Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Assenza del lavoratore alla visita medica di controllo

Valutazione degli elementi di prova

Trasferimento di ramo d'azienda

Licenziamento per giusta causa

Licenziamento disciplinare illegittimo

Assenza del lavoratore alla visita medica di controllo

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2016, n. 10661

Pres. Venuti; Rel. Negri della Torre; P.M. Mastroberardino; Ric. P.I. s.p.a..; Controric. A.M.;

Malattia - Assenza alla visita di controllo durante le fasce di reperibilità - Giustificazione - Seria e valida ragione socialmente apprezzabile - Sufficienza

In tema di indennità di malattia, il giustificato motivo di assenza, necessario per escludere la sanzione per il mancato reperimento del lavoratore alla visita di controllo durante le fasce orarie di reperibilità, non si identifica esclusivamente nello stato di necessità o di forza maggiore, potendo essere, invece, costituito, alla stregua della sentenza n. 78 del 1988 della Corte Costituzionale, anche da una seria e valida ragione, socialmente apprezzabile, la cui dimostrazione spetta al lavoratore.

Nota

La Corte d'Appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Grosseto di rigetto del ricorso proposto dalla società per accertare la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato per assenza ingiustificata alla visita medica di controllo. In particolare, la Corte territoriale, condividendo la valutazione del Tribunale, ha ritenuto che la lettera con cui il lavoratore aveva comunicato che "il 30.5.2008 non sarebbe potuto essere presente ad eventuali visite di controllo atteso il ricovero presso l'ospedale della madre affetta da handicap grave" non si riferisse esclusivamente all'assenza del 30 maggio, ma anche ai giorni successivi di durata del ricovero, nei quali, pertanto, il lavoratore non doveva ritenersi ingiustificatamente assente alla visita domiciliare. Secondo i giudici del gravame, essendo incontroverso il ricovero ospedaliero, l'esigenza di prestare assistenza al familiare integra una seria e valida ragione idonea a giustificare l'assenza dal domicilio nelle fasce di reperibilità.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a sette motivi, di cui i primi due sono stati dichiarati inammissibili e gli altri rigettati. Nel respingere il terzo e quarto motivo la Suprema Corte ha affermato il principio di cui alla massima, richiamandosi a specifici precedenti in termini (Cass. 29 novembre 2002, n. 16996; Cass. 2 agosto 2004, n. 14735) e ritenendo corretta la valutazione della Corte territoriale laddove, in base all'esame del tenore letterale della comunicazione inviata dal lavoratore ed in ragione del suo contenuto, ha reputato sussistesse una valida e seria ragione giustificativa dell'assenza dal domicilio durante la malattia. La Suprema Corte ha precisato che la ragione "socialmente apprezzabile" comprende ogni situazione che sia tale secondo i parametri della coscienza collettiva ed è da ritenersi integrata tutte le volte che il dovere di cooperazione del lavoratore risulti posto in comparazione con un dovere etico generalmente riconosciuto e di valore cogente rimanendo ad esso subordinato. Tuttavia - ha aggiunto la Cassazione - la ragione "socialmente apprezzabile" così identificata, deve pur sempre avere reso indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità.

A parere della Cassazione la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi laddove ha ritenuto che la comunicazione in merito alla necessaria assistenza da prestare alla madre durante un ricovero ospedaliero era idonea a giustificarne l'assenza dal domicilio, pertanto il ricorso è stato rigettato.




Valutazione degli elementi di prova

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2016, n. 10344

Pres. Di Cerbo; Rel. Berrino; P.M. Sanlorenzo; Ric. L.C.M.; Controric. P.I. S.p.A.;

Principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile - Sentenza penale di proscioglimento per prescrizione del reato - Giudicato penale - Efficacia nel giudizio civile - Insussistenza

In tema di giudicato, la disposizione di cui all'art. 652 cod. proc. pen., così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 dello stesso codice, costituisce un'eccezione al principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e non è, pertanto, applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale. Pertanto, nel caso da ultimo indicato, il giudice civile, pure tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione.

