Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Illegittima la Cigs se i criteri di rotazione sono generici

Licenziamento di dirigente

Sicurezza sul lavoro e obblighi del datore

Licenziamento per giusta causa

Assenza ingiustificata e licenziamento

Illegittima la Cigs se i criteri di rotazione sono generici

Cass. Sez. Lav. 20 giugno 2016, n. 12667

Pres. Napoletano; Rel. Riverso; P.M. Finocchi Ghersi; Ric S. S.p.a.; Controric. S.L.

Lavoro subordinato - Retribuzione - Cassa integrazione guadagni - Sospensione dal lavoro per collocamento in cassa integrazione guadagni straordinaria - Accordo sindacale - Mancata comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di individuazione dei lavoratori e delle modalità di rotazione - Illegittimità - Conseguenze - Azione dei lavoratori per il pagamento della retribuzione piena - Sussistenza

In caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l'attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale, il provvedimento di sospensione dall'attività lavorativa è illegittimo qualora il datore di lavoro, sia che intenda adottare il meccanismo della rotazione sia nel caso contrario, ometta di comunicare alle organizzazioni sindacali, ai fini dell'esame congiunto, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla rotazione, di individuazione dei lavoratori che debbono essere sospesi.

Nota

La Corte d'Appello di Napoli rigettava il ricorso della Società contro la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva dichiarato l'illegittimità della messa in cassa integrazione del lavoratore per genericità ed astrattezza dei criteri di scelta e della modalità di rotazione, come risultava dagli accordi sottoscritti, condannando la ricorrente al risarcimento del danno.

Secondo la Corte, gli accordi mancavano di specificità non contenendo l'indicazione della distribuzione delle unità sospese tra i vari profili, delle mansioni in concreto svolte dal personale interessato alla sospensione e, soprattutto, non venivano indicati i criteri che giustificavano l'esclusione del lavoratore dalla rotazione.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione la Società sostenendo che nell'accordo era stato previsto il numero dei lavoratori da sospendere per ogni sede e che l'individuazione del personale nelle diverse unità produttive era stato concordato sulla base delle effettive esigenze tecnico produttive. Inoltre, secondo la Società, era stato raggiunto un accordo sindacale per cui doveva ritenersi superata ogni eventuale anomalia formale della procedura.

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

La Cassazione, dopo aver chiarito che secondo l'art. 1 comma 7 e 8 della legge 223/1991, nella procedura di CIGS, costituiscono oggetto dell'esame congiunto il programma che l'impresa intende attuare, i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere e le modalità della rotazione ovvero le ragioni tecnico-organizzative della mancata adozione di meccanismi di rotazione, ha confermato la decisione della Corte territoriale secondo cui gli accordi sindacali mancassero di specificità in quanto non contenevano l'indicazione della distribuzione delle unità sospese tra i vari profili, delle mansioni svolte dal personale interessato e i criteri che giustificavano l'esclusione del lavoratore dalla rotazione.

Con particolare riguardo all'efficacia sanante dell'accordo sindacale, la Corte ha chiarito che con la L. 23 luglio 1991, n. 223 è stata prevista una puntuale e completa procedura per l'accesso alla cassa integrazione straordinaria introducendosi un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione con la conseguenza che i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale prevista dalla legge; correttezza che nella fattispecie doveva ritenersi esclusa, con conseguente irrilevanza del raggiungimento di un accordo sindacale. Peraltro, ha anche osservato la Corte richiamando un proprio recente indirizzo ( Cass. 11.3.2015 n. 4886), l'efficacia sanante "è ammessa solo in casi particolari e circoscritti....Nè può essere ammessa, con effetto retroattivo, rispetto a scelte in concreto già operate". Come avvenuto nel caso in esame.

 

 

 

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 12 luglio 2016, n. 14193

Pres. Venuti; Rel. D'Antonio; P.M. Celentano; Ric. H.A.G.; Contr. E.I. S.p.A.;

Dirigente - Licenziamento per ragioni organizzative - Obbligo di repechage - Insussistenza

In caso di licenziamento per ragioni organizzative di un dirigente deve ritenersi esclusa la sussistenza di un obbligo di repechage nei suoi confronti in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale assistita da un regime di libera recedibilità, senza che possano essere richiamati i princìpi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del personale non dirigente.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, un dirigente aveva adito il Tribunale del lavoro di Pordenone al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dal datore di lavoro e la, conseguente, condanna al pagamento dell'indennità supplementare.

