Contenzioso

Per la ritorsione anche la presunzione fa prova

di Giuseppe Bulgarini d’Elci

È discriminatorio il licenziamento del dipendente disposto per un giustificato motivo oggettivo ritenuto insussistente, mentre le effettive ragioni del recesso sono da ricercare nel precedente ricorso al giudice del lavoro, da parte dello stesso lavoratore,per far rimuovere uno stato di dequalificazione professionale.

La Corte di cassazione è pervenuta a questa conclusione con la sentenza 22323/2016 del 3 novembre, nella quale ha rilevato che il provvedimento espulsivo adottato come misura di ritorsione a una legittima iniziativa del lavoratore si iscrive a pieno titolo nella categoria del licenziamento discriminatorio, in base al combinato disposto degli articoli 4 della legge 604/1966, 15 della legge 300/1970 e 3 della legge 108/1990.

Ricollegandosi a un precedente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la Cassazione osserva che il divieto di licenziamento discriminatorio, alla luce dei principi costituzionali e della giurisprudenza comunitaria, è suscettibile di interpretazione estensiva, ricomprendendo, oltre alle ipotesi tipizzate dal legislatore, quella del licenziamento per ritorsione o rappresaglia. In tale ultimo nucleo di motivi vietati, aggiunge la Cassazione, si iscrive l’ingiusta e arbitraria reazione dell’azienda a un comportamento legittimo del lavoratore.

La Suprema corte è altrettanto decisa nel precisare che, al fine di poter ritenere il licenziamento discriminatorio, il motivo ritorsivo deve essere stato l’unica ragione determinante, precisando che la prova relativa a carico del lavoratore può essere raggiunta anche per presunzioni (come conseguenza ragionevolmente possibile di un fatto noto).

Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione è relativo al licenziamento del direttore di un centro di servizi al volontariato, adottato per una asserita riorganizzazione interna, a distanza di appena 21 giorni dall’ordinanza del giudice del lavoro che aveva riconosciuto la dequalificazione professionale del dipendente e ne aveva disposto la reintegrazione nel precedente ruolo.

In primo grado è stata riconosciuta unicamente l’illegittimità del licenziamento e il lavoratore, non applicandosi all’impresa di servizi il regime di tutela reale previsto dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, è stato indennizzato con 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte di appello di Reggio Calabria ha riformato la sentenza, riconoscendo la natura ritorsiva del licenziamento e disponendo la reintegrazione del lavoratore e il versamento di un indennizzo corrispondente a tutte le mensilità non lavorate.

Nel giudizio di Cassazione il datore di lavoro, impugnando la sentenza di appello, ha affermato che la natura ritorsiva non poteva giustificarsi in presenza di una decisione sul licenziamento assunta, tra l’altro, da un comitato composto da numerose persone.

La Cassazione ha rigettato questa prospettiva e confermato la natura ritorsiva del licenziamento, tra le altre ragioni, alla luce della vicinanza temporale tra la data dell’ordinanza di reintegra del lavoratore nelle vecchie mansioni e il successivo licenziamento. La Corte ha ribadito, quindi, che se le ragioni ritorsive del licenziamento hanno costituito il motivo determinante ed esclusivo, a fronte di un provvedimento datoriale manifestamente illegittimo, si ricade nel divieto di discriminazione, con diritto del dipendente al regime di tutela reale pieno.


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