Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per superamento del comporto

Licenziamento per abuso dei permessi per assistenza familiare disabile

Licenziamento per giusta causa

Responsabilità del datore per l'infortunio sul lavoro

Licenziamento per giusta causa e insubordinazione

Licenziamento per superamento del comporto

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Principio di immutabilità dei motivi del recesso - Applicabilità - Conseguenze - Rilevanza delle assenze dal lavoro non contestate - Esclusione.

In caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto il datore di lavoro non può modificare l'addebito invocando il superamento di un diverso periodo di comporto non indicato nella lettera di licenziamento. Anche in tale ipotesi, infatti, trova applicazione la regola dell'immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento, la quale, operando come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore (il quale vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata e la validità dell'atto di recesso), ha carattere generale, e vale quindi per tutti i casi di assoggettamento del rapporto di lavoro a norme limitatrici del potere di recesso del datore di lavoro, quali sono sia le norme della legge n. 604 del 1966 sia quella di cui all'art. 2110, secondo comma, cod. civ..

Cass. Sez. Lav. 18 maggio 2016, n. 10252

Pres. Nobile; Rel. Bronzini; P.M. Mastroberardino; Ric. M.I.C.A.C. s.p.a. e D.R.E.

Nota

La fattispecie, sottoposta al vaglio della Suprema Corte, attiene al licenziamento irrogato ad una lavoratrice per superamento del periodo di comporto. Nel caso in esame, la società datrice di lavoro aveva allegato alla lettera di recesso un prospetto indicante le assenze effettuate; prospetto che, poi, si è rivelato errato, essendo stata conteggiata anche una giornata in cui la lavoratrice aveva usufruito di aspettativa non retribuita. Il Tribunale di Milano dichiarava illegittimo il licenziamento, rilevando che: a) sulla base del prospetto allegato non erano stati superati i giorni previsti per il comporto; b) non era possibile, per il principio di immutabilità dei motivi del recesso, considerare anche le assenze non indicate nel prospetto e dedotte successivamente solo in giudizio; c) del tutto irrilevante era che la lavoratrice fosse stata a conoscenza del superamento del periodo di comporto (come dimostrato dalle missive mandate alla società). La Corte territoriale, con motivazione aderente a quella del giudice di primo grado, confermava la declaratoria di illegittimità del licenziamento.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamandosi all'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. ex plurimis Cass. 13/08/2009, n. 18283; Cass. 22/03/2005, n. 6143) secondo cui, anche nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, vale la regola generale (posta a garanzia del lavoratore) dell'immodificabilità dei motivi del recesso, con la conseguenza che, ai fini del superamento del suddetto periodo, non può tenersi conto delle assenze non indicate nella lettera di licenziamento. La Corte di legittimità, ha, infatti, ribadito che il datore di lavoro non ha l'onere di specificare dettagliatamente le giornate di assenza del dipendente ma se lo fa (come nel caso di specie) deve effettuare una verifica puntuale e preventiva delle assenze che si ritengono pertinenti e non può, poi, solo in giudizio, riferirsi ad un periodo diverso non preso in considerazione nel momento in cui è stato irrogato il licenziamento.




Licenziamento per abuso dei permessi per assistenza familiare disabile

Permessi ex art. 33 L. 104/1992 - Utilizzo parziale del permesso per assistenza al familiare disabile - Abuso del diritto - Violazione dei criteri di correttezza e buona fede - Configurabilità - Licenziamento giusta causa - Ammissibilità

Il comportamento del lavoratore subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33, L. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare ma per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si dimostra, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa (obbligandolo, inoltre, a sopportare modifiche organizzative) ed integra, nei confronti dell'Ente previdenziale erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale.

Controlli da parte del datore di lavoro - Sulla malattia del lavoratore - Inammissibilità - Su comportamenti extralavorativi atti a dimostrare l'assenza della malattia - Ammissibilità

Il divieto, ex art. 5, L. 300/1970, per il datore di lavoro di procedere direttamente ad accertamenti attinenti a malattie o infermità del lavoratore e la facoltà allo stesso riconosciuta di effettuare il controllo sulle assenze per infermità tramite i servizi ispettivi degli istituti previdenziali, non preclude al datore di lavoro medesimo, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, di procedere ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa e, dunque, a giustificare l'assenza.

Cass. Sez. Lav. 6 maggio 2016, n. 9217

Pres. Amoroso; Rel. Bronzini; P.M. Fresa; Ric. M.M.; Contr. S. S.p.A.;

Nota

La Corte di appello di Ancona, in riforma della sentenza del Tribunale di Lanciano, dichiarava la legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro ad un proprio dipendente, il quale, avendo richiesto alcuni permessi ex L. 104/1992, come da accertamento compiuto da un'agenzia investigativa, era stato visto recarsi presso l'abitazione dell'assistita - cognata non convivente - per un numero di ore inferiore a quello previsto. Rilevava la Corte di appello che nel caso di specie ricorreva la figura dell'abuso del diritto tenuto conto che dall'accertamento era emerso che il lavoratore per oltre due terzi del tempo previsto non aveva svolto alcuna funzione assistenziale.