Il Tribunale aveva accolto la domanda ritenendo pretestuoso ed arbitrario il recesso in quanto la società datrice di lavoro non aveva provato, come era suo onere, l'impossibilità di reperire per il dirigente un nuovo incarico al proprio interno. Peraltro, il dirigente aveva sostenuto di aver ricevuto delle garanzie in merito alla prosecuzione del rapporto, anche dopo la scadenza dell'incarico, con la società statunitense facente parte dello stesso gruppo, e che, comunque, la condotta del datore di lavoro doveva ritenersi contraria ai principi di buona fede e correttezza in quanto egli era stato licenziato pur in presenza di posizioni alternative cui adibirlo.

La Corte di appello di Trieste, cui si era rivolta l'azienda, riformava la sentenza di primo grado evidenziando, da un lato, che lo stesso dirigente aveva ammesso la presenza di ragioni organizzative idonee a giustificare il licenziamento e che, dall'altro, non era stata indicata nel ricorso introduttivo l'esistenza di un obbligo di repechage a carico del datore di lavoro. Circostanze queste - a parere della Corte di merito - sufficienti a ritenere legittimo il licenziamento.

Avverso tale pronuncia il dirigente propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 112 c.p.c., sostenendo di aver tempestivamente dedotto la sussistenza di un obbligo per la società di ricollocarlo in una delle posizioni disponibili e che vi era una prassi consolidata all'interno della società datrice di lavoro di ricollocare il dirigente alla cessazione dell'incarico.

La Suprema Corte respinge il ricorso rilevando che correttamente la Corte di merito, alla luce della documentazione prodotta, aveva escluso l'esistenza di un obbligo, convenzionalmente assunto tra le parti, di ricollocamento del dirigente una volta cessato il contratto, né questi poteva invocare l'esistenza di un obbligo di repechage che, al contrario, deve ritenersi escluso nei confronti del dirigente in quanto incompatibile con tale posizione dirigenziale assistita da un regime di libera recedibilità (Cass. dell'11 febbraio 2013, n. 3175), senza che possano essere richiamati i princìpi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del personale non dirigente (Cass. del 2 febbraio 2007, n. 2266).

 

 

 

Sicurezza sul lavoro e obblighi del datore

Cass. Sez. Lav. 30 giugno 2016, n. 13465

Pres. D'Antonio; Rel. Cavallaro; Ric. M.A. S.r.l.; Controric. I.N.A.I.L.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Danno alla salute del lavoratore - Responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Configurabilità - Condizioni - Massima sicurezza tecnologicamente disponibile.

L'art. 2087 c.c., come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica, onde vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, possedendo una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima e di adeguamento di essa al caso concreto: il che equivale a dire non solo che il datore di lavoro è tenuto all'adozione di tutte le misure di prevenzione previste dall'ordinamento positivo, ma altresì che per giudicare della sua diligenza occorre applicare il criterio della massima sicurezza tecnologicamente disponibile, dovendo egli conformare il proprio operato ad un canone che tenga conto delle caratteristiche del lavoro, dell'esperienza e della tecnica, e senza alcun abbassamento della soglia di prevenzione rispetto a standard eventualmente non adeguati praticati in una determinata cerchia di imprenditori.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i presupposti della responsabilità ex art. 2087 c.c., chiarendo quale debba essere la soglia di diligenza richiesta al datore di lavoro nell'adempimento degli obblighi di sicurezza.

Nella specie, si controverteva della responsabilità di una società nella causazione di un'esplosione seguita da un incendio, a causa dei quali erano deceduti cinque dipendenti ed altri otto erano rimasti gravemente feriti.

