Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

- Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
- Infortunio sul lavoro e ripartizione dell'onere probatorio
- Licenziamento per giusta causa e comportamenti extralavorativi
- Giusta causa di licenziamento e diritto di critica
- Licenziamento per giusta causa del dirigente

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 28 ottobre 2016, n. 21894

Pres. Di Cerbo; Rel. Negri Della Torre; P.M. Celentano; Ric. C.A.; Controric. R.A.

Infortunio sul lavoro - Responsabilità del datore di lavoro committente - Guasto alla macchina dell'appaltatore - Sussiste

In tema di infortuni e di sicurezza sul lavoro, l'esternalizzazione in tutto o in parte del processo produttivo non esclude che il datore di lavoro possa essere ritenuto responsabile dell'evento, ove egli non dia prova di avere - secondo le previsioni dell'art. 7 d.lgs. n. 626/1994 - adeguatamente verificato l'idoneità tecnico-professionale del soggetto cui l'opera è affidata, e di avere concorso alla prevenzione del rischio specifico implicato nella realizzazione della medesima, anche mediante un'idonea opera di informazione dei lavoratori addetti.

Nota

La Corte di appello di Torino respingeva l'appello incidentale proposto dal sig. P. avverso la sentenza del Tribunale di Aosta che ne aveva accertato la responsabilità nella causazione del decesso di un lavoratore, dipendente della ditta committente, avvenuto allorquando quest'ultimo, mentre immetteva calcestruzzo nel cassero di una fondazione, veniva colpito dal braccio meccanico dell'autopompa di proprietà e manovrata dal primo, titolare della ditta appaltatrice.

La Corte, confermando sul punto la sentenza di primo grado, osservava in proposito che il sig. P., in quanto proprietario della macchina, era tenuto alla sua regolare manutenzione, e che proprio il difetto della macchina era stato all'origine della caduta improvvisa del braccio dell'autopompa che aveva causato la morte del lavoratore.

La Corte di appello accoglieva, invece, l'appello incidentale del datore di lavoro ritenendo che non fosse ravvisabile, nella specie, alcuna responsabilità in capo allo stesso, a causa dell'imprevedibilità della caduta del braccio dell'autopompa, che non poteva conseguentemente essere prevenuta con l'adozione delle precauzioni imposte dalle norme invocate.

Avverso tale pronuncia proponevano ricorso gli eredi del defunto affidandosi a tre motivi.

In particolare i ricorrenti censuravano la sentenza della Corte di appello per avere quest'ultima escluso la responsabilità, nella causazione dall'infortunio, del datore di lavoro committente, non avendo tenuto conto dell'articolato insieme di previsioni e cautele, poste dal d.lgs. n. 626 del 1994, per il caso di affidamento di lavori all'interno dell'azienda, ovvero dell'unità produttiva, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi, come si era verificato nel caso di specie.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte di appello di Torino in diversa composizione.

La Cassazione ha statuito che, ai sensi della surriferita normativa, ove il datore di lavoro risulti committente di tutto o di parte del processo produttivo, non può esimersi da una verifica attenta e concreta dell'idoneità tecnico professionale dell'appaltatore, che deve comprendere una valutazione di adeguatezza delle eventuali macchine da impiegare nell'attività oggetto dell'affidamento o la richiesta di documentazione a comprova della loro efficienza.

Sotto altro profilo, il datore di lavoro non può esimersi da un'opera di individuazione del rischio specifico collegato all'uso dei mezzi meccanici da impiegare nell'azienda, e da una conseguente opera di informazione dei lavoratori che vi sono addetti. 

 

Infortunio sul lavoro e ripartizione dell'onere probatorio

Cass. Sez. Lav. 28 ottobre 2016, n. 21882

Pres. Venuti; Rel. Lorito; P.M. Sanlorenzo; Ric T. S.p.a.; Controric. P.A.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Responsabilità ex art. 2087 cod. civ. - Configurabilità - Condizioni - Onere probatorio incombente sul lavoratore e sul datore di lavoro - Oggetto - Individuazione - Fattispecie

La responsabilità del datore di lavoro è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro prevede che il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, l'esistenza del danno ed il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.

