Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mobilità e criteri di scelta

Rifiuto parziale della prestazione e licenziamento

Licenziamento per assenza ingiustificata

Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo

Rito Fornero e fattispecie interpositorie

Mobilità e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 29 settembre 2016, n. 19320

Pres. Nobile; Rel. Ghinoy; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. F.B.O.; Controric. S.C.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento Collettivo - Procedura per la dichiarazione di mobilità - Comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991 - Contenuto - Obbligo di indicazione puntuale delle modalità di applicazione dei criteri di scelta - Sussistenza - Fattispecie

In tema di procedura di mobilità, il datore di lavoro, nella comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991, deve indicare puntualmente le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, al fine di consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell'operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - Incompletezza della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991 - Conseguenze - Tutela indennitaria - Sussiste

L'incompletezza della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991 - che integra una violazione delle procedure previste dallo stesso articolo - comporta l'applicazione, in favore del lavoratore licenziato, della sola tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 7, St. Lav., nella misura tra 12 e 24 mensilità.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento intimato da una fondazione ad un proprio dipendente nell'ambito di un licenziamento collettivo.

La Corte d'Appello di Catanzaro, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava inefficace il licenziamento in questione, per genericità della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della L. n. 223 del 1991. La decisione era fondata sul rilievo che, nell'esporre le modalità di applicazione del criterio delle "esigenze tecnico produttive e organizzative", la fondazione aveva valorizzato l'anzianità di servizio dei dipendenti nello svolgimento della mansione, ma senza specificare tutti i presupposti fattuali sulla base dei quali tale criterio era stato applicato. Più in particolare, la fondazione non aveva specificato la data di inizio delle pregresse esperienze lavorative dei dipendenti, la relativa durata, il nominativo del datore di lavoro, la tipologia di documentazione presa in considerazione per l'attribuzione del punteggio finale.

Conseguentemente, la Corte d'Appello condannava la fondazione alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate.

Ricorreva per Cassazione la fondazione con vari motivi di ricorso.

In primo luogo, deduceva la violazione dell'art. 4, comma 9, della L. n. 223 del 1991 per avere la Corte d'Appello ritenuto che fosse necessario non solo indicare le modalità di applicazione dei criteri di scelta, ma anche tutti gli elementi fattuali all'uopo utilizzati.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato, precisando che la comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della L. n 223 del 1991 è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell'operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti (cfr. Cass. n. 12344/2015). A tal fine, quindi, l'esigenza di consentire il controllo impone che non solo i criteri, ma anche i presupposti fattuali sulla base dei quali i criteri sono stati applicati risultino ricavabili dalla predetta comunicazione (cfr. Cass., n. 2113/2016).

Ebbene, nel caso in esame la Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione di tali principi, ritenendo che la comunicazione di apertura fosse del tutto inidonea a consentire il controllo sulla corretta applicazione dei criteri di scelta. Tale motivo di ricorso è stato quindi ritenuto infondato.

Con altro motivo di ricorso, la fondazione deduceva che, essendo il vizio in questione un vizio della procedura e non una violazione dei criteri di scelta, la Corte d'Appello avrebbe dovuto applicare l'art. 18, comma settimo, St. Lav., che prevede la sola tutela indennitaria da 12 a 24 mensilità.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo fondato. Ed infatti, l'incompletezza della comunicazione di cui all'articolo 4, comma 9, della L. n. 223 del 1991 costituisce una violazione della procedura prevista dal medesimo articolo, con conseguente applicazione del regime di cui al settimo comma dell'articolo 18 e, quindi, della sola tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità (cfr. Cass. n. 12095/2016).

Diversi invece sono i presupposti del vizio attinente la "violazione dei criteri di scelta", legittimante la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria, in quanto tale caso si ha non nell'ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive.

Ebbene, nel caso in esame la Corte d'Appello ha rilevato un difetto della comunicazione di cui all'art. 4 comma 9, limitandosi a sindacare il profilo formale attinente il contenuto della comunicazione e qualificando il vizio come meramente procedurale, senza scendere del merito della correttezza dei criteri di scelta applicati. Ha quindi erroneamente applicato la tutela reintegratoria, laddove la fattispecie sanzionatoria applicabile era quella meramente indennitaria prevista dal settimo comma dell'art. 18 St. Lav.

Accogliendo tale motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ha quindi cassato con rinvio la sentenza impugnata. 

 

Rifiuto parziale della prestazione e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 7 ottobre 2016, n. 20222

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric M.A.G. S.p.a. Controric. V.G..

