Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Immediatezza della contestazione disciplinare

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Licenziamento collettivo e obbligo del datore

Licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione e ampiezza dell'obbligo di repêchage

Tempestività della contestazione disciplinare e inesistenza di un obbligo di controllo dell'operato del dipendente

Immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2016, n. 10017

Pres. Nobile; Rel. Di Paolantonio; Ric. S.G.; Controric. T. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Sanzioni disciplinari - Tempestività del licenziamento - Pendenza di procedimento penale - Sospensione cautelare del lavoratore - Differimento della contestazione disciplinare e del licenziamento in relazione alla pendenza del procedimento penale - Legittimità.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Principi della immediatezza della contestazione e della tempestività della sanzione - Carattere relativo - accertamento di merito - Insindacabilità in cassazione - Limiti.

In tema di procedimento disciplinare, ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività della contestazione, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione disciplinare per i relativi fatti ben può essere differita dal datore di lavoro in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso, anche in ragione delle esigenze di tutela del segreto istruttorio.

In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce la nozione di immediatezza della contestazione disciplinare.

Nel caso di specie, il datore di lavoro - avendo avuto notizia di un decreto di perquisizione locale e personale emesso nei confronti di un proprio dipendente nell'ambito di indagini per i delitti di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d'asta - sospendeva cautelarmente, e non disciplinarmente, il lavoratore. Un anno dopo, la società, venuta a conoscenza della applicazione nei confronti del dipendente della misura cautelare personale degli arresti domiciliari, comunicava la revoca del provvedimento della sospensione cautelare, adottando la sospensione del rapporto e della retribuzione e riservandosi ogni ulteriori iniziativa "sulla base degli sviluppi del procedimento penale". Un mese dopo, il datore, sulla base di un circostanziato esame delle intercettazioni trascritte nella ordinanza che disponeva gli arresti domiciliari, elevava nei confronti del dipendente una contestazione disciplinare e, successivamente, non ritenendo accoglibili le giustificazioni rese da quest'ultimo, lo licenziava per giusta causa.

Il lavoratore impugnava giudizialmente l'atto di recesso. Entrambi i Giudici del merito rigettavano la domanda, attestando, tra il resto, che il provvedimento disciplinare doveva ritenersi tempestivo, "poiché solo la lettura della ordinanza cautelare aveva consentito alla società di ricostruire i fatti in relazione ai quali il procedimento penale era stato avviato e di valutare la responsabilità del dipendente". In dettaglio - puntualizzava la Corte territoriale - ai fini della valutazione sulla tempestività della contestazione, occorreva fare riferimento al grado di conoscenza dei fatti penalmente rilevanti acquisito dalla società datrice, soggiungendo che il decreto di perquisizione non conteneva elementi sufficienti per comprendere quali fossero le responsabilità del lavoratore e quale fosse il suo ruolo nella ipotizzata associazione per delinquere. Pertanto, aveva agito correttamente la società, la quale aveva ritenuto opportuno sospendere in via cautelare il dipendente ed attendere gli sviluppi del procedimento penale, sfociato poi nella ordinanza che disponeva gli arresti domiciliari, la cui lettura aveva permesso al datore di venire a conoscenza dei fatti e degli elementi probatori raccolti a carico del lavoratore.

Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, "violazione e falsa applicazione dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, in ordine alla immediatezza della contestazione disciplinare".

La Suprema Corte respinge il ricorso, osservando - anzitutto, ribadendo il proprio costante orientamento in merito - che il principio della necessaria immediatezza della contestazione ha lo scopo di garantire la possibilità di un'utile difesa da parte del lavoratore e, quindi, l'effettività del contradditorio, nonché la certezza dei rapporti giuridici nel contesto dell'esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede.

Ciò premesso, con riferimento al caso di specie, la Cassazione chiarisce che, in ipotesi di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso, non essendo, per l'effetto, compromesso il diritto di difesa del lavoratore, né potendosi ravvisare un comportamento del datore contrario a correttezza e buona fede. Segnatamente, la società, attraverso la comunicazione del provvedimento di sospensione, aveva manifestato con chiarezza la volontà di ritenere disciplinarmente rilevanti i fatti oggetto di procedimento penale e, quindi - a parere della Suprema Corte - il decorrere del tempo, in attesa della conclusione delle indagini penali, non poteva far sorgere alcun legittimo affidamento in capo al dipendente fin tanto che perdurasse anche la sospensione cautelare. D'altro canto - proseguono i Giudici di legittimità - non è stato in alcun modo violato il diritto di difesa, poiché il lavoratore, sottoposto a procedimento penale, sapeva già che le condotte in relazione alle quali le indagini preliminari erano state avviate dall'autorità giudiziaria potevano essergli addebitate in sede disciplinare, e, quindi, era messo in condizione di predisporre per tempo la propria linea difensiva.

