Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Riorganizzazione aziendale e legittimità del licenziamento del dirigente
Sulla legittimità del trasferimento del lavoratore
Licenziamento e rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione
Tempestività e specificità della contestazione disciplinare
Infortunio sul lavoro e onere probatorio


Riorganizzazione aziendale e legittimità del licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav. 21 giugno 2016, n. 12823

Pres. Venuti; Rel. Berrino; P.M. Matera; Ric T.M.; Controric. G.D.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento del dirigente - Ristrutturazione aziendale - Principio di buona fede e correttezza - Articolo 41 Cost. - Giustificatezza del licenziamento - Ammissibilità - Presupposti - Fattispecie

Il licenziamento del dirigente non richiede necessariamente un giustificato motivo oggettivo ed è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie. Tali scelte non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost.

Nota

La sentenza in esame ha ad oggetto la legittimità del licenziamento intimato ad un dirigente con mansioni di responsabile delle vendite Italia e del diritto del medesimo a conseguire l'indennità supplementare.

Il licenziamento era stato intimato a causa della riorganizzazione societaria conseguente all'ingresso in azienda delle due figlie dell'amministratore unico e di un calo di fatturato con conseguente necessità di riduzione dei costi.

La Corte d'Appello di Torino, riformando la decisione del Tribunale di Alba, aveva dichiarato che il licenziamento era giustificato non essendo discriminatorio o contrario a buona fede, considerando che le funzioni del dirigente erano state affidate ad un socio imprenditore con evidente risparmio per l'azienda.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione il dirigente lamentando che il giudice di secondo grado non aveva tenuto conto che, a valle del suo licenziamento, la società non aveva proceduto ad alcuna ristrutturazione e riorganizzazione aziendale, essendosi limitata a sostituire il dirigente addetto alle vendite Italia pur mantenendo quel settore di attività al quale erano addetti settantaquattro agenti. Ne conseguiva che il licenziamento era ingiustificato e che ricorrevano i presupposti per l'erogazione dell'indennità supplementare.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Da un lato, infatti, secondo la Cassazione la Corte d'appello aveva correttamente eseguito il controllo sull'effettività delle esigenze imprenditoriali poste a base del predetto avvicendamento, non potendosi estendere una tale verifica al merito delle scelte economiche aziendali garantite dal precetto costituzionale di cui all'articolo 41 della Costituzione.

Dall'altro, dopo aver chiarito che il licenziamento del dirigente non richiede necessariamente un giustificato motivo oggettivo ed è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie, la Cassazione ha ritenuto che il licenziamento fosse giustificato alla luce dell'avvicendamento societario scaturito dall'esigenza, economicamente apprezzabile, di assegnare ad un socio le funzioni già svolte dal dirigente.

 

Sulla legittimità del trasferimento del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 30 maggio 2016, n. 11126

Pres. Nobile; Rel. Esposito; P.M. Giacalone; Ric. S.R. S.p.A.; Controric. F.S.;

Art. 2103 c.c. - Trasferimento del lavoratore subordinato - Inevitabilità del provvedimento - Inutilizzabilità del dipendente presso la sede di origine - Necessità - Non sussiste

Il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa e non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima, inoltre, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo.

Nota

Con ricorso al Tribunale di Roma la lavoratrice esponeva di aver raggiunto un accordo con la datrice di lavoro con il quale si stabiliva la definitiva trasformazione del rapporto di lavoro in part time con l'osservanza di 24 ore settimanali e di aver successivamente ricevuto richiesta dal datore di lavoro di variazione dell'orario, con previsione di turni anche pomeridiani, con l'avviso che, in caso di mancata adesione alla richiesta, si sarebbe proceduto al trasferimento presso altra sede di lavoro, ove vi era esigenza di personale della sua qualifica (id est terapista della riabilitazione) per l'espletamento del lavoro mattutino. La lavoratrice deduceva, altresì, di essersi opposta alla variazione dell'orario di lavoro concordato perchè incompatibile con le sue esigenze familiari e di aver continuato a recarsi, anche dopo il trasferimento, presso la sede di lavoro di provenienza agli orari concordati; di essere stata sottoposta a procedimento disciplinare a causa del rifiuto di ottemperare agli illegittimi provvedimenti e di essere stata infine licenziata.

