Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Buoni pasto non concretamente fruibili
Tardività della contestazione disciplinare
Retribuzione e ripetibilità di somme pagata in eccesso al dipendente
Dovere di protezione e responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio

Buoni pasto non concretamente fruibili

Cass. Sez. Lav. 14 luglio 2016, n. 14388

Pres. Napoletano; Rel. Tria; P.M. Fuzio; Ric. D.S.C.; Contr. A.d.E.;

Buoni pasto - Natura Assistenziale - Mancata fruizione - Pagamento per equivalente - Inammissibilità - Lavoratore disabile - Impossibilità in concreto di fruizione - Risarcimento del danno - Ammissibilità

L'attribuzione dei buoni pasto rappresenta un'agevolazione di carattere assistenziale, diretta a conciliare le esigenze del servizio con quelle quotidiane del dipendente, offrendogli - laddove non sia previsto un servizio mensa - la fruizione del pasto, i cui costi sono sostenuti dal datore di lavoro. Proprio la natura assistenziale dei buoni pasto, pur se ne esclude la corresponsione per equivalente, impone, però al datore di lavoro, di fornire ai lavoratori disabili, che ne siano beneficiari, dei buoni pasto che risultino, per i destinatari, materialmente fruibili in relazione alla loro condizione di disabilità, potendo in caso contrario, esser tenuto a risarcire i danni conseguenti.

Nota

La Corte di appello di Salerno, confermando la sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda avanzata da un lavoratore volta ad ottenere l'accertamento dell'inadempimento del proprio datore di lavoro derivante dall'avvenuta corresponsione di buoni pasto non spendibili né presso l'esercizio commerciale sito all'interno dell'azienda né in strutture limitrofe, con conseguente condanna al risarcimento del danno.

La Corte di merito, aveva precisato che i buoni pasto non hanno natura retributiva ma assistenziale, conseguentemente, come previsto anche dal CCNL applicabile, l'attribuzione del buono pasto non può in nessun caso essere sostituita con la corresponsione dell'equivalente in denaro.

Il lavoratore propone ricorso per cassazione sostenendo di aver sempre invocato non la corresponsione di una somma per equivalente, bensì il risarcimento dei danni patrimoniali subìti a causa della avvenuta erogazione, da parte del datore di lavoro, di buoni pasto, in concreto, non fruibili.

La Suprema Corte accoglie il ricorso, rilevando che il lavoratore aveva sempre precisato che i buoni pasto in oggetto, corrisposti in seguito all'abolizione della mensa, non erano accettati dall'esercizio commerciale posto all'interno dell'azienda; che non erano neppure fruibili negli esercizi commerciali siti nelle vicinanze della sede lavorativa, anche in considerazione della sua disabilità (non vedente) e, quindi, della sua limitata mobilità; di essere stato costretto a restituire all'azienda i predetti buoni e a provvedere ai pasti a proprie spese.

Secondo la Cassazione era del tutto evidente che il lavoratore non avesse invocato, come erroneamente aveva ritenuto la Corte di merito, la corresponsione dell'equivalente in denaro ma, appunto, il risarcimento per il danno subìto per la corresponsione di buoni pasto, di fatto, non spendibili.

La Suprema Corte precisa come il buono pasto sia un beneficio che viene attribuito con uno scopo preciso: far si che, nell'ambito dell'organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con quelle quotidiane del lavoratore, al quale viene consentito - laddove non vi sia un servizio mensa gratuito - di fruire del pasto, i cui costi vengono sostenuti dal datore di lavoro, per garantire al lavoratore il benessere fisico necessario alla prosecuzione dell'attività lavorativa, nell'ipotesi in cui l'orario di lavoro corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio (Cass. 1 dicembre 1998, n. 12618). La garanzia del benessere fisico del lavoratore comporta di per sé la tutela della salute del lavoratore stesso e, a maggior ragione, della sua disabilità, tanto più in considerazione del carattere sostanzialmente assistenziale della relativa prestazione. Con l'ulteriore precisazione che, nel nostro ordinamento, la tutela della salute è un diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, sicché esso deve essere assicurato anche con riferimento alla fruizione dei buoni pasto, nel senso che tale attribuzione deve tenere conto delle condizioni di salute del lavoratore beneficiario, prima fra tutte della condizione di disabilità.

La Corte di Cassazione, quindi, conclude affermando che il datore deve fornire ai lavoratori disabili, che ne siano beneficiari, dei buoni pasto che risultino, per i destinatari, materialmente fruibili in relazione alla loro condizione di disabilità, potendo essere, in caso contrario, tenuto a risarcire i danni conseguenti.