La Corte d'appello aveva riconosciuto la responsabilità della datrice di lavoro, argomentando che, "pur non potendosi ricostruire con ragionevole certezza la causa dell'innesco che aveva portato all'esplosione delle polveri e al successivo incendio", nondimeno poteva "rimproverarsi all'azienda di non aver adottato tutte le misure idonee a ridurre le conseguenze dell'esplosione, le quali, benché all'epoca dei fatti non ancora imposte con norma di legge, erano tuttavia conosciute per essere state pubblicate dall'International Standard Organization (ISO) e fatte oggetto di raccomandazione da fonti tedesche e statunitensi".

Il datore proponeva ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, la violazione dell'art. 2087 c.c., argomentando, tra il resto, che la verificazione del danno non poteva essere di per sé sufficiente a far scattare a carico dell'imprenditore l'onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l'evento, presupponendo detta prova la dimostrazione del nesso di causalità fra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza e il danno medesimo, non potendo la rimproverabilità di tale omissione estendersi ad ogni ipotetica misura di prevenzione, venendo altrimenti a configurarsi un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non prevista dall'art. 2087 c.c.

La Suprema Corte respinge il ricorso, osservando, anzitutto, che l'osservanza del generico obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. impone al datore anche l'adozione di misure di sicurezza innominate, ossia di comportamenti specifici che, pur non dettati dalla legge o altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino comunque riferimento in fonti analoghe, avendo, sul punto, i Giudici del merito accertato che l'effettuazione delle prove sperimentali di cui alla norma ISO 6184/1 avrebbe consentito di dimensionare le aperture di sfogo del silos in cui ebbe a verificarsi il sinistro, in modo che, in caso di esplosione, si sviluppasse una pressione di esplosione ridotta e dalle conseguenze più limitate.

Ciò tenuto anche conto - motivano i Giudici di legittimità - che l'art. 2087 c.c., come tutte le clausole generali, ha una funzione di "adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica, onde vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, possedendo una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima e di adeguamento di essa al caso concreto": sicché, non solo l'impresa è tenuta all'adozione di tutte le misure di prevenzione previste dall'ordinamento positivo, ma altresì che "per giudicare della sua diligenza occorre applicare il criterio della massima sicurezza tecnologicamente disponibile", dovendo conformare il proprio operato ad un canone che tenga conto delle caratteristiche del lavoro, dell'esperienza e della tecnica, e senza alcun abbassamento della soglia di prevenzione rispetto a standard eventualmente non adeguati praticati in una determinata cerchia di imprenditori.

Orbene, la Cassazione, facendo applicazione dei suddetti principî, conclude per la responsabilità del datore, rimarcando che, per quanto sia vero, in linea generale, che il nesso di causalità tra l'omissione della misura di sicurezza e l'evento dannoso deve escludersi quando, in relazione alle concrete circostanze del caso, lo scopo cautelare della norma non aveva alcuna possibilità di essere attuato (c.d. "irrilevanza del comportamento alternativo lecito"), non è meno vero che, nella fattispecie concreta, la Corte del merito ha accertato che, se l'esplosione fosse rimasta confinata per effetto di un adeguato dimensionamento delle aperture di sfogo, gli eventi indennizzati non si sarebbero verificati. Conclusione tanto più corretta, a parere della Suprema Corte, atteso che il nesso di causalità va costruito in relazione all'evento concretamente realizzatosi, nel senso che il nesso sussiste quando l'evento costituisce concretizzazione del rischio astrattamente creato con la violazione della regola di diligenza.

 

 

 

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 7 luglio 2016, n. 13871

Pres. Venuti; Rel. Manna; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. G.V.J.M.; Controric. B.I. S.p.A..

Licenziamento disciplinare - Giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo - Nozione legale - Conseguenza - Tipizzazione delle ipotesi da parte del CCNL - Irrilevanza - Valutazione autonoma del giudice circa la proporzionalità della sanzione - Ammissibilità

Quella di giusta causa o giustificato motivo è una nozione legale, pertanto la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice di merito, il quale, in primo luogo, deve controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari al disposto dell'art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili solo ad eventuali sanzioni conservative. Solo dopo che tale verifica consenta di escludere la nullità delle clausole del contratto collettivo in tema di comportamenti passibili di licenziamento e permetta comunque di ritenere che l'infrazione disciplinare sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, il giudice deve apprezzare in concreto (e non in astratto) la gravità degli addebiti.

