Contenzioso

Collocamento a riposo nella pubblica amministrazione, facoltà di recesso e motivazione del provvedimento

di Silvano Imbriaci

Il caso affrontato dalla Sezione Lavoro della Corte di cassazione con la sentenza n. 18099/2016 riguarda l'impugnazione da parte di un dipendente comunale del provvedimento di collocamento a riposo prima del compimento del 65esimo anno di età, in conformità con la normativa di cui all'art. 72 comma 11 del Dl n. 112/2008 (conv. in l. n. 133/2008) che consente alle amministrazioni di risolvere il rapporto di lavoro dei propri dipendenti al raggiungimento dell'anzianità massima contributiva di 40 anni.

La controversa si incentra sui limiti e le modalità di esercizio di questa possibilità: è sufficiente un provvedimento motivato con il semplice riferimento al raggiungimento del requisito di anzianità oppure occorre anche la motivazione in punto di prova del risparmio gestionale o delle ragioni specifiche di natura organizzativa?

Secondo la Cassazione, la facoltà attribuita dall'articolo 72 cit. non può prescindere, in caso di suo esercizio, dalla valutazione delle complesse esigenze dell'amministrazione in ragione dei principi di buona fede, imparzialità, correttezza e buon andamento che caratterizzano l'agire amministrativo (e in particolare gli atti negoziali di gestione del rapporto di impiego).

Questo anche se la norma di riferimento (articolo 72 cit.), nella sua originaria formulazione, sembrava attribuire tale potere al semplice raggiungimento dell'anzianità contributiva di 40 anni, essendo semplicemente indicata la necessità di un preavviso di sei mesi. Le stesse modifiche intervenute dopo (articolo 6, comma 3, della legge n. 15/2009) intervenivano pesantemente sui requisiti per l'accesso a questo tipo di estinzione anticipata del rapporto (richiedendo, invece dell'anzianità contributiva il requisito dell'anzianità massima di servizio di 40 anni), ma apparentemente senza in alcun modo riferirsi in modo esplicito alla necessità di ulteriori condizioni procedimentali, idonee a tradursi in altrettanti punti della motivazione (al netto di speciali discipline per i comparti sicurezza, difesa ed esteri). Si trattava, infatti di collegare l'esercizio di tale facoltà datoriale al potere di organizzazione aziendale tipico del privato datore di lavoro.

Con l'articolo 16, comma 11 del Dl n. 98/2011 (conv. nella l. n. 111/2011) si inizia ad avvertire l'esigenza di un riferimento esplicito nel testo di legge alla motivazione del provvedimento. In realtà, pare di capire dalla norma che la motivazione specifica sia necessaria solo quando l'amministrazione interessata non abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo.

La recente modifica apportata dall'articolo 1, comma 5, del Dl n. 90/2014 (conv. in l. n. 114/2014) va ancora oltre; si prevede una specifica motivazione al provvedimento, con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati, e senza pregiudizio per l'erogazione dei servizi. Tuttavia, anche se solo dal 2011 l'esercizio della facoltà da parte dell'amministrazione è condizionato espressamente almeno alla presenza di un atto generale di organizzazione interna illustrativo dei criteri di applicazione di questo potere di recesso, ciò –secondo la Cassazione - non significa affatto che anche precedentemente potesse dirsi assente un obbligo motivazionale, essendo la normativa del 2011 intervenuta semmai solo per introdurne una forma complementare, a carattere generale.

Dunque, pur nell'ambito di una progressiva assimilazione del datore di lavoro pubblico a quello privato, anche dalla legislazione di riferimento si coglie l'esigenza di ancorare la facoltà di recesso anticipato a motivate ragioni organizzative, legate alla natura inderogabilmente collettiva dei fini dell'agire amministrativo. L'obbligo motivazionale, sotto questo profilo, costituisce anche una garanzia per lo stesso lavoratore, in modo che l'esercizio del potere discrezionale non si tramuti in discriminazione. Per questo secondo la Cassazione non è sufficiente il riferimento al solo raggiungimento dell'anzianità contributiva ai fini del corretto adempimento dell'obbligo motivazionale. E, per effetto di quanto reso chiaro con la normativa del 2014, non sembra essere sufficiente neanche un generico riferimento ad esigenze riorganizzative o alla necessità di produrre risparmi di spesa, dovendo la motivazione essere specifica e consentire all'interessato destinatario del provvedimento di valutare le ragioni in fatto e in diritto che hanno condotto l'amministrazione all'emanazione di un atto riguardante la propria posizione professionale.

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