Contenzioso

Licenziamento per giusta causa del dipendente detenuto per spaccio di stupefacenti

di Daniela Dattola

La Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 24566 del 1° dicembre 2016 ha stabilito che la detenzione da parte di un lavoratore dipendente di sostanza stupefacente a fine di spaccio, sebbene avvenga in ambito extra lavorativo, integra la giusta causa di licenziamento dello stesso.

Il lavoratore, infatti, è tenuto non solo a fornire la prestazione lavorativa contrattualmente richiesta, ma anche a non porre assolutamente in essere comportamenti che ledano gli interessi morali e materiali del datore di lavoro, compromettendone così il rapporto fiduciario.

Il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore
Il rapporto giuridico tra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente si basa sulla fiducia che deve sempre sussistere per tutta la durata del medesimo, anche se non esiste una specifica norma giuridica che lo affermi espressamente.
In caso contrario, già la stessa Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 15004 del 21 novembre 2000 aveva stabilito che l'effetto, per così dire naturale, del venir meno della fiducia era la negazione del rapporto di lavoro.
Tale fiducia è definibile come l'affidamento riposto dal datore di lavoro nell'esatta esecuzione della prestazione dedotta nel singolo contratto lavorativo.
Affidamento che in detto ambito assume il massimo rilievo non solo per il fatto che si tratta di un rapporto di durata, ma anche perché in questo legame vi è necessariamente l'immissione di una parte (il lavoratore) nella sfera di interessi della propria controparte (quella datoriale) così forte che la scelta del datore di lavoro di assumere il tale dipendente piuttosto che un altro è in larga parte determinata dal particolare apprezzamento delle qualità personali del primo: il cosiddetto intuitu personae.

La nozione estensiva della Cassazione sulla giusta causa di recesso contrattuale
La nozione di giusta causa di recesso dal contratto individuale a tempo indeterminato di lavoro subordinato si rinviene nell'articolo 2119 del codice civile, il quale prevede che le parti possano recedervi senza necessità alcuna di preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto medesimo.
La giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 20158 del 3 settembre 2013) è intervenuta sul punto precisando che l'elencazione, contenuta nell'articolo 41 del contratto collettivo nazionale di lavoro, delle condotte legittimanti l'irrogazione del licenziamento per giusta causa ha valore puramente indicativo e non tassativo «... laddove il fondamento del recesso possa essere individuato nella nozione legale di giusta causa e cioè in un comportamento di gravità tale da comportare la lesione del vincolo fiduciario tra le parti».
E ancora, la Cassazione sezione lavoro con la sentenza n. 16524 del 6 agosto 2015 ha stabilito che nella nozione di giusta causa devono includersi anche quelle condotte che, pur riguardanti la vita privata del lavoratore, possono tuttavia risultare idonee a danneggiare irrimediabilmente il vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore.
Queste condotte, infatti, posseggono un indubbio riflesso oggettivo sulla funzionalità del rapporto lavorativo, potendo compromettere le aspettative di un futuro adempimento puntuale dell'obbligazione lavorativa propria del dipendente che le tiene.

Il caso
Un dipendente di una società ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte d'appello che aveva confermato la sentenza di primo grado la quale aveva respinto il ricorso dello stesso diretto a far dichiarare illegittimo il proprio licenziamento, che era stato intimato per detenzione a fini di spaccio di un quantitativo significativo di sostanze stupefacenti, anche se effettuata al di fuori del luogo di lavoro.
La motivazione che aveva sorretto la decisione del Giudice di prime cure era stata quella del discredito dell'immagine aziendale e dell'allarme di possibile spaccio anche nell'ambiente di lavoro che la condotta stigmatizzata e il conseguente arresto del suo autore avevano cagionato.
La Corte d'appello aveva poi evidenziato anche il disvalore sociale del reato commesso, dal momento che questo si pone in contrasto sia con norme penali, sia con i fondamentali principi etici, per non trascurare poi il fatto che la notizia sulla stampa locale dell'arresto dell'appellante aveva provocato una lesione dell'immagine della società in cui questi prestava la propria opera lavorativa.
Con il ricorso alla Cassazione il dipendente lamentava la violazione e la falsa applicazione degli articoli 2119 e 2697 del codice civile, l'incongruenza e la carenza di motivazione della sentenza del Giudice di secondo grado, sia con riferimento al danno all'immagine societaria, sia con riferimento al giudizio di gravità della condotta e alla proporzionalità tra la stessa e la sanzione inflitta: la più grave possibile.

La decisione
Con la decisione in commento la Corte di legittimità ha respinto il ricorso, precisando che un comportamento quale quello tenuto dal ricorrente è idoneo ad integrare la giusta causa di licenziamento.
Il lavoratore, infatti, è tenuto, non solo a fornire la prestazione richiesta dal contratto di lavoro, ma anche a non porre in essere nella sua stessa vita privata comportamenti tali da danneggiare gli interessi morali e materiali del datore di lavoro e l'immagine aziendale, perché altrimenti il rapporto fiduciario è irrimediabilmente compromesso.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©