Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci


Trattamento economico del lavoratore all'estero
Licenziamento collettivo e criteri di scelta dei lavoratori
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Comunicazione del licenziamento
Malattia e svolgimento di altra attività lavorativa

Trattamento economico del lavoratore all'estero

Cass. Sez. Lav. 22 luglio 2016, n. 15217

Pres. Venuti; Rel. Manna; P.M. Cuomo; Ric. I.S. S.p.A.; Controric. R.P.

Retribuzione - Trattamento economico ad personam goduto nei periodi di lavoro all'estero - Natura retributiva di superminimo - Sussistenza - Diritto alla conservazione di tale trattamento dopo il ritorno in Italia - Sussistenza - Irriducibilità della retribuzione

La natura retributiva del trattamento estero va riconosciuta tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosità e del disagio morale e ambientale, quanto nel caso in cui si correli all'insieme delle qualità e condizioni personali che concorrono a formare la professionalità indispensabile per prestare lavoro fuori dei confini nazionali. Solo il trattamento economico finalizzato a compensare la professionalità del lavoratore, e non il mero disagio derivante dallo svolgimento della prestazione all'estero, è qualificabile come superminimo che, stante il principio di irriducibilità della retribuzione, deve essere riconosciuto al lavoratore anche dopo il rientro in Italia.

Nota

La Corte d'appello di Torino riconosceva la natura retributiva, quale superminimo ad personam, di una parte del trattamento economico ricevuto da un dipendente di un istituto di credito, nel periodo in cui aveva svolto la propria prestazione lavorativa in Germania, e conseguentemente riconosceva il diritto del lavoratore a percepire tale trattamento economico anche dopo il suo rientro in Italia, condannando il datore di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive, compresa l'incidenza sul trattamento di fine rapporto.

Nel periodo di lavoro all'estero, il dipendente, in aggiunta alla normale retribuzione, aveva percepito le seguenti indennità: "costo della vita" consistente nel differenziale tra il costo della vita in Italia e in Germania; "l'indennità per servizio estero" correlata al disagio di svolgere la prestazione lavorativa all'estero; nonché un ulteriore emolumento, espressamente qualificato nelle busta paga, come "trattamento ad personam estero". I giudici di merito ritenevano che tale ultimo elemento avesse natura di superminimo, in quanto attribuito non in ragione della maggiore gravosità della prestazione lavorativa, bensì quale corrispettivo dell'impegno personale e dell'elevata professionalità del dipendente.

Avverso tale sentenza l'azienda ricorreva in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.

Il datore di lavoro, in particolare, lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. per aver la Corte territoriale erroneamente riconosciuto la natura di superminimo del "trattamento ad personam estero" e, conseguentemente, il diritto del lavoratore a percepire tale trattamento anche dopo il suo rientro in Italia. Ad avviso della società, tale trattamento non era da considerarsi come superminimo, bensì quale trattamento strettamente connesso alle contingenti modalità di esecuzione della prestazione lavorativa all'estero.

L'azienda ricorrente lamentava altresì violazione e falsa applicazione delle clausole dei CCNL succedutisi nel tempo secondo cui gli emolumenti di carattere eccezionale, i rimborsi spese e i trattamenti previsti in caso di trasferimenti o missioni sono espunti dalla base di calcolo del TFR, a prescindere dalla natura retributiva o risarcitoria di tali trattamenti.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, riconoscendo che la Corte territoriale, nell'affermare la natura di superminimo del "trattamento ad personam estero", aveva operato un accertamento in fatto correttamente motivato, in quanto tale, insindacabile in sede di legittimità.

Tale accertamento è stato inoltre ritenuto conforme al consolidato orientamento della Corte di Cassazione (richiamando Cass. 13405/3013; Cass. 6563/2009; Cass. 24875/2005; Cass. 3278/2004; Cass. 15656/2001; nonché Cass. 15414/2000) secondo il quale la natura retributiva del c.d. trattamento estero va riconosciuta tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosità e del disagio morale e ambientale, quanto nel caso in cui si correli all'insieme delle qualità e condizioni personali che concorrono a formare la professionalità indispensabile per prestare lavoro fuori dei confini nazionali. Quindi, la funzione risarcitoria del trattamento retributivo riconosciuto ad un lavoratore, in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa all'estero, non è sufficiente ad escluderne la natura retributiva.