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Proporzionalità della sanzione - Condizioni - Grave negazione dell'elemento fiduciario - Idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento - Necessità

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore di lavoro rispetto all'adempimento di futuri obblighi lavorativi.

Nota

La Corte d'Appello di Brescia, in totale riforma della sentenza di reintegra ex art. 18 Stat. Lav. emessa dal Giudice di primo grado, rigettava la domanda, proposta da un lavoratore, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento disciplinare che gli era stato intimato per essersi presentato al lavoro in stato di ebbrezza e per aver tenuto un atteggiamento aggressivo, offensivo e minaccioso nei confronti di colleghe di lavoro. Trattasi, nello specifico, di una fattispecie pre-Fornero.

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, duolendosi in primis della violazione della normativa contrattual-collettiva, che per la suddetta mancanza (id est: presentarsi al lavoro in stato di ebbrezza) prevede soltanto la sospensione dalla retribuzione e dal servizio, salvo il caso di recidiva per oltre la terza volta nell'anno solare (ipotesi non sussistente nel caso di specie) e denunciando, altresì, che, dall'istruttoria dibattimentale era emerso che il ricorrente non era in stato di ebbrezza, ma di alterazione psichica indotta dagli psicofarmaci che assumeva.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ribadendo gli ormai noti principi (in materia di licenziamento disciplinare) secondo cui: a) la nozione di giusta e/o di giustificato motivo soggettivo è una nozione legale, con la conseguenza che le previsioni della contrattazione collettiva non vincolano il giudice di merito (cfr. ex plurimis Cass. 17/06/2011, n. 13353), il quale è tenuto ad una valutazione autonoma circa la proporzionalità della sanzione, sulla base di un accertamento in concreto della gravità degli addebiti (e ciò anche nel caso in cui una determinata condotta sia contemplata dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa); b) la gravità dell'infrazione va valutata sotto il profilo oggettivo e soggettivo e deve essere tale da ledere il vincolo fiduciario e la futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto (cfr. ex plurimis Cass. 13/02/2012, n. 2013).

Il Giudice deve, quindi: in primo luogo, controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari al disposto dell'art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte, per loro natura, assoggettabili solo ad eventuali sanzioni conservative; in secondo luogo - e solo dopo che tale verifica consenta di escludere la nullità delle clausole del contratto collettivo e permetta comunque di ritenere che l'infrazione disciplinare sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso - procedere ad una valutazione in concreto (e non in astratto) della gravità degli addebiti.

Ebbene, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia della Corte di merito, ritenendo che la stessa abbia correttamente: 1. valutato la gravità dell'infrazione, sia sotto il profilo della grave negazione dell'elemento fiduciario sia sotto quello della futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione; 2. ricondotto la stessa nell'ambito della violazione della previsione contrattuale circa gli obblighi del prestatore di lavoro ("usare modi cortesi con il pubblico e tenere una condotta conforme ai civici doveri").

La Suprema Corte ha ritenuto, infine, tale pronuncia immune da censure anche sotto il profilo della ricostruzione fattuale - avendo la Corte di merito dato conto delle fonti del proprio convincimento - e reputando, al contrario, le censure avversarie volte, sostanzialmente, a sollecitare una rivisitazione del quadro probatorio, inammissibile in Cassazione a fronte di una congrua valutazione dello stesso da parte del Giudice di merito.