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica - Rifiuto di eseguirle - Proporzionalità del rifiuto all'inadempimento datoriale - Buona fede - Legittimità - Fondamento - Limiti

A fronte di inadempimenti posti in essere sia dal datore di lavoro che dal lavoratore, occorre procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avendo riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. Deve, dunque, considerarsi in buona fede il rifiuto parziale del lavoratore di espletare date mansioni se proporzionato all'inadempimento datoriale consistente nel non riconoscere tali mansioni nella superiore qualificazione reiteratamente richiesta, così da elidere la giustificazione del licenziamento disciplinare.

Nota

Un dipendente, dopo aver richiesto per circa tre anni alla società il riconoscimento della qualifica superiore per aver svolto attività di manutentore di elicotteri e non aver ricevuto alcun riscontro, si rifiutava di svolgere le mansioni superiori affidate (esse sole).

In conseguenza del parziale inadempimento, la società, all'esito del procedimento disciplinare, comunicava il licenziamento al dipendente che impugnava il provvedimento datoriale.

Il Tribunale riconosceva al dipendente la qualifica superiore richiesta e accertava l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla società. Tale decisione veniva confermata anche dalla Corte di appello di Ancona.

La società proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello contestando che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere irrilevante il comportamento disciplinare del lavoratore costituente violazione dei propri obblighi a fronte del legittimo esercizio dello ius variandi datoriale.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Secondo la Cassazione, nel caso di specie, è errato il richiamo alla violazione di un legittimo esercizio dello ius variandi datoriale, posto che il dipendente ha limitato il proprio rifiuto alle sole mansioni di manutentore (peraltro svolte per un periodo di circa tre anni), non riconosciutegli dalla società con la superiore qualificazione reiteratamente richiesta. Tale fattispecie non può ricondursi all'ipotesi diversa del lavoratore che, adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica e in grado di richiedere in via giurisdizionale il riconoscimento delle mansioni, rifiuti aprioristicamente, senza un avallo giudiziario, l'esecuzione tout court della prestazione oggetto del contratto di lavoro.

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe correttamente qualificato il comportamento del dipendente e l'inadempimento datoriale, la proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e la loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico e sugli interessi delle stesse, ritenendo il rifiuto parziale della prestazione da parte del dipendente proporzionato all'inadempimento della società, così da elidere la giustificazione del licenziamento disciplinare.

 

Licenziamento per assenza ingiustificata

Cass. Sez. Lav. 7 ottobre 2016, n. 20218

Pres. Nobile; Rel. Venuti; P.M. Fresa; Ric. P.G.; Controric. A.R.P. S.A. COOP.;

Licenziamento individuale - Giustificato motivo soggettivo - Assenza ingiustificata dal lavoro per tre giorni consecutivi - Sussiste

In tema di licenziamento, la valutazione della gravità del fatto, in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti, non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo.

Nota

Il Tribunale di Piacenza dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato dalla società agricola cooperativa nei confronti di un proprio dipendente e condannava quest'ultima a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a risarcirgli i danni subiti, pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso sino alla reintegra.

Avverso tale pronuncia proponeva appello la società.

La Corte di appello di Bologna, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento intimato al dipendente e, ritenendo sussistente una ipotesi di giustificato motivo soggettivo, condannava la società appellante al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso.

La Corte di appello rilevava che la condotta tenuta dal dipendente, consistita nell'essersi assentato per tre giorni consecutivi, dopo una lunga assenza dal lavoro per infortunio, senza avvertire il datore di lavoro della sua impossibilità di rendere la prestazione, costituiva un inadempimento di gravità tale da determinare la risoluzione del rapporto. Ciò tenuto conto, altresì, della elevata qualifica ricoperta dal dipendente, nonché della mancanza di buona fede dimostrata dal medesimo il quale, al fine di giustificare la propria condotta, aveva successivamente reso giustificazioni risultate non vere.

Avverso la pronuncia della Corte di appello di Bologna proponeva ricorso il lavoratore fondato su di un unico motivo.

Sosteneva il lavoratore che la Corte territoriale avesse omesso l'esame concreto e complessivo dei fatti, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, incorrendo nella violazione del principio di proporzionalità delle sanzioni, non avendo considerato l'assenza di procedimenti disciplinari nell'arco di venti anni, le mansioni svolte dal dipendente, non implicanti particolari responsabilità e delicatezza, e la particolare tenuità del fatto, che non poteva ritenersi di gravità tale da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, neppure nel caso in cui volesse ritenersi che il lavoratore effettivamente non avesse giustificato l'assenza dal lavoro.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, rilevando, in primo luogo, che alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, la valutazione della gravità del fatto, in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti, non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle singole mansioni, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo (cfr. Cass. 26 luglio 2011, n. 16283; Cass. 1 marzo 2011, n. 5019; Cass. 3 gennaio 2011, n. 35).