 

Tardività della contestazione disciplinare/1

Cass. Sez. Lav. 14 luglio 2016, n. 14383

Pres. Nobile; Rel. Bronzini; P.M. Celeste; Ric. D.G. S.r.l.; Controric. S.D..

Contestazione disciplinare - Tardività - Sistema aziendale di verifica complesso e farraginoso - Giustificazione - Inammissibilità - Inadempienza organizzativa del datore - Sussistenza - Difesa del lavoratore - Necessità - Fattispecie: irregolarità note spese - Esiguità delle somme - Licenziamento - Non proporzionalità

Ritardi eccessivi nella contestazione che impediscano o rendano al lavoratore più difficile difendersi non possono essere giustificati in relazione ai soli sistemi aziendali di verifica che, se troppo farraginosi e complessi, mostrano solo una inadempienza organizzativa del datore di lavoro nell'apprestare verifiche sul corretto adempimento degli obblighi contrattuali dei dipendenti rispettose dell'art. 7 Stat. Lav.. Ed infatti, pur essendo insindacabili le scelte organizzative del datore di lavoro queste devono consentire allo stesso di esercitare il potere disciplinare in modo rispettoso dei principi di i cui all'art. 7 Stat. Lav..

Nota

La Corte d'Appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, accoglieva la domanda proposta da una lavoratrice volta ad ottenere la declaratoria di nullità e/o illegittimità del licenziamento per giusta causa, intimatole dalla società datrice di lavoro, per riscontrate irregolarità delle note di rimborso spese, dalla stessa presentate, relative ai consumi (carburante, olio, lavaggio) effettuati con la propria vettura aziendale (adibita ad uso promiscuo).

La Corte territoriale riteneva tardiva la contestazione disciplinare (effettuata a distanza di due mesi dall'ultimo episodio e di quasi un anno dal primo), non accogliendo la tesi della società che aveva sostenuto che i fatti necessitavano di un'ampia verifica (controllo delle note di rimborso spese) e di una valutazione complessiva. Rilevava, infatti, il Collegio giudicante che le note di rimborso venivano consegnate mese per mese dalla lavoratrice e che le stesse potevano essere facilmente verificabili per tempo. In ogni caso, la Corte di merito riteneva non proporzionato il licenziamento, stante l'esiguità degli importi e per l'assoluta trasparenza, desumibile dagli scontrini, di orari e causali degli acquisti.

Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso per cassazione con plurimi motivi (per "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti" ex art. 360 n. 5, c.p.c.), incentrati, per la parte che qui rileva, sulla affermata, dalla Corte territoriale, intempestività della contestazione, deducendo sostanzialmente che: 1) i fatti necessitavano di un'ampia verifica (visto il gran numero di note da controllare) e di una valutazione complessiva; 2) rispetto al controllo puramente formale delle note spese erano necessari ulteriori accertamenti (verifica dei consumi dell'automobile presso la casa produttrice).

La Corte di legittimità ha ritenuto inammissibili le predette censure per difetto di interesse, atteso che, pure a voler accoglierle (e, quindi, ritenere tempestivo il licenziamento), il ricorso sarebbe stato comunque rigettato, visto che gli illeciti sono stati esaminati nel merito dalla Corte di appello, che li ha giudicati o non provati o non idonei a legittimare l'intimato recesso per giusta causa.

La Suprema Corte ha, tuttavia, osservato che farraginosi e complessi sistemi aziendali di verifica non valgono a giustificare la tardività della contestazione disciplinare, ma anzi sono sintomatici di una inadempienza organizzativa del datore di lavoro che non dispone di strumenti di verifica (circa il corretto operato dei propri dipendenti) adeguati e rispettosi dell'art. 7 Stat. Lav..

Ed invero - ha precisato la Cassazione - le scelte organizzative del datore di lavoro, pur essendo insindacabili, devono consentire allo stesso un esercizio del potere disciplinare che garantisca, comunque, il diritto di difesa del lavoratore. Eccessivi ritardi nella contestazione, infatti, impediscono o rendono la difesa certamente più complessa.