Il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando la violazione di legge in quanto, secondo la prospettazione del ricorrente, l'art. 33 della L. 104/1992 non prevede che l'assistenza venga fornita per l'intero arco del permesso fruito.

La Suprema Corte respinge il motivo richiamando il principio espresso dalla sezione secondo cui il comportamento del lavoratore subordinato che si avvalga del permesso ex art. 33, L. 104/1992 non per l'assistenza al familiare bensì per attendere ad altra attività integra l'ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si dimostra, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa ed integra, nei confronti dell'Ente previdenziale erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale (cfr. Cass. del 4 marzo 2014, n. 4984). Nel caso di specie, ad avviso della Cassazione, è stato accertato che l'assistenza non è stata prestata per due terzi del tempo dovuto - o, in base alle stesse allegazioni del lavoratore, per metà del tempo dovuto - con conseguente grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che ha dovuto sopportare modifiche organizzative) sia dell'Ente previdenziale; a tale conclusione può giungersi anche senza aderire alla figura dell'"abuso del diritto", comunque inserita tra i principi dalla Carta dei diritti dell'Unione Europea (art. 54) a riprova del crescente rilievo nella giurisprudenza europea.

Con successivo motivo il lavoratore denuncia violazione degli artt. 4 e 5 L. 300/1970, in tema di accertamenti disposti tramite agenzie investigative, affermando che le prove acquisite erano inutilizzabili in quanto i pedinamenti sarebbero avvenuti in modo invasivo turbando la propria serenità familiare.

La Suprema Corte respinge anche tale motivo rilevando che il divieto per il datore di lavoro -ex art. 5, L. 300/1970- di effettuare direttamente accertamenti su malattie o infermità del lavoratore e la facoltà allo stesso riconosciuta di procedere al controllo sulle assenze per infermità solo tramite i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore di lavoro medesimo, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, di procedere ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa e, dunque, a giustificare l'assenza. Conseguentemente il controllo attraverso agenzie investigative deve ritenersi lecito e lo stesso può avvenire, come nel caso di specie, anche attraverso controlli sugli spostamenti del lavoratore, a nulla rilevando che il lavoratore avesse chiamato i Carabinieri, circostanza che di per sé non dimostra che le modalità di pedinamento fossero state invasive della tranquillità familiare. A parere della Cassazione, quindi, certamente rientrava nel potere del datore di lavoro verificare la correttezza, sotto il profilo dell'effettività, della richiesta di permessi di lavoro per l'assistenza a cognata non convivente.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 maggio 2016, n. 9486

Pres. Napoletano; Rel. Esposito; Ric. C.R.; Controric. S.A.P.I. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Licenziamento per giusta causa - Gravità del fatto contestato - Proporzionalità della sanzione - Necessità di valutazione della condotta tenuta nel resto del rapporto - Esclusione

Rispetto all'estrema gravità del fatto ritenuto di per sé solo idoneo a compromettere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perde qualsiasi rilevanza la considerazione della condotta tenuta dal lavoratore in epoca anteriore, né si palesa necessario il vaglio della medesima ai fini della valutazione riguardo alla sussistenza della giusta causa di recesso.

Nota

La sentenza in esame ha ad oggetto la proporzionalità del recesso per giusta causa intimato a seguito di un inadempimento commesso da un lavoratore che non aveva mai avuto sanzioni disciplinari in precedenza. La Corte d'Appello di Ancona aveva ritenuto, in riforma della decisione di primo grado, la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al ricorrente. Il lavoratore, adibito al pattugliamento notturno di autostrada, era stato rinvenuto addormentato in auto durante il suo turno e la Corte territoriale aveva ritenuto tale inadempimento abbastanza grave da legittimare il recesso immediato già per il solo arresto della prestazione lavorativa, in mancanza di alcuna comunicazione in merito alla centrale operativa. La Corte d'Appello poi aveva tenuto in considerazione anche alcune circostanze ulteriori tra cui il fatto che il pattugliamento, che normalmente avrebbe dovuto essere stato compiuto da due addetti mediante l'utilizzo di un solo veicolo, quella sera era stato realizzato con due veicoli - uno per ciascun addetto - utilizzati per dormire al loro interno. Neppure di tale circostanza veniva data comunicazione alla centrale. Contro tale decisione il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione articolato in vari motivi sostenendo, tra l'altro, che la sanzione irrogata fosse sproporzionata rispetto all'inadempimento sia perché secondo il CCNL applicato al rapporto l'addormentarsi in servizio prevedeva la sola sanzione della multa, sia perché a suo avviso la Corte aveva omesso di valutare aspetti ulteriori rispetto a quest'ultimo quali l'assenza di recidiva o di altre sanzioni disciplinari per tutta la durata del rapporto.