Nota

Un lavoratore adiva il Tribunale di Roma per ottenere il risarcimento del danno patito a seguito dell'infortunio sul lavoro consistente in una distorsione al ginocchio riportata a seguito di una caduta dalla passerella che collega i binari del treno.

Il Tribunale adito accoglieva la domanda del lavoratore condannando la società.

La sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte d'Appello. A fondamento della decisione, la Corte distrettuale ribadiva la natura contrattuale della responsabilità della società, sostenendo che gravasse su quest'ultima l'onere di dimostrare che i beni aziendali fossero in buono stato di manutenzione, prova che nel corso del giudizio non era stata fornita.

Avverso la sentenza della Corte di Appello, la società proponeva ricorso in Cassazione contestando che la Corte distrettuale avesse errato nell'escludere la natura extracontrattuale della responsabilità con tutti gli effetti che ne derivano in sede di ripartizione dell'onere probatorio.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Infatti, per la Cassazione, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. è contrattuale, atteso che il contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge dalla disposizione che impone in capo al datore di lavoro un obbligo di sicurezza.

Da ciò consegue che sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi. Grava invece sul datore di lavoro, l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e, tra queste, di aver vigilato circa l'effettivo uso degli strumenti di cautela forniti al dipendente.

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale aveva correttamente statuito avendo accertato che l'infortunio si era verificato durante l'attraversamento dei binari e, specificamente, durante il passaggio su di una passerella il cui obbligo di corretta manutenzione, di cui non era stata fornita la prova nel corso del giudizio, era in capo alla società datrice di lavoro. 

 

Licenziamento per giusta causa e comportamenti extralavorativi

Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2016, n. 21367

Pres. Amoroso; Rel. Negri Della Torre; P.M. Servello; Ric. M.L.; Controric. E.D. s.p.a.

Licenziamento - Giusta causa - Comportamenti extralavorativi - Rilevanza - Requisiti - Idoneità a compromettere la fiducia nell'esattezza dei futuri adempimenti - Pregiudizio degli interessi morali e materiali del datore di lavoro - Necessità

Rientra nella nozione di giusta causa di recesso del datore di lavoro ogni fatto o comportamento del lavoratore, anche estraneo alla sfera del contratto e, in particolare, anche diverso dall'inadempimento contrattuale, che sia tale da fare venire meno quella fiducia che costituisce il presupposto essenziale della collaborazione e, quindi, della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.

Nota

La Corte d'Appello di Roma ha confermato la sentenza di rigetto dell'impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente di una grande azienda del settore elettrico a seguito dell'arresto e condanna penale per produzione e traffico di sostanze stupefacenti. In particolare la Corte d'Appello ha evidenziato che l'accordo sindacale richiamato nella lettera di licenziamento prevedeva, come fatto idoneo a determinare la sanzione espulsiva, la tenuta di comportamenti tali da far venire radicalmente meno la fiducia, e, nel caso in esame, il grave discredito dell'azienda connesso alla pubblicazione della notizia dell'arresto sugli organi di stampa e l'entità del reato commesso, seppur estranei allo svolgimento della prestazione lavorativa, erano tali da incidere insanabilmente sul legame fiduciario sotteso al rapporto, rendendo il recesso proporzionato alle condotte contestate.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi e la società ha resistito con controricorso.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso affermando il principio di cui alla massima, sancito da tempo estremamente risalente (cfr. Cass. 17 febbraio 1978, n. 783 citata in motivazione). La giurisprudenza ritiene, infatti, da anni, con orientamento oltremodo consolidato, che la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare essendo il lavoratore tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche - quale obbligo accessorio - a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (Cass. 19 gennaio 2015, n. 776; Cass. 6 agosto 2015 n. 16524). Tuttavia, precisa la Cassazione, è necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro in quanto idonei, per le concrete modalità con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass. 18 settembre 2012, n. 15654).