La distinzione tra funzione risarcitoria, in quanto compensativa del disagio di lavorare all'estero, ovvero compensativa della professionalità del lavoratore, del trattamento riconosciuto al dipendente che lavora all'estero, rileva esclusivamente ai fini della conservazione o meno del diritto a percepire tale trattamento successivamente al rientro in Italia del lavoratore. Nel momento in cui il dipendente cessa di lavorare all'estero perde il diritto a percepire i trattamenti con funzione risarcitoria, mentre conserva il diritto a percepire i trattamenti compensativi della sua professionalità, vale a dire gli emolumenti causalmente collegati alla sua specifica qualità soggettiva che, in quanto tali, devono essere qualificati come superminimo.

Infatti, stante il principio di irriducibilità della retribuzione statuito dall'art. 2103 c.c. (nella formulazione antecedente il D.Lgs. 81 del 15 giugno 2015), il superminimo non poteva essere unilateralmente ridotto dal datore di lavoro.

Anche il motivo di ricorso relativo alla falsa applicazione della disciplina collettiva relativa alla determinazione della base di calcolo del trattamento di fine rapporto è stato ritenuto infondato. Infatti, una volta stabilita, in punto in fatto, la natura di superminimo del "trattamento ad personam estero", lo stesso, in quanto tale, non rientra nel novero delle voci che la contrattazione collettiva ha escluso dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto.

 

Licenziamento collettivo e criteri di scelta dei lavoratori

Cass. Sez. Lav. 5 agosto 2016, n. 16546

Pres. Amoroso; Rel. Boghetich; P.M. Celentano; Ric. A.N.F.E.; Controric. D.R.

In materia di licenziamenti collettivi, in caso di sottoscrizione di un accordo sindacale, vanno in esso indicati in maniera puntuale non solo i criteri di scelta concordati, ma anche le concrete modalità applicative di tali criteri, dimodoché sia consentito enucleare un metodo obiettivo ed unico di formazione della graduatoria dei lavoratori, tale da evitare l'esplicazione da parte del datore di lavoro di una discrezionalità non controllabile.

Nota

Con ricorso al Tribunale di Palermo un lavoratore ha impugnato il licenziamento collettivo intimatogli asserendo l'avvenuta violazione dei criteri di scelta. Il ricorso è stato accolto ed il recesso è stato dichiarato illegittimo in fase sommaria, in quella di opposizione nonché dai giudici del reclamo. Avverso tale decisione è stato proposto ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi, di cui uno relativo alla condanna al versamento del contributo unificato e gli altri tre inerenti l'asserita violazione dei criteri di scelta.

Limitando l'esame a tali ultime doglianze, la Suprema Corte li ha analizzati congiuntamente per connessione, respingendoli integralmente.

Nella pronunzia sono contenute una serie di affermazioni che ricalcano principi già espressi in altri precedenti, mentre la novità sembra rinvenirsi in quanto affermato nella massima riportata, estendendosi, di fatto, anche al contenuto degli accordi sindacali la necessità che essi rispettino requisiti di specificità pacificamente richiesti per le comunicazioni unilaterali del datore di lavoro (di apertura della procedura e di licenziamento). In particolare la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione di merito laddove ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento reputando generica e lacunosa l'indicazione dei criteri di scelta effettuata nell'accordo sindacale, in particolare censurando che, in violazione del principio di trasparenza, non era stata in essi precisata la modalità con cui i vari criteri indicati concorrevano tra loro, così impedendosi la formazione di una graduatoria univoca dei lavoratori il cui rispetto poteva poi essere sottoposto a controllo giudiziale.

Sempre in relazione al contenuto degli accordi sindacali, richiamando precedenti in termini, la Suprema Corte precisa, poi, la necessità che essi rispettino ulteriori requisiti, affermando che la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sancito dall'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità e devono essere coerenti con il fine dell'istituto della mobilità dei lavoratori (Cass. 3 luglio 2015, n. 13794; Cass. 20 marzo 2013, n. 6959).

Come accennato i principi espressi nella pronunzia in commento in relazione agli accordi sindacali ricalcano quelli da tempo affermati dalla giurisprudenza con riferimento alle comunicazioni unilaterali del datore di lavoro, sottolineandosi da tempo risalente ed in modo unanime la necessità che in tali atti il datore di lavoro effettui una puntuale indicazione dei criteri di scelta e delle loro modalità applicative, non potendosi limitare alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa, e proceda ad una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessati al provvedimento, così da porli in grado di sapere se saranno mantenuti in servizio o posti in mobilità. (Cass. 10 luglio 2013, n. 17119; Cass. 5 agosto 2008, n. 21138; Cass. 26 agosto 2013, n. 19576). 