Pertanto, la ricorrente deduceva, tra l'altro, l'illegittimità del disposto trasferimento perché discriminatorio in quanto non sorretto da ragioni tecniche, organizzative e produttive, oltre che illegittimo per violazione delle previsioni di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970.

Il Tribunale rigettava le domande.

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda della lavoratrice, rilevando che la società non aveva provato il nesso di causalità tra la riorganizzazione aziendale addotta ed il mutamento dell'orario di lavoro concordato con la lavoratrice. La Corte territoriale rilevava, inoltre, che non era stata data prova dell'inutilizzabilità della prestazione della lavoratrice secondo l'orario osservato presso la sede di lavoro di origine, o dell'impossibilità di adottare presso quest'ultima sede una diversa soluzione organizzativa, alternativa al trasferimento, e meno gravosa per la dipendente, la quale esponeva ragioni familiari tali da rendere particolarmente gravoso il chiesto mutamento di orario e l'assegnazione a diversa sede lavorativa.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società datrice di lavoro sulla base di quattro motivi.

In particolare, rilevava la società che le ragioni poste alla base del provvedimento datoriale erano costituite, nella specie, dall'esigenza di incrementare il numero dei fisioterapisti nella sede di destinazione, a cui si aggiungeva la sussistenza di rilevanti esuberi di fisioterapisti presso la sede di provenienza e che tali ragioni erano state provate dal datore di lavoro. La società rilevava, altresì, che la proposta di cambiamento della distribuzione dell'orario di lavoro non era la ragione del trasferimento, bensì costituiva soltanto un trattamento di miglior favore. Rilevava pertanto che erroneamente la Corte territoriale aveva valutato la legittimità del trasferimento non sulla base dell'accertamento della sussistenza delle ragioni tecnico organizzative dedotte a fondamento del provvedimento impugnato, bensì sulla base della presunta mancanza di prova dell'inutilizzabilità della lavoratrice presso la sede di provenienza.

La Suprema Corte cassava la sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito.

La Corte di legittimità osservava che il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa e non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore. Quest'ultima, inoltre, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, sotto il profilo della sicura inutilizzabilità del dipendente presso la sede di provenienza, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo (cfr. in tal senso, Cass. sez. lav. 29 settembre 2014, n. 20469; Cass. sez. lav. 2 marzo 2011, n. 5099; Cass. sez. lav. 28 aprile 2009, n. 9921).

 

Licenziamento e rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione

Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2016, n. 12102

Pres. Venuti; Rel. Manna; P.M. Celentano; Ric. B.S.; Controric. e ric. inc. K.S.M. s.pa.;

Rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione per inadempimento del datore di lavoro - Proporzionalità dell'inadempimento datoriale - Necessità - In difetto legittimità del licenziamento

Il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di essere addetto all'espletamento di mansioni non spettanti può essere legittimo - e, quindi, non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 c.c. - qualora risulti proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede.

Nota

Il Tribunale di Trapani ha respinto l'impugnativa del licenziamento intimato ad un lavoratore rifiutatosi di recarsi sul posto di lavoro asserendo di essere dequalificato nonché la richiesta di riconoscimento della superiore qualifica, accogliendo, invece, le restanti domande aventi ad oggetto erogazioni economiche di tipo indennitario e risarcitorie. Il dipendente ha proposto appello e la società ha, a sua volta, formulato appello incidentale. Entrambi i gravami sono stati rigettati dalla Corte territoriale.

Avverso tale decisione il lavoratore è ricorso per Cassazione, la società si è difesa con controricorso proponendo ricorso incidentale.

Tra le varie critiche viene censurata la sentenza per avere i giudici del gravame ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore, rifiutatosi di recarsi sul posto di lavoro, per non avere adeguatamente valutato il suo inserimento nell'organico aziendale con una qualifica inferiore rispetto alle mansioni effettivamente svolte. Obietta, cioè, il lavoratore che il proprio rifiuto doveva qualificarsi come legittima eccezione di inadempimento, adeguata e proporzionata all'inadempimento di parte datoriale che, nonostante le continue richieste, non gli aveva riconosciuto l'inquadramento dovuto e la relativa retribuzione.

