazione anche con riguardo alle società di capitali come affermato ex plurimis in Cass. 24972/2013).

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