Nelle ipotesi di comportamenti estranei all'esecuzione della prestazione lavorativa deve, pertanto, procedersi ad una valutazione dei singoli casi concreti, analizzando la pluralità e diversità degli elementi soggettivi ed oggettivi che li contraddistinguono, quali la natura e gravità dell'elemento psicologico, il ruolo del dipendente ed il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni svolte, la qualità del datore di lavoro e l'esigenza di tutela della sua immagine.

Nella fattispecie in esame, la Suprema Corte ritiene corretta la sentenza emessa in sede di gravame avendo i giudici di merito, con motivazione immune da censure, premessa l'indubbia potenzialità lesiva della fiducia sottesa al rapporto di lavoro della condotta di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti in ragione del disvalore etico-sociale connesso, riscontrato l'insanabile rottura del vincolo fiduciario sotteso al rapporto in considerazione della diversa natura delle sostanze stupefacenti sequestrate, del valore economico non modesto, della parziale destinazione delle medesime sostanze alla cessione a terzi per fini di lucro, dello stato di tossicodipendenza del dipendente, dell'ampia diffusione della notizia dell'arresto sugli organi di stampa ove il lavoratore era stato qualificato come "impiegato" della società.

Il ricorso è stato, pertanto rigettato. 

 

Giusta causa di licenziamento e diritto di critica

Cass. Sez. Lav. 26 ottobre 2016, n. 21649

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Celentano; Ric. P. S.p.A.; Intim. M.G.; Intim. P. S.r.l.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Esercizio del diritto di critica - Idoneità a non ledere il decoro del datore di lavoro e a pregiudicare l'impresa - Sanzione disciplinare irrogata dal datore di lavoro - Accertamento del giudice di merito per la verifica della legittimità della misura - Contenuto - Fattispecie

In tema di esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, è necessario che il prestatore si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e da non determinare un pregiudizio per l'impresa.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento per giusta causa intimato da una società ad un proprio dipendente che aveva denunciato per iscritto (allegando un parere pro veritate fornito da avvocato penalista) di aver subito comportamenti scorretti ed offensivi da parte del proprio superiore gerarchico.

La Corte d'Appello di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento in questione, ritenendo che la lettera di denuncia del lavoratore dovesse essere inquadrata nell'ambito del legittimo diritto di critica del dipendente, in quanto redatta nel rispetto sia dei limiti di continenza sostanziale (per la verità oggettiva dei fatti denunciati) che di continenza formale (per il tenore corretto e civile delle espressioni usate e per il fatto che la lettera non era stata diffusa all'esterno dell'ambito aziendale, così da escludere ogni lesione all'immagine e al decoro della società datrice di lavoro).

La Corte d'Appello escludeva altresì la proporzionalità della sanzione inflitta rispetto alla gravità del fatto contestato, certamente inidoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti.

Ricorreva per Cassazione la Società deducendo la violazione dell'art. 2119 c.c. per il non corretto inquadramento della lettera del lavoratore nell'ambito del diritto di critica, poiché contenente non già una mera valutazione di fatti, ma accuse di rilevanza penale (come confermato dall'allegato parere pro veritate) nei riguardi di altro dipendente, con la conseguente erronea esclusione della giusta causa integrata dal fatto contestato.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato, precisando innanzitutto che, per giurisprudenza pacifica, affinché l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro sia legittimo, è necessario che il dipendente si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e non determinare un pregiudizio per l'impresa (cfr. tra le altre Cass. n. 16000/2009 e Cass. n. 29008/2008). Il relativo accertamento costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se correttamente e congruamente motivato (Cass. n. 7471/2012).