 

Tardività della contestazione disciplinare/2

Cass. Sez. Lav. 18 luglio 2016, n. 14621

Pres. Venuti; Rel. Berrino; Ric. D.L.; Controric. P.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Principio di immediatezza della contestazione - Limiti - Conoscenza o definitivo accertamento dei fatti da parte del datore - Necessità

In tema di procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente di datore di lavoro privato, la regola desumibile dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, secondo cui l'addebito deve essere contestato immediatamente, va intesa in un'accezione relativa, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati (da effettuarsi in modo ponderato e responsabile anche nell'interesse del lavoratore a non vedersi colpito da incolpazioni avventate), soprattutto quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre un'unica condotta, esigono una valutazione unitaria, sicché l'intimazione del licenziamento può seguire l'ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale da quelli precedenti.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per giusta causa - Potere del giudice di qualificare il medesimo fatto come licenziamento per giustificato motivo soggettivo - Sussistenza - Fondamento

Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo del licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile, ad opera del giudice istruttore ed anche d'ufficio, la valutazione di un licenziamento intimato per giusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo qualora, fermo restando il principio dell'immutabilità della contestazione, e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto, al fatto addebitato al lavoratore venga attribuita la minore gravità propria di quest'ultimo tipo di licenziamento, atteso che la modificazione del titolo di recesso, basata non già sull'istituto della conversione degli atti giuridici nulli, di cui all'art. 1424 c.c., bensì sul dovere di valutazione, sul piano oggettivo, del dedotto inadempimento colpevole del lavoratore, costituisce soltanto il risultato di una diversa qualificazione della situazione di fatto posta a fondamento del provvedimento espulsivo.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice che, ottenuto un periodo di aspettativa per intraprendere un percorso riabilitativo in una comunità per il recupero dei tossicodipendenti, aveva abbandonato la struttura senza riprendere il lavoro. Il licenziamento in esame veniva impugnato dalla lavoratrice. La Corte d'Appello di Milano confermava il licenziamento ma, al contempo, lo riqualificava quale licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente diritto della lavoratrice al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. La lavoratrice impugnava in Cassazione la decisione della Corte d'Appello a mezzo ricorso articolato in vari motivi, mentre la società resisteva con controricorso e ricorso incidentale fondato su di un unico motivo.

Quanto al ricorso principale, per quanto qui interessa, la lavoratrice lamentava che sebbene la lettera di contestazione disciplinare fosse stata consegnata a persona addetta al ritiro della posta presso il suo domicilio, tale circostanza non sarebbe stata idonea a fondare la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. poiché era noto alla società mittente che la lavoratrice era ospite presso la comunità di recupero di cui sopra. Con distinto motivo la lavoratrice si doleva del mancato accoglimento dell'eccezione di tardività della contestazione disciplinare in quanto intervenuta circa sette mesi dopo il fatto oggetto d'addebito.

Entrambe le censure sono state dichiarate infondate dalla Suprema Corte. Quanto alla prima, la Corte ha sostenuto che ci fossero gli elementi perché la presunzione in esame operasse: in particolare, il ruolo di persona addetta alla ricezione della posta del soggetto che aveva ritirato la raccomandata era stato accertato in giudizio, così come il fatto che nessun altro indirizzo cui inviare la corrispondenza, a parte il domicilio della lavoratrice, era stato comunicato alla società.

Quanto alla seconda doglianza, la Corte di Cassazione ha ribadito un orientamento consolidato secondo il quale il principio di immediatezza della contestazione disciplinare va inteso secondo un'accezione relativa, dovendosi necessariamente prendere a riferimento il momento in cui il datore ha avuto percezione dei fatti o li ha definitivamente accertati, e non quello del loro accadimento. Ha poi aggiunto la Corte che tale principio è compatibile con il trascorrere di un certo lasso di tempo tra il fatto e la contestazione. L'ampiezza di tale periodo dipende dalla complessità tanto della valutazione che il datore dovrà operare, quanto della struttura aziendale.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto accettabile il lasso di tempo trascorso tra il momento in cui il datore aveva avuto conoscenza del fatto (fine del mese di maggio) e la contestazione (inizio del mese di luglio), ritenendo irrilevante il momento in cui il fatto era avvenuto.

Anche l'unico motivo di cui al ricorso incidentale presentato dalla società è stato ritenuto infondato. Secondo la società, infatti, la decisione di riqualificare il licenziamento intimato per giusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo era erronea. Secondo la Suprema Corte, al contrario, la Corte territoriale avrebbe agito correttamente avendo riscontrato sufficienti elementi per procedere ad una diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto. Come ricordato dalla Cassazione, infatti, "deve ritenersi ammissibile, ad opera del giudice istruttore ed anche d'ufficio, la valutazione di un licenziamento intimato per giusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo qualora, fermo restando il principio dell'immutabilità della contestazione, e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto, al fatto addebitato al lavoratore venga attribuita la minore gravità propria di quest'ultimo tipo di licenziamento, atteso che la modificazione del titolo di recesso (...) costituisce soltanto il risultato di una diversa qualificazione della situazione di fatto posta a fondamento del provvedimento espulsivo".