Peraltro, la Cassazione ricorda come la possibilità di differire la contestazione al momento della conclusione delle indagini penali, previa adozione del provvedimento della sospensione, riposa anche sulla necessità di salvaguardare il segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p., in quanto la norma esclude che sino alla conclusione delle indagini preliminari possano essere resi noti gli atti rilevanti ai fini delle indagini, concludendo che il requisito di immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa fare ritardare il provvedimento di recesso.




Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2016, n. 10666

Pres. Venuti; Rel. D'Antonio; P.M. Matera; Ric. F.M.; Controric. A.M.A.T. P. S.p.A.;

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Tempestività - Mero decorso del tempo tra il superamento del comporto e la comunicazione del recesso - Rilevanza - Non sussiste

In caso di superamento del comporto, pur non essendo possibile che il rapporto rimanga in uno stato di risolubilità in contrasto con il regime di stabilità previsto dalla legge, costituisce onere del lavoratore provare che l'intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere - eventualmente in concorso con altre circostanze di fatto significative - la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.

Nota

La Corte di appello di Palermo confermava la sentenza del giudice di primo grado con la quale era stata rigettata la domanda del lavoratore tesa ad accertare l'illegittimità del licenziamento comminatogli per superamento del periodo di comporto.

Quanto all'eccepita mancanza di tempestività del licenziamento per essere stato irrogato dopo sette mesi dalla scadenza del comporto, la Corte territoriale osservava che nel licenziamento per superamento del periodo di comporto il mero decorso del tempo manteneva valenza neutra, ben potendo essere sintomatico dell'intento del datore di lavoro di valutare se mantenere in vita il rapporto, in presenza di un fatto oggettivo costituito dal numero delle assenze del lavoratore che legittimerebbe il recesso. La scarsa significatività del mero decorso del tempo determinava l'attenuazione dell'onere della prova a carico del datore di lavoro a fronte del riconoscimento, in capo al lavoratore, dell'onere di allegare e/o provare circostanze atte a dimostrare la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.

Secondo la Corte il lavoratore, nella specie, non aveva assolto a tale onere essendosi limitato ad individuare quali indici sintomatici della rinuncia ad avvalersi del potere di recesso, oltre alla ripresa del lavoro ed alla protrazione dell'attività lavorativa per sei mesi, l'erogazione del premio incentivante, senza aver allegato, né dimostrato, quanto al premio, se si trattasse di un emolumento erogato in concreto in relazione ad una valutazione individuale della qualità della prestazione o corrisposto in modo uniforme a tutti i lavoratori.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su tre motivi.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

In particolare, la Suprema Corte ha osservato che mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma deve essere considerata in relazione all'esigenza di un ragionevole spatium deliberandi da riconoscersi al datore di lavoro circa la sostenibilità o meno delle assenze in rapporto con le esigenze dell'azienda, essendo rimessa alla valutazione dello stesso datore di lavoro la scelta della conservazione del posto di lavoro anche dopo il superamento del comporto. Costituisce, comunque, onere del lavoratore provare che l'intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto per malattia e la comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto (in senso conforme cfr. Cass. 11 agosto 2015, n. 16683; Cass. 15 settembre 2014, n. 19400; Cass. 25 novembre 2010, n. 23920; Cass. 7 gennaio 2005, n. 253; Cass. 29 luglio 1999, n. 8235; Cass. 17 giugno 1998, n. 6057; Cass. 29 luglio 1989, n. 3555; Cass. 11 aprile 1987, n. 3650).