 

 

 

Assenza ingiustificata e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 14 giugno 2016, n. 12205

Pres. Napoletano; Rel. Ghinoy; P.M. Celentano; Ric. S.M.; Contr. C.M.G. e C. s.a.s.;

Licenziamento disciplinare ante l. 92/2012 - Giusta causa - Periodo di assenza ingiustificata -Richiesta di ferie fondata su ragioni obiettive ignorata dal datore di lavoro - Proporzionalità della sanzione - Principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto per entrambe le parti

L'esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente al datore di lavoro, nell'esercizio del generale potere organizzativo e direttivo dell'impresa, dovendosi riconoscere al lavoratore la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intenda fruire del riposo annuale. Tuttavia, il comportamento del datore di lavoro che, dopo aver ignorato una richiesta di ferie del dipendente motivata con riferimento ad esigenze obiettive, abbia dapprima contestato a quest'ultimo l'assenza ingiustificata nel medesimo periodo, licenziandolo poi per giusta causa, va valutato altresì alla luce dei canoni di correttezza e buona fede, potendo tale circostanza incidere sulla proporzionalità tra l'addebito disciplinare e la sanzione applicata.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un caso in cui il lavoratore aveva richiesto un periodo di ferie, motivando tale domanda con esigenze obiettive, senza tuttavia ottenere risposta da parte del datore di lavoro. Ciononostante, il lavoratore si era assentato nel periodo in questione e il datore di lavoro, dopo avergli contestato l'assenza ingiustificata, lo aveva licenziato per giusta causa. E' bene precisare che la vicenda riguarda un periodo precedente all'entrata in vigore della l. 92/2012 (c.d. "legge Fornero"), che ha inciso notevolmente sulle conseguenze derivanti dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento, modificando l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

La fase di merito del giudizio si era conclusa con il rigetto dell'impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore, in quanto, secondo la Corte d'Appello, il lavoratore non si era offerto di provare di aver ottenuto e/o richiesto, sebbene oralmente, l'autorizzazione al godimento del predetto periodo di ferie.

Il ragionamento della Corte di Cassazione - lungi, naturalmente, dal prendere posizione in relazione alla vicenda fattuale - parte dall'erroneità della sentenza di appello su tale ultimo punto. Ed infatti, la Corte, in primo luogo, ravvisa - al contrario di quanto sostenuto dai giudici di merito - l'esistenza di una siffatta istanza istruttoria avanzata dal lavoratore; conseguentemente, si interroga sulla rilevanza che tale elemento probatorio potrebbe assumere ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento. A detto interrogativo i giudici forniscono risposta positiva, riconoscendo, dunque, alla prova sull'esistenza di una preventiva richiesta e/o autorizzazione orale al periodo di ferie, valore potenzialmente dirimente rispetto all'esito del giudizio, sulla base del seguente percorso argomentativo.

Fermo restando che, come già affermato da precedente giurisprudenza, "l'esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente al datore di lavoro, nell'esercizio del generale potere organizzativo e direttivo dell'impresa, dovendosi riconoscere al lavoratore la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intenda fruire del riposo annuale", la Cassazione non omette di considerare anche il proprio orientamento con riguardo alla (necessaria) valutazione della proporzionalità tra il comportamento illecito del lavoratore dipendente e la sanzione irrogata sul piano disciplinare: attività che "costituisce un apprezzamento di fatto che deve essere condotto non in astratto ma con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, inquadrando l'addebito nelle specifiche modalità del rapporto e tenendo conto non solo della natura del fatto contestato e del suo contenuto obiettivo ed intenzionale, ma anche di tutti gli altri elementi idonei a consentire l'adeguamento della disposizione normativa dell'art. 2119 cod. civ. alla fattispecie concreta".

Ebbene, con riferimento ai fatti di causa, la Cassazione ritiene che l'eventuale autorizzazione orale ottenuta dal dipendente, ma anche l'eventuale mera richiesta preventiva di ferie (anch'essa in forma orale) da parte di quest'ultimo, peraltro fondata su esigenze obiettive, sia elemento idoneo ad incidere sul requisito della gravità del comportamento posto a base del licenziamento, e dunque sulla proporzionalità del recesso stesso, anche alla luce delle necessità che entrambe le parti del rapporto - e quindi anche il datore di lavoro - si attengano, nell'esecuzione del contratto di lavoro, al rispetto dei principi di correttezza e buona fede.

Per tale ragione, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza d'appello, richiedendo ai giudici del merito un nuovo e più attento esame delle istanze istruttorie avanzate dal lavoratore, nonché di attenersi al percorso logico-argomentativo sopra descritto.

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