Ebbene, nel caso di specie, il tenore della lettera di denuncia del dipendente esclude che lo stesso abbia travalicato i suddetti limiti di continenza sostanziale e formale, secondo l'accertamento in fatto correttamente operato dalla Corte territoriale, in applicazione del consolidato orientamento della Corte di Cassazione, ed in esito a logico ed argomentato ragionamento giuridico, insindacabile in sede di legittimità.

Ed infatti, con la lettera in esame, il lavoratore ha legittimamente esercitato il proprio diritto di critica nei confronti del comportamento tenuto dal proprio superiore, ed al tempo stesso ha sollecitato l'attivazione del potere gerarchico ed organizzativo del datore di lavoro, in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all'interno dei luoghi di lavoro ed al fine di evitare conflittualità.

In conclusione, dai superiori rilievi argomentativi si evince la palese inidoneità del comportamento contestato a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, integrante violazione del dovere posto dall'art. 2105 c.c., tale da costituire giusta causa di licenziamento. Per tali motivi, la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso. 

 

Licenziamento per giusta causa del dirigente

Cass. Sez. Lav. 31 ottobre 2016, n. 21978

Pres. Nobile; Rel. Leo; P.M. Fuzio; Ric. B.V.D.V; Controric. R.R.I. S.p.A.

Dirigente apicale - Violazione obbligo di diligenza e fedeltà artt. 2104 e 2105 c.c. - Rapporti commerciali con un parente del dirigente - Licenziamento per giusta causa - Legittimità - Mancanza di un divieto esplicito a intrattenere rapporti commerciali con un parente del dirigente - Irrilevanza - Giusta causa - Nozione

Il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni specifiche del dipendente, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.

Integra una giusta causa di licenziamento l'esercizio delle mansioni senza l'osservanza degli obblighi di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., con grave negazione degli elementi del rapporto e con modalità tali da porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento da parte del dipendente.

Nota

Un dirigente apicale, responsabile dell'approvvigionamento di beni e servizi, veniva licenziato per giusta causa per aver intrattenuto rapporti commerciali con una società il cui direttore commerciale era il proprio cognato.

Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento del ricorso, ritenendo non sussistente una giusta causa di recesso, condannava il datore di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso.

La Corte d'Appello di Roma, accoglieva l'appello incidentale della società e in riforma della sentenza di primo grado rigettava integralmente le domande del dirigente, condannandolo a restituire alla società l'importo ricevuto a titolo di indennità sostitutiva del preavviso.

Avverso tale sentenza il dirigente ricorreva in Cassazione; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

Il ricorrente censurava la sentenza di secondo grado per aver affermato che non vi fosse bisogno di una specifica norma regolamentare per comprendere che un dirigente, per di più di tipo apicale, non potesse intrattenere rapporti di tipo commerciale con una società che vedeva come direttore commerciale il proprio cognato. Il dirigente lamentava altresì che, in casi analoghi, altri dipendenti della società erano stati sanzionati solamente con provvedimenti disciplinari conservativi.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando che non vi fosse bisogno di una specifica norma regolamentare che vietasse ad un dirigente apicale di intrattenere rapporti commerciali con una società che vedeva come direttore commerciale il proprio cognato. Tale condotta, infatti, integra di per sé una violazione dell'art. 2104 c.c. che, nel prescrivere che il prestatore di lavoro debba osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore, obbliga il dipendente ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Ad avviso della Suprema Corte, nel caso di specie, la natura della prestazione avrebbe certamente dovuto essere oggetto di una particolare attenzione e diligenza da parte di colui che operava in quel particolare settore, non quale semplice operatore, ma come dirigente apicale dotato di capacita di discernimento, al quale il datore di lavoro aveva affidato compiti delicati e di responsabilità.

La Corte di Cassazione ha quindi ribadito il principio di diritto (già affermato ex plurimis da Cass. 25608/2104) secondo cui il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni specifiche del dipendente, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.

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