Con specifico riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato che, come era pacifico tra le parti, in base all'art. 38 del CCNL applicabile, l'assenza ingiustificata dal lavoro per tre giorni consecutivi, rendeva giustificata l'immediata risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro.

Tenuto conto, pertanto, che la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro - l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso -, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale, con valutazione incensurabile in sede di legittimità, adeguatamente motivata e priva di vizi, avesse correttamente ritenuto che la condotta posta in essere dal lavoratore, costituisse un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale da integrare una ipotesi di giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

A ciò aggiungasi, secondo quanto evidenziato in sentenza, che il lavoratore, non solo si è assentato dal lavoro senza giustificare l'assenza ma, inoltre, ha fornito successivamente giustificazioni risultate non vere; circostanze queste che, all'evidenza, dimostravano la malafede del lavoratore e che, pertanto, erano idonee a ledere irrimediabilmente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, tenuto conto della elevata qualifica e della posizione da lui ricoperta. 

 

Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 3 ottobre 2016, n. 19703

Pres. Nobile; Rel. Ghinoy; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. L.K s.p.a..; Controric. e ric inc. T.D. s.p.a.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Scelta del lavoratore da licenziare - Criteri di scelta ex art. 5 L. 223/91 - Standard idoneo ex art. 1175 c.c. a tenere conto degli interessi di entrambe le parti - Possibilità di discostarsene - Sussistenza - Valutazioni oggettive e coerenti - Necessità

Nell'ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo opera la disciplina dettata per tale tipologia di recesso e non quella prevista per i licenziamenti collettivi che impone l'applicazione dei criteri di scelti previsti dall'art. 5 L.223/91. Tuttavia, nell'individuazione del soggetto da licenziare, il datore di lavoro deve comunque operare in coerenza con i principi di correttezza e buona fede - cui deve essere informato ex art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio - per cui il riferimento ai suddetti criteri non costituisce un obbligo, ma uno standard particolarmente idoneo a tener conto degli interessi del lavoratore e di quello aziendale, che però può essere sostituito da diverse valutazioni che, introducendo un criterio di oggettivazione della scelta, ne manifesti la coerenza con il richiamato precetto normativo.

Nota

Un operaio ha impugnato il licenziamento intimatogli per ultimazione del cantiere ove lavorava. La legittimità del recesso è stata riconosciuta in fase sommaria, di opposizione e di reclamo. In particolare la Corte d'Appello ha sottolineato la correttezza della scelta del ricorrente come lavoratore da licenziare rispetto all'altro manovale svolgente mansioni analoghe in considerazione del fatto che quest'ultimo aveva due figli minorenni mentre la moglie ed uno dei figli del ricorrente lavoravano e gli altri figli erano entrambi maggiorenni e, quindi, in possesso dell'età per rendersi al più presto autosufficienti.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, la società ha resistito con controricorso proponendo, a sua volta, ricorso incidentale condizionato.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso principale - ritenendo assorbito l'incidentale - affermando il principio di cui alla massima, in larga parte già affermato in specifici precedenti (Cass. 9 maggio 2002, n. 6667; Cass. 28 marzo 2011, n. 7046). In numerose occasioni, anche recenti, infatti, la Cassazione ha ribadito che i criteri individuati dall'art. 5 L. 223/91 - che vanno obbligatoriamente applicati nel caso di licenziamenti collettivi - non operano in modo cogente nel recesso individuale, ma, in applicazione dei generali canoni di correttezza e buona fede che informano il rapporto di lavoro, vanno comunque considerati un riferimento idoneo nella scelta del lavoratore da licenziare.

Quello che si aggiunge in questa pronunzia è l'ultimo inciso della massima riportata, relativo alla possibilità per l'imprenditore di discostarsi da tali criteri ed operare diverse valutazioni, purché siano basate su scelte oggettive e coerenti con il disposto normativo. In tale direzione la Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione operata dalla Corte territoriale laddove quest'ultima ha valorizzato la circostanza che la scelta aziendale di licenziare il ricorrente rispetto all'altro lavoratore svolgente mansioni analoghe, fosse giustificata da ragioni obiettive relative alle rispettive situazioni familiari in relazione alla possibilità di produzione del reddito. Sulla scia di tale analisi la Suprema Corte ha rigettato il motivo relativo alla pretesa violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. 