In conseguenza di quanto sopra entrambi i ricorsi, principale e incidentale, sono stati rigettati.

 

Retribuzione e ripetibilità di somme pagata in eccesso al dipendente

Cass. Sez. Lav. 15 luglio 2016, n. 14574

Pres. Amoroso; Rel. Boghetich; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. M.M.;

Lavoro subordinato - Retribuzione - In genere - Richiesta di restituzione delle somme superiori a quelle previste dal C.C.N.L. asseritamente erogate per errore - Onere probatorio gravante sul datore di lavoro - Contenuto

Le retribuzioni fissate dai contratti collettivi costituiscono le retribuzioni minime spettanti ai lavoratori di una determinata categoria, senza che sia impedito al datore di lavoro erogare ai propri dipendenti paghe superiori, siano esse determinate a seguito di contrattazione tra le parti o semplicemente da lui offerte al lavoratore, e senza che, in tali ipotesi, si possa parlare di spirito di liberalità, atteso che la retribuzione, quale ne sia la misura, costituisce sempre la controprestazione del lavoro svolto dal dipendente; ne consegue che, ove il datore di lavoro richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni minime previste dal contratto collettivo, non può limitarsi a provare che il suddetto contratto prevede, per le prestazioni svolte, retribuzioni inferiori, ma deve dimostrare che la maggiore retribuzione erogata è stata frutto di un errore essenziale e riconoscibile dall'altro contraente, ossia di un errore che presenti i requisiti di cui agli art. 1429 e 1431 c.c.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i presupposti per la ripetibilità di somme erroneamente erogate al lavoratore.

Nel caso di specie, la società datrice aveva corrisposto, in via cumulativa per le medesime prestazioni lavorative rese oltre l'ordinario orario di lavoro nelle ore notturne, sia un'indennità per lavoro notturno che un'indennità' per lavoro straordinario, ancorché la previsione contrattual-collettiva ratione temporis applicabile escludesse espressamente la possibilità di cumulo.

Allegando di essere incorso in un errore essenziale e riconoscibile, il datore chiedeva, quindi, la restituzione, da parte del dipendente, dell'indennità di lavoro notturno.

Entrambi i Giudici del merito respingevano il ricorso datoriale, sostenendo che il predetto pagamento fosse imputabile "ad errore essenziale ma non riconoscibile a fronte del contenuto innovativo dell'accordo collettivo e dell'applicazione difforme che era stata data, sul territorio, della clausola negoziale".

Il datore proponeva ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, violazione e falsa applicazione di legge nonché insufficiente e contradditoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio poiché la Corte d'appello aveva attribuito natura di errore non riconoscibile all'erogazione cumulativa dell'indennità di lavoro notturno e dell'indennità di lavoro straordinario, nonostante la disposizione del contrato collettivo fosse chiaramente intellegibile nel senso del divieto di cumulo e nonostante sia la circolare del 26.6.2001 sia la comunicazione interna del 7.8.2001 ribadissero le modalità applicative dei diversi compensi spettanti per le differenti prestazioni e precisassero espressamente che il compenso erogato per lavoro straordinario notturno non fosse cumulabile con le maggiorazioni previste per il lavoro straordinario.

La Suprema Corte respinge il ricorso, osservando, anzitutto, che le retribuzioni fissate dai contratti collettivi costituiscono le retribuzioni minime spettanti ai lavoratori di una determinata categoria, senza che sia impedito al datore di lavoro erogare ai propri dipendenti paghe superiori, siano esse determinate a seguito di contrattazione tra le parti o semplicemente da lui offerte al lavoratore, e senza che, in tali ipotesi, si possa parlare di spirito di liberalità, atteso che la retribuzione, quale ne sia la misura, costituisce sempre la controprestazione del lavoro svolto dal dipendente. Col corollario che, ove il datore di lavoro richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni minime previste dal contratto collettivo, non può limitarsi a provare che il suddetto contratto prevede, per le prestazioni svolte, retribuzioni inferiori, ma deve dimostrare che la maggiore retribuzione erogata è stata frutto di un errore essenziale e riconoscibile dall'altro contraente, ossia di un errore che presenti i requisiti di cui agli art. 1429 e 1431 c.c.