La Suprema Corte ha respinto la censura, affermando il principio di cui alla massima già ribadito in numerosi precedenti (Cass. 19 luglio 2013, n. 17713; Cass. 12 febbraio 2008, n. 3304; Cass. 27 aprile 2007, n. 10086; Cass. 8 giugno 2006, n. 13365; Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 1 marzo 2001, n. 2948). Richiamando una specifica decisione in termini (Cass. 20 luglio 2012, n. 12696) la Cassazione precisa che il lavoratore che si ritiene adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli. Egli deve, infatti, eseguire le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore potendo invocare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. solo nel caso di inadempimento datoriale totale o, comunque, così grave da ledere irreparabilmente le sue esigenze vitali. In questa direzione, laddove l'imprenditore adempia gli altri fondamentali obblighi derivanti dal contratto - quali il pagamento della retribuzione e la copertura previdenziale ed assicurativa - non è, quindi, legittimo il rifiuto di eseguire la prestazione dovuta per asserita dequalificazione. Come già affermato in passato, precisa, infatti, la Corte, che il lavoratore può rifiutarsi di eseguire singoli compiti non conformi alla propria qualifica, ma non può astenersi dall'espletare qualsiasi prestazione (Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 5 dicembre 2007, n. 25313).

Ritenendo che la Corte territoriale, laddove ha ritenuto sproporzionata l'eccezione di inadempimento sollevata dal lavoratore - che, sul solo assunto di essere dequalificato, ha rifiutato di svolgere qualsiasi prestazione nonostante la regolare erogazione della retribuzione - si sia adeguata a tali principi, la Cassazione ha rigettato la doglianza.

 

Tempestività e specificità della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 15 giugno 2016, n. 12337

Pres. Napoletano; Rel. Ghinoy; P.M. Celentano; Ric. F.M; Controric. B.A.M. S.c.p.A.;

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo - Contestazione disciplinare - Immediatezza e/o tempestività da valutarsi in senso relativo - Legittimità - Specificità della contestazione disciplinare - Funzionale a garantire diritto di difesa del lavoratore - Legittimità

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare deve intendersi in senso relativo ed è, dunque, compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, allorché l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero la complessità della struttura organizzativa dell'impresa sia suscettibile di far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifìcano o meno il ritardo.

La specificità della contestazione non richiede l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, al fine di consentire al lavoratore incolpato un'idonea e piena difesa.

Nota

Una dipendente di una banca veniva licenziata per giustificato motivo soggettivo a seguito di due contestazioni disciplinari - entrambe datate 27 luglio e consegnate a mani alla lavoratrice il 15 agosto - con le quali le era stato addebitato di aver utilizzato le credenziali del precedente direttore di filiale per accedere, nel periodo da febbraio a maggio dello stesso anno, ad un database a pagamento al fine di ottenere informazioni su soggetti ed imprese non collegate ad esigenze di servizio.

La Corte d'Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava l'impugnazione promossa dalla lavoratrice, ritenendo tempestive e specifiche le contestazioni disciplinari. In particolare, i fatti addebitati erano stati riscontrati dall'impresa nel corso di una verifica ad ampio raggio degli accessi al database, e quindi non limitata alla sola lavoratrice, che si era conclusa nel mese di maggio. Di conseguenza, le contestazioni di luglio non apparivano tardive, essendo plausibile che fosse occorso un certo lasso di tempo per aver contezza dell'intera situazione. Le contestazioni inoltre venivano considerate sufficientemente specifiche, nonostante la mancata indicazione delle date degli accessi al database, in quanto i fatti contestati risultavano comunque comprensibili, stante la specifica indicazione dei soggetti in relazione ai quali la lavoratrice aveva eseguito gli accessi al database a pagamento.

Avverso tale sentenza la dipendente ricorreva in Cassazione; la banca resisteva con controricorso.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo infondati tutti i motivi proposti dalla lavoratrice volti ad accertare il lamentato vizio di motivazione in punto di tempestività e specificità delle contestazioni disciplinari.