Applicando tali principi al caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale, con motivazione coerente con le emergenze acquisite, avesse correttamente escluso che il mero decorso del tempo di circa sei mesi e l'erogazione del premio incentivante costituissero elementi sintomatici della rinuncia della società ad avvalersi del potere di recesso. Ciò tenuto conto, peraltro, con riferimento alla corresponsione del premio incentivante, dell'assenza di allegazione circa la natura di tale emolumento, e se cioè si trattasse di un emolumento erogato in relazione ad una valutazione individuale della qualità della prestazione o corrisposto in modo uniforme a tutti i lavoratori. Al fine di escludere qualsiasi rilevanza al decorso del tempo, la Corte territoriale ha altresì valutato che la società resistente era notoriamente una entità dotata di una grossa struttura organizzativa, la cui complessità finiva inevitabilmente per allungare i tempi di valutazione e le successive determinazioni.




Licenziamento collettivo e obbligo del datore

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2016, n. 10348

Pres. Amoroso; Rel. D'Antonio; P.M. Fresa; Ric. C.S. s.p.a..; Controric. S.L;

Licenziamento collettivo - Comunicazione avvio procedura - Requisiti - Indicazione specifica dei motivi per cui non è possibile praticare soluzioni alternative al recesso con riferimento allo specifico contesto aziendale - Necessità

In tema di licenziamento collettivo e di comunicazione ex art. 4, comma 3, legge n. 223 del 1991, non è ipotizzabile l'obbligo, in capo al datore, di indicazione dell'impossibilità di adottare tutti i rimedi alternativi "astrattamente" ipotizzabili, giacché questi - nella logica stessa ed alla luce delle finalità di intervento e controllo da parte delle organizzazioni sindacali cui la comunicazione ex art. legge n. 223 del 1991 è preordinata - non possono che avere come riferimento la situazione della singola azienda, di talché è sufficiente esporre le ragioni per cui, nel preciso contesto aziendale, non siano praticabili le misure cui più frequentemente ed efficacemente si ricorre per evitare la dichiarazione di esubero del personale.

Nota

La Corte d'Appello di Caltanisetta, in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento di un dipendente intimato a seguito di una procedura di riduzione del personale ex L. 223/91, ritenendo generica ed insufficiente la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, comma 3 L. 223/91. In particolare, la Corte territoriale ha stigmatizzato il fatto che, nella predetta comunicazione, non vi fosse alcun accenno ai motivi per cui non erano praticabili soluzioni alternative al recesso, quali i contratti part-time o la CIGS, ritenendo del tutto insufficienti ed inidonei allo scopo i riferimenti contenuti nella missiva in ordine alla "mancata previsione di un'inversione di tendenza" ovvero, nel verbale congiunto con le OO.SS, alla "insussistenza dei presupposti per il ricorso agli ammortizzatori sociali".

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando la la violazione dell'art. 4, comma 3, laddove la Corte territoriale ha ritenuto che nella comunicazione di avvio si debba in ogni caso far riferimento a tutti i possibili ammortizzatori sociali, quando, invece, nel caso di specie, gli atti di causa dimostravano che la questione delle soluzioni alternative al recesso era stata dibattuta, ma comunque il ricorso ad essi era in generale escluso dai programmi e dalle esigenze aziendali.

La Suprema Corte respinge la doglianza affermando il principio di cui alla massima, già enunciato in specifici precedenti (Cass. 27 novembre 2007, n. 24646) e precisa che, nel caso in esame, la Corte territoriale ha correttamente valutato laddove ha censurato la totale mancanza di accenni nella comunicazione di avvio della procedura alle misure alternative "tipiche" cui più frequentemente si ricorre, quali il part time o la CIGS, così violando l'art. 4, comma 3 che impone dei veri e propri obblighi di allegazione preventiva. Precisa, infatti, la Suprema Corte che la comunicazione di avvio deve conformarsi ai requisiti prescritti dall'art. 4, comma 3 L. 223/91 onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare il nesso tra le ragioni che determinano l'esubero di personale e le unità che, in concreto, l'azienda intende espellere, di talché sia evidenziabile la connessione tra le enunciate esigenze aziendali e l'individuazione del personale da licenziare e sia consentito all'interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero (Cass.12 novembre 2013, n. 25394; Cass. 16 gennaio 2013, n. 880; Cass. 28 ottobre 2009, n. 22825). Ricorda, infatti, infine, la Cassazione che la procedura disciplinata dall'art. 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223 è volta sia a consentire una proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato, sia a rendere trasparente il processo decisionale datoriale, in funzione della tutela dell'interesse del lavoratore potenzialmente destinato ad essere ad essere estromesso dall'azienda. Conseguentemente, la mancata indicazione nella comunicazione di avvio della procedura di tutti gli elementi previsti dal citato art. 4 determina, insanabilmente, l'inefficacia dei successivi licenziamenti ed il lavoratore è legittimato a far valere l'incompletezza della comunicazione ed il conseguente vizio del licenziamento. (Cass. 2 marzo 2009, n. 5034; Cass. 11 luglio 2007, n. 15479).