 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 21 luglio 2016, n. 15082

Pres. Bronzini; Rel. Manna; P.M. Mastroberardino; Ric. OP.PE.F.S. O.P.P. F.M.S. S.C. A R.L.; Controric. G.G.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Soppressione del posto di lavoro - Ripartizione delle mansioni del lavoratore licenziato fra i lavoratori in servizio - Legittimità - Sussiste

Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 legge n. 604/1966, può consistere anche soltanto in una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, esse possono suddividersi fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate. Il risultato finale può legittimamente far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente, sempre che tale riassetto sia realmente all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta.

Nota

La Corte di Appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla società consortile nei confronti di una propria dipendente, disponendo in favore di quest'ultima, ex art. 8 legge n. 604/1966, la riassunzione o, in mancanza, il pagamento di un indennizzo pari a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società consortile, affidandosi ad un solo articolato motivo.

In particolare, la società ricorrente denunciava violazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/1966, nonché vizio di motivazione e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento alla parte della sentenza con la quale i giudici di merito avevano negato la sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, pure avendo riconosciuto che, all'origine del recesso, vi era stata un'effettiva necessità di contenimento dei costi del personale, dovuta all'accertato decremento del numero di associati alla società consortile ricorrente.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso.

In primo luogo, la Suprema Corte ha osservato che, ai sensi del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel concetto di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, rientrano la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto, cui era addetto il dipendente licenziato, senza che sia necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere anche solo diversamente ripartite (ex aliis cfr. Cass. 4 novembre 2004, n. 21121).

La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 legge n. 604/1966, può consistere anche soltanto in una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, esse possono suddividersi fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate. Il risultato finale può legittimamente far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente, sempre che tale riassetto sia realmente all'origine del licenziamento, anziché costituirne un mero effetto di risulta (cfr. in tal senso Cass. 21 novembre 2011, n. 24502).

Il controllo giurisdizionale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per non sconfinare in valutazioni di merito che si sovrappongono a quelle dell'imprenditore, deve limitarsi a verificare che il recesso sia dipeso da genuine scelte organizzative di natura tecnico-produttiva, e non da pretestuose ragioni atte a nasconderne altre, concernenti esclusivamente la persona del lavoratore licenziato. Ciò che conta, dunque, è che vi sia un genuino ed effettivo mutamento dell'organizzazione tecnico-produttiva, all'esito del quale risulti in esubero una determinata posizione lavorativa.

Con specifico riferimento al caso in oggetto, la Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata non si fosse attenuta ai suesposti principi, nella parte in cui aveva ritenuto che non costituisse giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la ripartizione delle mansioni del lavoratore licenziato fra altri dipendenti già in servizio, nonché nella parte in cui aveva affermato che la situazione di insostenibilità dei costi del personale, dovuta al pur accertato decremento del numero di associati alla società consortile ricorrente, non giustificasse il licenziamento.

La Suprema Corte ha, infine, evidenziato che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito nella sentenza gravata, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 legge n. 604/1966, il datore di lavoro deve provare l'impossibilità del repechage, ma non anche l'impossibilità di rimedi alternativi alla prescelta riorganizzazione del lavoro, poiché diversamente opinando si reintrodurrebbe surrettiziamente un non consentito controllo giurisdizionale sul merito delle scelte dell'imprenditore relative all'organizzazione tecnico-produttiva della sua azienda.

 

Comunicazione del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 10 agosto 2016, n. 16903

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Celeste; Ric A.O.; Controric. N.R.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Consegna presso lo studio del difensore del dipendente - Prova dell'avvenuta consegna - Testimonianza della persona incaricata - Ammissibilità

L'art. 2 della legge 15 luglio 1966 n. 604, nel prevedere l'obbligo della forma scritta per l'intimazione del licenziamento - il quale ha natura di atto unilaterale ricettizio -, non determina le modalità di consegna al prestatore di lavoro del documento recante la suddetta intimazione; ne consegue che il suddetto documento può essere consegnato al destinatario anche tramite persona incaricata dal datore di lavoro, la quale può essere poi assunta come teste al fine di provare l'avvenuta consegna.

Nota

La Corte di appello di Messina ha accolto il reclamo ex art. 1, comma 58, legge 28 giugno 2012 n. 92, proposto dal dipendente avverso la sentenza del Tribunale di Messina che aveva accolto l'impugnazione della società, riformando l'ordinanza emessa all'esito della fase sommaria.

In particolare, il lavoratore, detenuto per l'espiazione della pena di quattro anni di reclusione, aveva adito il Tribunale di Messina asserendo di non avere mai avuto comunicazione da parte della società del licenziamento che era stato inviato presso lo studio del difensore che lo assisteva nel processo penale. Il Tribunale aveva riscontrato che nessuna comunicazione era stata inviata al dipendente presso la sua residenza o presso la Casa Circondariale di Siracusa in cui era recluso, ritenendo che nella fattispecie dovesse essere ravvisato un licenziamento orale.