Quanto al primo profilo la Cassazione ha affermato che la gravità della condotta era stata valutata correttamente in considerazione di una serie di circostanze ulteriori rispetto al semplice addormentamento. Quanto al secondo profilo, poi, la Suprema Corte ha affermato che un unico inadempimento può essere sufficiente a integrare un'ipotesi di giusta causa di recesso, senza che sia necessario valutare gli ulteriori elementi indicati dal ricorrente. Secondo la Corte, infatti, "rispetto all'estrema gravità del fatto ritenuto di per sé solo idoneo a compromettere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro, perde qualsiasi rilevanza la considerazione della condotta tenuta dal lavoratore in epoca anteriore, né si palesa necessario il vaglio della medesima ai fini della valutazione riguardo alla sussistenza della giusta causa di recesso".

In conseguenza di quanto sopra, il ricorso è stato integralmente rigettato.




Responsabilità del datore per l'infortunio sul lavoro

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Danno alla salute del lavoratore - Responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Configurabilità - Condizioni - Violazione dell'art. 4 lett. c) D.P.R. n. 547 del 1955 - Prioritaria dimostrazione della relativa condotta omissiva - Necessità - Assolvimento dei predetti obblighi - Accertamento - Criteri.

La violazione dell'art. 4, lett. c) del d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 (che obbliga datori di lavoro, dirigenti e preposti a "disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione") non può essere desunta dalla mera verificazione dell'evento infortunistico, ma postula la prioritaria dimostrazione della relativa condotta omissiva. L'assolvimento degli obblighi imposti da tale norma, dovendo essere verificato con riguardo alle peculiari caratteristiche dell'impresa, ai tipi di lavorazione ivi effettuati, all'entità del personale e ai diversi gradi di rischio, non comporta, sempre ed in ogni caso, una sorveglianza ininterrotta o la costante presenza fisica del controllore accanto al lavoratore; ma può anche sostanziarsi in una discreta, seppure continua ed efficace, vigilanza generica, intesa ad assicurarsi, nei limiti dell'umana efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite ed utilizzino gli strumenti di protezione prescritti, tenuto altresì conto che l'obbligo di vigilanza subisce un'ulteriore attenuazione, in base ad un principio di ragionevole affidamento nelle accertate qualità del dipendente, in ipotesi di provetta specializzazione dell'operaio addetto da lungo tempo, e con approfondita conoscenza del macchinario impiegato, ad una determinata lavorazione.

Cass. Sez. Lav. 16 marzo 2016, n. 5233

Pres. Roselli; Rel. Manna; Ric. P.I.; Controric. P.G.;

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i presupposti della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.

Segnatamente, nel caso di specie, il ricorrente domandava il risarcimento dei danni non patrimoniali subîti a seguito di un infortunio sul lavoro. In dettaglio, il dipendente, nell'eseguire operazioni di revisione di un automezzo aziendale, era stato colpito da un bullone che si accingeva ad estrarre, riportando una cecità assoluta all'occhio sinistro e uno stress cronico moderato post-traumatico, con conseguente inabilità permanente.

I Giudici del merito, accertata la responsabilità del datore di lavoro nella causazione dell'evento, lo condannavano al risarcimento del pregiudizio esistenziale, biologico e morale patito dal prestatore, ravvisando una violazione dell'art. 2087 c.c. in quanto l'ambiente di lavoro era scarsamente illuminato e l'azienda non aveva vigilato affinché i dipendenti utilizzassero gli occhiali protettivi e i sistemi di illuminazione mobili messi a loro disposizione.