Nota

La Corte di appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado che aveva annullato il licenziamento intimato al dipendente ordinandone la reintegra, dichiarava la legittimità del predetto atto di recesso. In particolare, la Corte territoriale, dopo aver rilevato che era stato dichiarato prescritto il reato a carico del lavoratore consistito nella falsificazione del verbale della Commissione sanitaria di Nola, grazie al quale il medesimo aveva ottenuto l'iscrizione nella lista degli invalidi e l'assunzione per chiamata diretta, procedeva a valutare autonomamente i fatti contestati in sede penale, e coincidenti con quelli indicati nella lettera relativa agli addebiti disciplinari, pervenendo al convincimento della loro rilevanza ai fini della legittimità del licenziamento impugnato e della congruità della sanzione adottata. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su tre motivi. In sintesi il lavoratore sosteneva che la Corte territoriale avesse erroneamente attribuito efficacia di giudicato, nel giudizio civile, alla sentenza penale di proscioglimento per prescrizione del reato, ritenendo erroneamente, in tal modo, come definitivamente accertata la sua responsabilità in ordine alla falsificazione dei documenti e all'uso fraudolento degli stessi per conseguire l'assunzione, laddove i giudici di appello avrebbero dovuto procedere autonomamente alla valutazione dei fatti oggetto degli addebiti disciplinari. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso. La Suprema Corte, prendendo le mosse dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1768 del 26 gennaio 2011, ha innanzitutto rilevato che in virtù del principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata a seguito di dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale. Ne consegue che, nel caso da ultimo indicato, il giudice civile, pure tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione.

Ebbene, ha osservato la Suprema Corte che la Corte di appello di Lecce, nella fattispecie oggetto di causa, non si era affatto discostata dai principi di diritto illustrati dal giudice di legittimità, avendo mostrato di aver tenuto conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, limitatamente ai fatti materiali accertati nel procedimento penale, conclusosi con la sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato, e di averli interamente ed autonomamente rivalutati ai fini della specifica disamina nel merito della fondatezza degli addebiti disciplinari e della congruità della sanzione espulsiva. Inoltre, la Corte territoriale ha rilevato, con motivazione adeguata ed esente da rilievi di legittimità, che la sanzione espulsiva adottata risultava del tutto congrua rispetto alla gravità dei fatti contestati, anche ai sensi dell'art. 34 del CCNL di categoria vigente, che prevedeva quale ipotesi di licenziamento il conseguimento dell'impiego mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile e, comunque, con mezzi fraudolenti.




Trasferimento di ramo d'azienda

Cass. Sez. Lav. 20 maggio 2016, n. 10542

Pres. Nobile; Rel. Ghinoy; P.M. Giacalone; Ric. V. B.v. e C. S.p.A.; Controric. F.S. e F.T.;

Trasferimento di ramo d'azienda - Nozione - Autonomia funzionale del ramo ceduto - Preesistenza - Necessità - Inefficacia contratto di cessione di ramo d'azienda - Ricostituzione del rapporto di lavoro in capo al cedente - Onere della prova in capo al cedente e al cessionario

Costituisce elemento costitutivo della cessione di ramo d'azienda prevista dall'art. 2112 c.c. l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario -il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione, indipendentemente dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti.

Incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c. che costituiscono eccezione al principio del necessario consenso del contraente ceduto stabilito dall'art. 1406 c.c., fornire la prova dell'esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l'operatività.

Nota

Un'azienda telefonica trasferiva ad una società di nuova costituzione il ramo d'azienda, rientrante nella propria divisione di Customer Care, relativo ai servizi di assistenza amministrativa (c.d. back office) a favore dei clienti nonché di gestione del credito e in particolare delle attività denominate di "phone collection" e di "verifica del credito".

Con il contratto di cessione venivano ceduti: i dipendenti pertinenti al ramo d'azienda presso diverse sedi, i contratti di locazioni solo di alcune sedi, tutti i beni mobili non registrati di alcune sedi (inclusi gli arredi degli uffici, i computer e i relativi sistemi operativi ad eccezione delle infrastrutture tecnologiche, degli hub e dei router). Contestualmente, cedente e cessionario concludevano un contratto per la fornitura, a favore del cedente, dei servizi di back office e di gestione del credito.

La Corte d'Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di due dipendenti il cui rapporto di lavoro era stato trasferito in esecuzione del contratto di cessione, dichiarando l'inefficacia di tale contratto. Di conseguenza, l'impresa cedente veniva condannata a ripristinare i rapporti di lavoro e ad assegnare ai due lavoratori mansioni equivalenti al livello di inquadramento rivestito prima del trasferimento. Ad avviso della Corte, il contratto di cessione non aveva avuto ad oggetto un'articolazione aziendale autonoma e autosufficiente, in quanto i beni ceduti non erano idonei a realizzare l'attività ceduta, per il cui espletamento era infatti necessario l'impiego di beni che erano rimasti di proprietà della cedente. In particolare, non era stato oggetto di cessione il contratto di locazione relativo alla sede di lavoro a cui erano addetti i due ricorrenti. Infatti, il cedente si limitava a sublocare all'impresa cessionaria un'unità immobiliare all'interno della propria sede.

Avverso tale sentenza ricorrevano in Cassazione sia il cedente sia l'azienda cessionaria; i due lavoratori resistevano con controricorso.