Quanto alla dedotta riconoscibilità dell'errore, i Giudici di legittimità giudicano immune da vizi logici la motivazione della Corte territoriale, che aveva sottolineato come il CCNL stipulato nel gennaio 2001 avesse introdotto modalità e criteri di erogazione dell'indennità di lavoro notturno differenti rispetto alla disciplina sino a quel momento prevista dalla contrattazione collettiva (che prevedeva il cumulo delle indennità), rilevando, altresì, come tale portata innovativa avesse determinato l'azienda ad adottare una circolare esplicativa, oltre che a richiedere l'inoltro di una comunicazione interna resasi necessaria dalla "constatazione di una difformità di trattamento sul territorio". Sicché - conclude la Suprema Corte - i Giudici d'appello hanno correttamente ritenuto non riconoscibile l'errore, attesa la situazione concreta determinatasi all'indomani della stipulazione della nuova disciplina tale da disorientare, per i suoi profili di novità, sia gli uffici del personale sia i dipendenti.

 

Dovere di protezione e responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio

Cass. Sez. Lav. 18 luglio 2016, n. 14629

Pres. Mammone; Rel. Doronzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.I.F.C. Contr. I.N.A.I.L.;

Infortuni sul lavoro - Dovere di protezione del datore di lavoro: adozione di tutte le misure protettive, nonché accertamento e vigilanza sul corretto utilizzo da parte dei lavoratori - Responsabilità del datore in caso di infortunio - Sussistenza - Unica eccezione: infortunio dovuto esclusivamente ad abnormità ed imprevedibilità del comportamento del lavoratore - Colpa del lavoratore - Irrilevanza

Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità e dell'imprevedibilità rispetto al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione ribadisce il proprio orientamento in materia di responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio occorso ai propri dipendenti, delineandone alcune, limitatissime, eccezioni.

Come è noto, il fondamento normativo del dovere di protezione gravante sul datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti è costituito, oltre che dal combinato disposto delle norme costituzionali in materia di diritto alla salute e di diritto al lavoro, dall'art. 2087 c.c., il quale addossa all'imprenditore un obbligo di protezione generale, ancorato a parametri "mobili" ("la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica"), capaci di "auto-adeguare", nel tempo, le misure necessarie. Su tale norma generale si innestano numerosissime e specifiche norme speciali (cfr. d.lgs. n. 81/2008, che ha sostituito il d.lgs. n. 626/1994), le quali individuano, spesso per ciascun settore produttivo, diritti e obblighi di ciascun soggetto che, a vario titolo, opera in ambito aziendale.

Nel caso in esame, il lavoratore era caduto da un'impalcatura riportando diverse fratture e il giudizio di cui la sentenza in commento costituisce l'atto conclusivo riguardava l'eventuale sussistenza di una responsabilità in capo al datore di lavoro per non aver adottato tutte le misure prescritte dalla legge. Tralasciando il fronte penale della vicenda, tale responsabilità può portare a diverse conseguenze sul piano risarcitorio, anche con riguardo alla possibilità di rivalsa sul datore di lavoro delle somme erogate dall'Inail al lavoratore.

Ad opinione dei giudici di legittimità, dal quadro normativo sopra delineato deriva un'obbligazione generale del datore di lavoro che comprende l'obbligo sia di predisporre ogni misura e/o dispositivo idonei a proteggere l'integrità fisica dei propri dipendenti, sia di accertarsi - vigilando appositamente - del loro effettivo e corretto rispetto e/o utilizzo; obbligazione generale a cui, per giurisprudenza unanime, corrisponde una responsabilità altrettanto estesa.

A parere della Corte, tale responsabilità del datore di lavoro non è attenuata neppure nei casi in cui l'infortunio sia occorso a causa di un comportamento colpevole del lavoratore, così come - e a maggior ragione - in quelli in cui il comportamento colposo costituisca una semplice "concausa" dell'evento. Da ciò discende che il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio del lavoratore anche quando questo consegua ad un comportamento del dipendente caratterizzato da negligenza, imprudenza o imperizia.

Unica eccezione al sopradetto principio di responsabilità generale del datore di lavoro è l'ipotesi del c.d. "rischio elettivo": vale a dire, quando l'infortunio sia occorso in conseguenza di un comportamento del lavoratore caratterizzato da "abnormità" e "imprevedibilità" rispetto al normale procedimento lavorativo e alle direttive ricevute.

Di conseguenza, è da ritenersi che solo un comportamento del lavoratore caratterizzato da volontaria e consapevole violazione delle procedure aziendali, che si ponga quindi in palese contrasto con queste ultime, e che per ciò stesso risulti abnorme e imprevedibile, sia in grado di "scagionare" il datore di lavoro da ogni responsabilità in relazione all'infortunio subito dal primo.

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