 

Rito Fornero e fattispecie interpositorie

Cass. Sez. Lav. 8 settembre 2016, n. 17775

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Mastroberardino; Ric. L.S.S. S.r.l.; SGH S.p.A.; S.M. coop.; S.S.F. coop; S. S.p.A.; Controric. E.N.;

Rito Fornero ex art. 1, comma 47 e ss l. 92/2012 - Domanda di accertamento della titolarità del rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal formale datore di lavoro - Accertamento del collegamento societario/codatorialità - Ammissibilità

Per l'applicazione del c.d. Rito Fornero - che ai sensi dell'art. 1, comma 47 e ss. della l. 92/2012 deve trovare applicazione per le "controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro" - è necessario e sufficiente che sia dedotta l'esistenza di un rapporto di lavoro qualificabile come subordinato a tempo indeterminato, la presenza di un licenziamento che lo risolva in modo illegittimo e che venga invocata la tutela prevista dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Nota

Un dipendente impugnava avanti al Giudice del Lavoro di Cagliari il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli dal proprio datore di lavoro. Con ricorso ex art. 1, comma 47 e ss. l. 92/2012 (disciplinante il c.d. Rito Fornero), il lavoratore chiedeva l'accertamento della titolarità del proprio rapporto di lavoro anche nei confronti delle altre imprese convenute, facenti parte di un unico gruppo societario, deducendo di aver svolto la propria prestazione lavorativa non solo a favore del formale datore di lavoro, ma anche di tali altre società che avevano esercitato nei suoi confronti il potere direttivo e disciplinare. Tale accertamento, secondo la prospettazione del ricorrente, era funzionale, da un lato, ai fini della declaratoria d'illegittimità del licenziamento che era stato fondato sulla soppressione delle sue mansioni esclusivamente rispetto al formale datrice di lavoro e, dall'altro, a integrare il requisito dimensionale rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Sia nella fase ad istruttoria sommaria sia in quella di opposizione, il Tribunale cagliaritano, accertava che il rapporto di lavoro del lavoratore andasse imputato a tutte le imprese convenute, ritenendo integrati gli estremi della c.d. codatorialità (in applicazione del principio già affermato da Cass. 4274/2004; Cass. 8809/2009 e Cass. 25270/2011). E ritenuto insussistente il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, le società venivano condannate a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno, pari alla retribuzione globale di fatto dal recesso all'effettiva reintegrazione.

La Corte d'Appello rigettava il reclamo promosso dalle società ritenendo ammissibile nel Rito Fornero anche la domanda di accertamento della titolarità del rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal formale datore di lavoro e confermando, nel merito, la pronuncia resa all'esito della fase di opposizione.

Avverso tale sentenza le società ricorrevano in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.

Le aziende lamentavano violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 47 e ss. l. 92/2012, per il fatto che la Corte territoriale avesse ritenuto applicabile il Rito Fornero a tutte le questioni promosse in via incidentale riguardanti la qualificazione del rapporto, inclusa la questione dell'individuazione del datore o dei datori di lavoro, previo accertamento del collegamento societario e/o della codatorialità. Le ricorrenti, in particolare, sostenevano che l'accertamento della titolarità del rapporto in capo ad un soggetto diverso dal formale datore di lavoro non costituisse una questione relativa alla qualificazione del rapporto che, ai sensi della norma citata, era ricompresa nell'ambito di applicazione del rito speciale.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ribadendo il principio di diritto (recentemente affermato da Cass. 12094/2016) secondo cui ai fini dell'applicabilità del Rito Fornero è sufficiente che sia dedotta i- l'esistenza di un rapporto di lavoro qualificabile come subordinato a tempo indeterminato; ii- la presenza di un licenziamento che lo risolva in modo illegittimo e che iii- venga richiesta la tutela prevista dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Ai fini delle questioni di mero rito, deve infatti applicarsi il c.d. criterio della prospettazione, individuando il rito applicabile in base alla domanda formulata nel ricorso introduttivo del giudizio, indipendentemente dalla relativa fondatezza. Ciò, ad avviso della Suprema Corte, è conforme all'art. 1, comma 47 e ss. della l. 92/2012 che - nel condizionare l'applicabilità del rito al solo presupposto che si tratti di "controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, e successive modificazioni" - non limita l'accesso al rito speciale laddove si individui il datore di lavoro in un soggetto diverso da quello formale. Allo stesso modo, il riferimento all'operatività del rito speciale "anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro" conferma la volontà del legislatore di non precluderne l'utilizzo per barriere imposte dall'apparenza della forma. Pertanto, così come pacificamente un lavoratore che alleghi la natura subordinata del suo rapporto di lavoro formalmente autonomo, può impugnare il recesso invocando la tutela dell'art. 18 S.L. con il ricorso ex lege n. 92 del 2012, altrettanto può fare il lavoratore che invochi la stessa tutela in un rapporto di lavoro non formalizzato ovvero nei confronti di un soggetto diverso da quello che risulti essere il suo formale datore di lavoro.

Gli altri motivi di ricorso volti a censurare la ritenuta sussistenza di un'ipotesi di codatorialità e l'illegittimità del licenziamento, sono stati considerati inammissibili e quindi la Suprema Corte non li ha esaminati nel merito.

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