Entrambe le imprese lamentavano violazione o falsa applicazione dell'art. 2112 c.c., sostenendo che l'autonomia funzionale dovesse essere valutata alla luce della sussistenza o meno del dato organizzativo, vale a dire della capacità del ramo ceduto di continuare a realizzare l'attività, già svolta presso la cedente, senza sostanziali modifiche. Ad avviso dei ricorrenti, l'articolazione ceduta aveva mantenuto una propria autonomia anche successivamente alla cessione, in quanto struttura operativa preesistente, composta da tutte le persone già adibite in via esclusiva a quei particolari servizi e quindi dotate di professionalità specifica per lo svolgimento degli stessi e composta da beni materiali e immateriali funzionali a realizzare tali servizi.

La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i ricorsi. Innanzitutto, è stato richiamato l'art. 1 della Direttiva 2001/23/CE secondo cui "è considerato come trasferimento ai sensi della (...) direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria" sottolineando come, in ogni caso, l'autonomia dell'entità ceduta debba preesistere al trasferimento (principio più volte affermato dalla Corte di Giustizia, anche nella recente sentenza del 6 marzo 2014, C-458/12). Tale direttiva è stata attuata in Italia dall'art. 2112 c.c. che, a seguito della modifica introdotta dall'art. 32 D.Lgs 276/2003, definisce il ramo d'azienda come "articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento" (art. 2112, comma 5, c.c.). Il fatto che la nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare l'articolazione oggetto del trasferimento non significa che sia consentito di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell'azienda ceduta come ramo, ma solo che le parti debbano definire i contenuti e l'insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo in modo tale che rappresentino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo. Quindi, il requisito della preesistenza del ramo e dell'autonomia funzionale nella previsione si integrano reciprocamente, nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, l'attività-funzione cui esso risultava già finalizzato, anteriormente alla cessione, presso l'impresa cedente.

La Suprema Corte, infine, ha confermato la decisione di secondo grado nella parte in cui aveva ritenuto irrilevanti ai fini della decisione i fatti, evidenziati dall'impresa cedente, relativi all'autonomia della cessionaria nell'organizzare i turni di ferie del personale, nella concessione dei permessi nonché nell'esercizio del potere disciplinare, in quanto elementi inidonei a dimostrare che il ramo ceduto fosse in grado di funzionare autonomamente al momento della conclusione del contratto di cessione.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 25 maggio 2016, n. 10842

Pres. Venuti; Rel. Boghetich; P.M. Matera; Ric. B.C.; Intim. P.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Falsa timbratura del cartellino marcatempo - Giusta causa - Sussistenza - Fattispecie

La timbratura del cartellino, nell'apposito apparecchio marcatempo, effettuata falsamente da altro collega di lavoro, configura il deliberato e volontario tentativo di trarre in inganno il datore di lavoro. Tale condotta è idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario caratterizzante il rapporto di lavoro fra le parti e legittima il recesso per giusta causa.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Napoli, che, confermando a sua volta la pronuncia di primo grado, aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per aver autorizzato un proprio collega a timbrare il suo badge identificativo al fine di far risultare l'entrata in ufficio ad un orario precedente quello di effettivo ingresso. Nello specifico, la Corte di merito aveva rilevato che il badge identificativo costituisce un documento che rientra nella disponibilità esclusiva del titolare, come prescritto anche da circolari aziendali prodotte in atti, che il lavoratore aveva ceduto a terzi il proprio badge, integrando in tal modo una grave violazione del dovere di diligenza sancito dall'art. 2104 c.c., e che il lavoratore aveva posto in essere un premeditato disegno fraudolento volto ad attestare falsamente la propria presenza in ufficio da un momento anteriore a quello di effettivo ingresso, circostanza dalla quale egli avrebbe lucrato un beneficio in termini di percezione di compensi ulteriori ovvero di abbreviazione del proprio turno di lavoro. Tali circostanze erano idonee, secondo la Corte di merito, ad integrare un comportamento gravemente irregolare, oltre che inadempiente agli obblighi inerenti il proprio ufficio e contrario agli interessi del datore di lavoro, che si presenta quindi idoneo a ledere in misura significativa il vincolo fiduciario che deve necessariamente sussistere tra datore di lavoro e lavoratore. Ricorre per cassazione il lavoratore, deducendo che la sentenza di secondo grado sarebbe viziata per errata interpretazione e/o applicazione del principio di proporzionalità avendo la Corte trascurato l'assenza di qualsivoglia recidiva nonché l'orientamento giurisprudenziale che ritiene il licenziamento quale massima sanzione disciplinare da comminarsi solo dopo un'attenta compiuta valutazione, che tenga conto di tutti gli interessi in gioco, in base alla quale si deduca l'irrimediabile compromissione del rapporto fiduciario.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, sottolineando innanzitutto che la decisione della Corte di merito muove dal presupposto secondo cui per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento (che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario) occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. Tale assunto si basa su una consolidata ricostruzione giurisprudenziale della nozione di giusta causa nell'ambito del licenziamento disciplinare, in base alla quale, trattandosi dell'applicazione di un concetto indeterminato, l'accertamento deve essere svolto in base agli specifici elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie concreta, quali il tipo di mansioni affidate al lavoratore, il carattere doloso o colposo dell'infrazione, le circostanze di luogo e di tempo, le probabilità di reiterazione dell'illecito, il disvalore ambientale della condotta quale modello diseducativo per gli altri dipendenti. Inoltre, con particolare riguardo all'alterazione del cartellino marcatempo, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di confermare valutazioni di gravità rese dai giudici di merito, ritenendo che la falsa timbratura del cartellino può rappresentare una condotta grave che lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro e può giustificare il licenziamento (cfr. in tal senso, Cass. n. 24796/2010 e Cass. n. 26239/2008).