Il ricorso viene, pertanto, respinto.




Licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione e ampiezza dell'obbligo di repêchage

Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2016, n. 10018

Pres. Nobile; Rel. Di Paolantonio; P.M. Giacalone; Ric A.G.; Controric. P.S.

Lavoro - Infermità permanente - Conseguente impossibilità sopravvenuta della prestazione - Giustificato motivo di recesso - Condizioni - Impossibilità di prestare l'attuale attività lavorativa - Sufficienza - Esclusione - Assegnazione del dipendente ad altre attività di livello equivalente ed eventualmente a mansioni inferiori - Necessità - Limiti (rispetto dell'assetto organizzativo aziendale)

In caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per effetto della sola mancata esecuzione dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.

Nota

La Corte di Appello di Torino ha accolto il reclamo proposto da una dipendente avverso la sentenza del Tribunale di Tortona che, decidendo sull'opposizione della datrice di lavoro avverso l'ordinanza pronunciata dallo stesso Tribunale all'esito della fase sommaria, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato e reintegrato la lavoratrice.

La Corte di Appello, dopo aver premesso che la lavoratrice era stata licenziata perché affetta da patologie che non le consentivano di svolgere le mansioni per le quali era stata assunta, rilevava che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che la datrice non avesse assolto l'onere della prova sulla stessa gravante in merito al cosiddetto repechage, giacché detto onere rimane circoscritto dalle allegazioni del lavoratore licenziato, il quale deve indicare l'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli avrebbe potuto essere utilmente collocato. La Corte di merito aveva sostenuto anche che la possibilità del reimpiego deve essere valutata in relazione a mansioni equivalenti a quelle assegnate al lavoratore e l'indagine può estendersi a mansioni inferiori solo qualora il dipendente licenziato abbia manifestato il consenso al demansionamento in epoca anteriore o coeva al licenziamento ed infine che l'onere di collaborazione nell'accertamento di un possibile repêchage deve essere assolto attraverso allegazioni specifiche, non essendo sufficienti mere asserzioni.

Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso in Cassazione la ex dipendente censurando la sentenza impugnata nella parte in cui affermava che la possibilità del reimpiego in altre sedi e in mansioni inferiori della lavoratrice divenuta fisicamente incapace, deve essere valutata dal datore solo qualora ci sia stata una manifestazione di volontà in tal senso da parte dello stesso lavoratore, anteriore o coeva al licenziamento. Con separato motivo di ricorso la lavoratrice impugnava la sentenza anche nella parte in cui la Corte d'Appello non aveva ritenuto specifiche le sue allegazioni in merito alle posizioni lavorative disponibili nelle altre sedi.

La Cassazione ha accolto entrambi i motivi e cassato la sentenza impugnata.

Con riferimento alla prima censura, secondo la Corte, la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore dal contratto a condizione che risulti ineseguibile l'attività svolta in concreto dal lavoratore e che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti ai sensi dell'art. 2103 c.c., ed eventualmente inferiori, in difetto di altre soluzioni.

Nell'ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica, il giustificato motivo oggettivo consiste non soltanto nella fisica inidoneità del lavoratore all'attività attuale, ma anche nell'inesistenza in azienda di altre attività (anche diverse, ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore ed a quest'ultimo attribuibili senza alterare l'organizzazione produttiva. Secondo la Corte spetta al datore di lavoro convenuto in giudizio fornire la prova delle attività svolte in azienda, e della relativa inidoneità fisica del lavoratore o dell'impossibilità di adibirlo ad esse per ragioni di organizzazione tecnico - produttiva, fermo restando che, nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32 e 36 Cost.), non può pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a modifiche delle scelte organizzative.