Sotto il primo profilo, la Suprema Corte ha confermato la tempestività delle contestazioni ribadendo il principio (già affermato, tra le altre, in Cass. 1248/2016 e 13955/2014) secondo cui il principio di immediatezza della contestazione disciplinare deve essere valutato in senso relativo ed è quindi compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, qualora l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero la complessità della struttura organizzativa dell'impresa sia suscettibile di far ritardare il provvedimento di recesso.

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione di secondo grado anche in merito alla ritenuta specificità delle contestazioni disciplinari avendo dato corretta applicazione del principio di diritto (già affermato, tra le altre, in Cass. 10662/2014) secondo cui il datore di lavoro deve consentire al lavoratore un'idonea e piena difesa, fornendogli le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati.

 

 

 

Infortunio sul lavoro e onere probatorio

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2016, n. 10342

Pres. Di Cerbo; Rel. Berrino; P.M. Sanlorenzo; Ric. V.B.M.A.; Controric. D.U.A. S.p.A.; Controric. C. S.C.A.R.L.; Controric. A.S.P.C.D.R.S.C.;

Infortunio sul lavoro - Infortunio durante gli spostamenti del lavoratore sul luogo di lavoro - Esistenza di rischio ambientale - Onere probatorio del lavoratore - Sussistenza - Contenuto

In tema di infortuni sul lavoro ricade sul lavoratore, il quale lamenta di aver subito un danno a causa dell'attività lavorativa svolta, l'onere di dimostrare non solo il danno lamentato, ma anche, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra tali circostanze.

Nota

Il caso di specie riguarda un'azione promossa da una lavoratrice al fine di conseguire il risarcimento dei danni patiti a causa di un infortunio sul lavoro verificatosi a seguito di scivolamento su un pavimento bagnato, mentre svolgeva la propria attività lavorativa di addetta alle pulizie presso i locali della società committente (il servizio di pulizia era eseguito dalla cooperativa appaltatrice di cui la lavoratrice era dipendente).

La domanda della lavoratrice è stata rigettata sia in primo che in secondo grado.

In particolare, la Corte d'appello di Milano ha ritenuto che la lavoratrice non aveva provato la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale col danno subito, non aveva allegato in modo specifico quali erano state le modalità dell'infortunio e non aveva nemmeno offerto la prova dello stato dei luoghi al fine di consentire di verificare se si era trattato di una situazione anomala non riconoscibile e non eliminabile attraverso i dispositivi di protezione, quali le scarpe antiscivolo, di cui era dotata.

Successivamente la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione, affidandosi ad un unico motivo.

Nello specifico, la lavoratrice ha denunciato la violazione delle regole sull'onere della prova in materia di infortunio, sostenendo che, visto che la presenza di un fattore di rischio (i.e. la presenza di alcuni centimetri d'acqua sul pavimento) non era stata contestata dalla società committente, era onere di quest'ultima, quale proprietaria e custode del locale ove si era verificato l'infortunio, provare la sussistenza di situazioni escludenti la sua responsabilità, per cui, in assenza di tale prova, la Corte d'appello non avrebbe potuto respingere la domanda di risarcimento da essa avanzata.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato, considerato che la Corte d'appello aveva correttamente evidenziato che la lavoratrice non aveva assolto agli oneri di allegazione e prova in ordine alla pericolosità dell'ambiente di lavoro ed alla sussistenza del nesso causale fra tale situazione di pericolo ed il lamentato danno, e visto che solo l'esito positivo di una tale allegazione e dimostrazione avrebbe spostato sulla committente e sull'appaltatrice del lavoro l'onere di fornire, a loro volta, la relativa prova liberatoria.

Ed infatti, come la Corte di Cassazione ha già avuto occasione di statuire (cfr. Cass. n. 2897/2015), in tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali, la nozione di rischio ambientale cui si ricollega la copertura assicurativa - quale rischio che deriva dalla pericolosità dello spazio di lavoro, della presenza di macchine e del complesso dei lavoratori in esso operanti - non esonera il lavoratore dell'onere di provare le modalità concrete dell'infortunio occorsogli durante gli spostamenti sul luogo di lavoro, essendo ciò necessario al fine di verificare se il detto infortunio, quand'anche ivi verificatosi, sia comunque correlato ad attività funzionale allo svolgimento della prestazione lavorativa.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

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