Ebbene, nella specie la Corte d'Appello, con accertamento di fatto congruamente svolto e con motivazione esauriente e immune da vizi, nonché conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità, è pervenuta alla decisione di conferma della legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro attraverso un'attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, dall'altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.




Licenziamento disciplinare illegittimo

Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2016, n. 10019

Pres. Nobile; Rel. Spena; P.M. Giacalone; Ric O.V..; Controric. C.A.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Giusta causa - Tutela reale di cui all'art. 18 statuto dei lavoratori come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012 - Distinzione tra fatto materiale e sua qualificazione - Conseguenze - Proporzionalità della sanzione - Reintegrazione - Esclusione

L'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicché ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

Nota

All'esito di un procedimento disciplinare la Società C.A. licenziava per giusta causa il dipendente O.V. per aver partecipato ad un evento ludico sportivo durante l'ultimo giorno di malattia. Secondo la Società la condotta del dipendente (rientrato in servizio il giorno successivo), era da considerarsi in contrasto con lo stato di malattia e comunque, potenzialmente idonea a ritardare la guarigione. Avverso il provvedimento della Società ricorreva O.V. Il Giudice accoglieva il ricorso per insussistenza dei fatti contestati, disponendo la reintegra del dipendente e la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno.

L'ordinanza veniva confermata con sentenza del Tribunale di Bologna che respingeva l'opposizione proposta dalla Società. Avverso la sentenza proponeva reclamo la datrice di lavoro.

La Corte d'appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza reclamata, dichiarava risolto il rapporto di lavoro e condannava la Società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a ventidue mensilità. Da una parte, la Corte territoriale riteneva sussistere il minor addebito consistente nel non avere ripreso servizio nonostante la guarigione, dall'altra, ravvisava il difetto di proporzionalità tra il fatto e la sanzione del licenziamento anche in ragione della ripresa del servizio il giorno successivo alla partecipazione all'evento sportivo.

Per la cassazione della sentenza ricorreva sia la Società, chiedendo la nullità della sentenza per manifesta illogicità della motivazione, sia il dipendente. In particolare, secondo il dipendente, la decisione di applicare la sola sanzione economica era in contrasto con i principi di ragionevolezza, eguaglianza e parità di trattamento, in quanto la mancanza di proporzionalità doveva essere ascritta all'art. 18, comma 4, quindi, alla fattispecie della "insussistenza del fatto" con conseguente applicazione della sanzione più grave della reintegrazione.

La Corte ha rigettato i ricorsi delle parti.

Circa la contestazione del dipendente, secondo la Cassazione, la L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo introdotto dalla L. n. 92 del 2012, fa discendere effetti diversi dalla medesima fattispecie legale del licenziamento illegittimo per assenza della giusta causa (o del giustificato motivo soggettivo). Pertanto, accertata la mancata integrazione della giusta causa (o del giustificato motivo soggettivo) di licenziamento, il giudicante deve procedere a una successiva selezione delle conseguenze del vizio, applicando la tutela reale nei soli casi di "insussistenza del fatto contestato" ovvero di fatto rientrante tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili; nelle altre ipotesi di assenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa l'art. 18, comma 5 contempla, invece, la risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento ed il pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva. Alla luce di ciò, secondo la Cassazione l'area del fatto contestato non può estendersi sino a ricomprendere la valutazione della gravità del fatto di rilievo disciplinare con la conseguenza che il difetto di proporzionalità rientra tra le "altre ipotesi" di insussistenza della giusta causa (o del giustificato motivo soggettivo) per le quali l'art. 18 prevede, al comma 5, la sola tutela indennitaria posto che ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione.

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