Con riferimento alla seconda censura, la Corte di Cassazione ha osservato che l'onere di collaborazione del prestatore di lavoro trova la sua specificazione con riferimento alla situazione concreta, in relazione cioè all'esigenza di rendere ragionevole l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro. Secondo la Corte è pertanto sufficiente che il lavoratore fornisca elementi utili ad individuare l'esistenza di realtà idonee ad una sua possibile diversa collocazione senza che gravi sullo stesso un onere di maggiore specificità tenuto conto che lo stesso non può (o comunque non è tenuto a) conoscere dettagli dell'organizzazione aziendale e quindi l'eventuale esistenza di posizioni di lavoro analoghe a quelle occupate e suscettibili di essere dallo stesso ricoperte.




Tempestività della contestazione disciplinare e inesistenza di un obbligo di controllo dell'operato del dipendente

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2016, n. 10356

Pres. Nobile; Rel. Manna; P.M. Mastrobernardino; Ric. L.S.; Controric. F.S. S.p.A.

Licenziamento disciplinare - Tempestività della contestazione - Nozione - Rilevanza del momento in cui il datore di lavoro ha avuto piena conoscenza degli addebiti - Sussistenza - Inesistenza di un obbligo di controllo dell'operato del dipendente

 

La tempestività di una contestazione disciplinare va valutata non muovendo dal momento dell'astratta conoscibilità dell'infrazione, bensì dal momento in cui il datore di lavoro ne acquisisca in concreto piena conoscenza, non essendo a tal fine sufficienti dei meri sospetti. Il datore di lavoro non ha alcun obbligo di continuo o comunque tempestivo controllo dell'operato dei propri dipendenti, ma solo l'onere di formulare tempestiva contestazione non appena venga a conoscenza d'una infrazione disciplinare e ciò al fine di prevenire un uso dell'iniziativa disciplinare pretestuoso o strumentale alla menomazione dei diritto di difesa dei lavoratore.

Nota

Un dipendente di una compagnia assicurativa veniva licenziato per aver commesso, nel corso degli ultimi due anni del rapporto di lavoro, ripetute e gravi irregolarità nella liquidazione di alcuni sinistri.

Entrambi i giudici di merito rigettavano l'impugnazione del licenziamento del lavoratore. Quest'ultimo ricorreva in Cassazione; la società resisteva con controricorso.

Il dipendente lamentava violazione o falsa applicazione dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per aver la Corte territoriale ritenuto tempestiva la contestazione disciplinare nonostante il decorso di un anno e mezzo fra la commissione delle violazioni e la relativa contestazione, nonché la tardività dei controlli attivati dalla compagnia.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il gravame e rigettato il ricorso, ribadendo il principio (già affermato, tra le altre, in Cass. n. 26304 del 2014) secondo cui la tempestività di una contestazione disciplinare va valutata con riguardo, non all'astratta conoscibilità dell'infrazione, bensì al momento in cui il datore di lavoro abbia in concreto acquisito piena conoscenza della stessa. A tal fine non sono invece sufficienti meri sospetti che un dipendente abbia posto in essere condotte disciplinarmente rilevanti, dato che, altrimenti, il datore di lavoro non disporrebbe nemmeno di dati conoscitivi sufficienti a valutare le eventuali giustificazioni del lavoratore.

Sotto tale profilo, la Corte territoriale - con accertamento in fatto, insindacabile dai giudici di legittimità - aveva constatato che gli illeciti disciplinari erano stati scoperti solo a seguito delle verifiche condotte dalla funzione di controllo interno (c.d. Internal Audit). Ciò è stato sufficiente ad escludere una violazione del principio di tempestività della contestazione disciplinare, tenuto anche conto che parte ricorrente non aveva lamentato alcuna violazione del proprio diritto di difesa.

La sentenza annotata (ribadendo un principio di recente affermato da Cass. 10069/2016) ha poi esplicitamente affermato l'irrilevanza, ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare, della tardività dei controlli effettuati dal datore di lavoro, vale a dire del lasso di tempo intercorso tra commissione dell'illecito disciplinare ed inizio delle verifiche da parte dell'azienda. La Suprema Corte, infatti, ha negato che, in capo al datore di lavoro, sussista un obbligo di assiduo controllo dell'operato dei propri dipendenti e che, parallelamente, il dipendente possa vantare un diritto ad essere subito informato del fatto che le proprie infrazioni siano state scoperte dal datore di lavoro.

Ciò deriva direttamente dal carattere fiduciario del rapporto di lavoro, in ragione del quale il datore di lavoro deve poter normalmente contare sulla correttezza del dipendente, potendo cioè fare affidamento sul fatto che il lavoratore rispetti i propri doveri anche in assenza di controlli continuativi.

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