Avverso la sentenza ricorreva per Cassazione la società sostenendo che la Corte di appello avesse errato nel ritenere che il licenziamento fosse stato intimato in forma orale perché, al contrario, la volontà di recedere dal rapporto era stata manifestata con atto scritto della società il cui contenuto era stato portato a conoscenza del destinatario anche se mediante invio in luogo diverso da quello di residenza.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso non ravvisando l'erronea applicazione della disciplina prevista dall'articolo 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Infatti, secondo la Suprema Corte la norma, oltre a non richiedere formule sacramentali per la manifestazione della volontà di recedere dal rapporto, non prescrive nulla in merito alle modalità della comunicazione e non esige che l'atto debba essere necessariamente spedito al domicilio del lavoratore né che la sua consegna debba essere documentata per iscritto, ben potendo la stessa essere provata anche a mezzo di testimoni. Ne consegue che l'invio della comunicazione di licenziamento in luogo diverso dal domicilio del destinatario non trasforma il recesso in atto orale né rende inefficace il licenziamento che, al contrario, è produttivo di effetti dal momento in cui il lavoratore venga in possesso della comunicazione.

Nel caso in esame secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe quindi errato nel ritenere che il licenziamento dovesse essere qualificato orale, anche per il fatto che il dipendente era venuto in possesso dell'atto di licenziamento a seguito di accertamenti da lui stesso effettuati.

 

Malattia e svolgimento di altra attività lavorativa

Cass. Sez. Lav. 1° agosto 2016, n. 15989

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. S.R. S.p.A.; Controric. C.S.

Lavoro subordinato - Infortunio e malattia - Prestazione di attività lavorativa in favore di terzi durante il periodo di assenza per malattia - Divieto assoluto - Insussistenza - Simulazione di infermità o compromissione della guarigione - Accertamento in concreto - Necessità - Fattispecie

Non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare - durante tale assenza - attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero comporti violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro.

Tale accertamento è riservato al giudice si merito, e dovrà essere svolto non in astratto ma in concreto, con riguardo sia alla qualità e consistenza della prestazione di altra attività lavorativa, sia alla natura della patologia, sia all'effettiva compatibilità della patologia con tale altra attività lavorativa.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente che, durante un periodo di astensione dal lavoro per malattia, svolgeva attività lavorativa domestica in favore di terzi.

La Corte d'Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale di Roma, dichiarava illegittimo tale licenziamento, deducendo che lo stato di malattia della lavoratrice era da ritenersi compatibile con la prestazione della sua attività lavorativa domestica, in quanto inidonea a comprometterne la riabilitazione psichica ed anzi verosimilmente favorevole alla sua ripresa, tenuto conto della natura diagnosticata della patologia, ovvero sindrome ansioso depressiva procurata dall'ambiente di lavoro della società datrice di lavoro.

Ricorreva in Cassazione la società, deducendo, tra le altre, il mancato accertamento da parte della Corte di merito nonché il mancato assolvimento dell'onere della prova (facente capo alla lavoratrice) in merito alla compatibilità in concreto della condizione di malattia con l'attività domestica svolta.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito il principio per cui non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante tale assenza, un'attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero comporti violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro. Sicché, non si configura una giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l'assenza con altre imprese concorrenti oppure, anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa, abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trarne un reddito da lavoro diverso in costanza di malattia e in danno del proprio datore di lavoro (cfr. da ultimo Cass. n. 4237/2015).

Ciò premesso, la Corte ha sottolineato che tale accertamento va compiuto dal giudice di merito in concreto, e non in astratto, e che tale accertamento è logicamente e giuridicamente pregiudiziale all'esame del denunciato mancato assolvimento dell'onere della prova da parte della lavoratrice.

Sul punto, la Corte ha poi ritenuto che, nel caso di specie, la Corte di merito non aveva compiuto alcun accertamento concreto in merito all'effettiva prestazione di altra attività lavorativa da parte della dipendente, alla qualità e consistenza di tale prestazione, alla natura della patologia da cui era affetta, nonché alla compatibilità di questa con l'attività lavorativa. Sicché, il tenore astratto e in termini meramente probabilistici della pronuncia di secondo grado, in mancanza di un positivo accertamento dei fatti costitutivi della pretesa, costituisce un vizio sindacabile in sede di legittimità.

Sulla scorta di tali principi, la Corte ha quindi concluso per la cassazione della sentenza impugnata.

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