La società proponeva, quindi, ricorso per cassazione, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. "per avere la sentenza impugnata ravvisato la responsabilità della società pur essendosi accertato che l'infortunio si era verificato perché il lavoratore - operaio tecnico - non aveva inforcato gli occhiali protettivi regolarmente fornitigli dall'azienda". Il datore di lavoro eccepiva, altresì, di aver adottato tutte le cautele prescritte ex lege, formando professionalmente il lavoratore e informandolo circa i rischi del lavoro svolto, munendolo di occhiali protettivi e di lampade mobili, ciò tenuto anche conto che, a parere dell'impresa, non era necessaria una particolare vigilanza del lavoratore durante l'operazione svolta (lo svitamento di un bullone), poiché di estrema semplicità nonché assegnata ad un operatore di elevata esperienza. La Suprema Corte respinge il ricorso, rammentando, anzitutto, che se è vero che la violazione dell'art. 4, lett. c) del d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 - norma che obbliga i datori di lavoro, dirigenti e preposti a "disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione" - postula un accertamento che abbia riguardo alle peculiari caratteristiche dell'impresa, ai tipi di lavorazione ivi effettuati, all'entità del personale e ai diversi gradi di rischio, la sorveglianza dovuta dai datori di lavoro, dirigenti e preposti non deve essere ininterrotta e con costante presenza fisica del controllore accanto al lavoratore, ma può anche sostanziarsi in una discreta, seppure continua ed efficace, vigilanza generica, intesa ad assicurarsi, nei limiti dell'umana efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite ed utilizzino gli strumenti di protezione prescritti, tenuto anche conto che l'obbligo di vigilanza subisce un'ulteriore attenuazione, in base ad un principio di ragionevole affidamento nelle accertate qualità del dipendente, in ipotesi di provetta specializzazione dell'operaio munito di approfondita conoscenza d'una determinata lavorazione cui sia addetto da lungo tempo. Nondimeno, argomenta la Cassazione, tale mera attenuazione - che è configurabile solo in ipotesi di lavoratore esperto, già adeguatamente formato professionalmente ed informato dei rischi connessi alle mansioni assegnategli - non si identifica con la totale omissione di controllo, correttamente ravvisata nel caso di specie dai giudici di merito, circa l'uso di lampade mobili e occhiali protettivi, controllo ancor più necessario viste le condizioni di insufficiente illuminazione dell'ambiente di lavoro. Né - concludono i Giudici di legittimità - esime da tale obbligo la semplicità dell'operazione lavorativa, atteso che il grado di maggiore o minore complessità del lavoro da espletare non è in rapporto di proporzionalità diretta con il rischio protetto, ben potendosi dare lavorazioni complesse, ma non pericolose e, per converso, altre ance semplici, ma con elevato livello di pericolosità.




Licenziamento per giusta causa e insubordinazione

Licenziamento per giusta causa - Insubordinazione - Critica al datore di lavoro - Esorbitanza dall'obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti - Utilizzo di toni e/o espressioni ingiuriosi e/o aggressivi - Lesione del vincolo fiduciario - Legittimità

Posto che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale, può integrare la nozione di giusta causa una critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale e dei toni e dei contenuti. Tale comportamento, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all'art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa in ultima analisi sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza non può non risentire un pregiudizio allorchè il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli.

Cass. Sez. Lav. 11 maggio 2016, n. 9635

Pres. Napoletano; Rel. Cavallaro; P.M. Celentano; Ric. I.P.V.L.R.; Contr. C.C.;

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un interessante caso di insubordinazione del dipendente, consistente nell'utilizzo, da parte di quest'ultimo, di espressioni ingiuriose - o comunque verbalmente aggressive - nei confronti del proprio superiore gerarchico; a tale episodio era seguita l'intimazione del licenziamento in tronco da parte del datore di lavoro.

La fase di merito si era conclusa in senso favorevole per l'ex dipendente, avendo i giudici ritenuto che l'utilizzo di espressioni ingiuriose e diffamatorie verso il datore di lavoro non costituisse un rifiuto ad adempiere la prestazione, quanto, piuttosto, che queste ultime fossero, al più, ascrivibili ad abitudini lessicali del lavoratore, prive di reale offensività e/o contenuto aggressivo.

La Cassazione, invece, ribalta la sentenza d'appello sul seguente duplice presupposto: da un lato, la Corte ribadisce che la nozione di giusta causa configura una clausola generale, il cui contenuto va specificato in sede interpretativa; dall'altro, afferma che l'insubordinazione "non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale". Da tali premesse, a parere dei giudici di legittimità, deriva che "la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di correttezza formale e dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all'art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all'organizzazione aziendale, dal momento che l'efficienza di quest'ultima riposa in ultima analisi sull'autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza non può non risentire un pregiudizio allorchè il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli". E quindi, avendo la Corte attribuito un preciso - e grave - disvalore disciplinare a siffatta condotta del dipendente, fa discendere da ciò la considerazione che quest'ultima è idonea a ledere il vincolo fiduciario posto a base del rapporto di lavoro, così legittimando il licenziamento per giusta causa. A ciò si aggiunga che, a parere della Cassazione, a tale ricostruzione neppure può ostare (come in effetti avvenuto nel caso di specie) una previsione del contratto collettivo che preveda il licenziamento in tronco a fronte (solo) di condotte aggressive non solo verbalmente, ma anche fisicamente. Sul punto, la S.C. coglie l'occasione per ribadire il proprio orientamento secondo cui il giudice non può ritenersi vincolato alle previsioni del contratto collettivo, con la conseguenza che questi potrà - e dovrà - occuparsi dell'eventuale impatto sul vincolo fiduciario generato da determinate condotte del lavoratore: potendo, quindi, ravvisare l'integrazione della giusta causa di licenziamento a seguito tanto di un "grave inadempimento", quanto di "un grave comportamento...contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile".

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