Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Nozione di trasferimento d'azienda
Licenziamento disciplinare

Licenziamento per insubordinazione
Inadempimento del dipendente e risarcimento del danno
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Nozione di trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 10 novembre 2016, n. 22935

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Celentano; Ric. P.R. + 6; Controric. C.C.E. S.p.A.

Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Nozione di ramo di azienda - Entità dotata di propria autonomia organizzativa ed economica preesistente al negozio - Fattispecie

Per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone, comunque, una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma, e non anche una struttura produttiva creata "ad hoc" in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo.

Nota

Il caso di specie trae origine dall'impugnazione, da parte di 7 lavoratori, del trasferimento, da parte della società datrice di lavoro a terzi, degli uffici cui essi erano addetti, sul presupposto che non si sarebbe trattato di un genuino trasferimento di ramo d'azienda.

La domanda dei lavoratori veniva rigettata sia in primo che in secondo grado; in particolare, la Corte d'Appello di Napoli rilevava che gli uffici in questione costituivano un ramo d'azienda autonomamente valutabile sotto il profilo economico, patrimoniale e aziendale, e poneva in rilievo il fatto che alla fattispecie era applicabile il disposto del novellato art. 2112 c.c. comma 5 - come sostituito dal D. Lgs. n. 276/2003 - che, a differenza della precedente formulazione, non prevede più il requisito della preesistenza del ramo d'azienda, ben potendo questo essere identificato come tale al momento del trasferimento stesso.

Ricorrono per Cassazione i lavoratori, deducendo che la Corte d'Appello ha ritenuto, erroneamente, che, a seguito della novella di cui al D. Lgs. n. 276/2003, sia venuto meno il requisito della preesistenza del ramo d'azienda, non potendosi esso identificare in una struttura creata ad hoc ed identificata come ramo d'azienda solo in occasione del trasferimento.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo meritevole di accoglimento, affermando innanzitutto che la giurisprudenza di legittimità è oramai orientata nel ritenere operante, anche a seguito del D. Lgs. n. 276 del 2003, il principio per cui per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 c.c., debba intendersi un'entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità; ciò presuppone, quindi, una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o identificata come ramo d'azienda unicamente dalle parti del negozio traslativo (cfr. Cass. n. 8757/2014).

Del resto, non può ammettersi un trasferimento di ramo d'azienda con riferimento alla sola decisione, assunta dal soggetto cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un'unica funzione al momento del trasferimento. Tanto infatti contrasterebbe sia con le direttive comunitarie nn. 1998/50 e 2001/23, che richiedono già prima del trasferimento "una entità economica che conservi la propria identità", sia con gli artt. 4 e 36 Cost. che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, incontrollabile per l'assenza di riferimenti oggettivi (Cfr. Cass. n. 8757/2014)

A sostegno di tale principio, la Corte ha citato anche la sentenza del 6 marzo 2014 della Corte di Giustizia Europea (resa nella causa C-458/12), secondo cui, ai fini dell'applicazione della citata direttiva 2011/23, l'entità economica in questione deve, in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di una autonomia funzionale sufficiente.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 24 novembre 2016, n. 24030

Pres. Macioce; Rel. Boghetich; P.M. Matera; Ric. S. S.p.a.; Controric. S.G.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Giusta causa - Condotta del dipendente avente rilievo disciplinare - Valutazione - Proporzionalità della sanzione - Criteri di giudizio - Fattispecie

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa far venire meno la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto.

Nota

La Corte d'appello di Napoli confermava la decisione di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente con mansioni di responsabile di produzione dello stabilimento.

Secondo la Corte, la condotta tenuta dal dipendente durante un'assemblea sindacale nei confronti di una collega (consistita in un'aggressione verbale e in offese alla famiglia della stessa) non integrava una giusta causa di licenziamento non potendo venire meno (per effetto di tale condotta) l'elemento fiduciario alla base del rapporto di lavoro. Per la Corte la sanzione espulsiva adottata nei confronti del dipendente non poteva ritenersi proporzionata ai fatti commessi.

Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso per Cassazione la società contestando che la Corte avrebbe trascurato di valutare gli specifici elementi soggettivi ed oggettivi della fattispecie concreta, ovvero le mansioni affidate al dipendente e la qualifica apicale attribuita.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso affermando che la valutazione della congruità della sanzione espulsiva deve essere svolta verificando la natura e utilità del rapporto di lavoro, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni attribuite, il nocumento arrecato, la portata soggettiva dei fatti contestati, le circostanze del loro verificarsi, i motivi e l'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo.

Inoltre il principio di proporzione tra la gravità dell'illecito e la relativa sanzione comporta che il giudice debba valutare la condotta del dipendente in contrasto con obblighi che gli incombono e deve tenere conto anche del "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo e disincentivante.

Secondo la Cassazione, la Corte avrebbe omesso di effettuare una valutazione della congruità della sanzione espulsiva alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della posizione dipendente che tenesse conto del grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente (responsabile della produzione di tutto lo stabilimento), nonché del profilo apicale attribuito considerata la scarsa pertinenza del contenuto delle frasi proferite rispetto al luogo e all'oggetto della riunione sindacale.

Licenziamento per insubordinazione

Cass. Sez. Lav. 30 novembre 2016, n. 24459

Pres. Napoletano; Rel. Blasutto; P.M. Mastroberardino; Ric. DHL E.I. S.r.l.; Controric. I.A.

Licenziamento per insubordinazione - Rifiuto di eseguire la prestazione - Omissione della visita di idoneità alle mansioni - Illegittimità

L'omissione da parte del datore di lavoro della visita medica di idoneità alle mansioni costituisce un colposo, grave inadempimento idoneo a legittimare il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione, ai sensi dell'art. 1460 c.c., per non avere il datore adeguato la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell'espletamento delle mansioni loro assegnate.

Nota

La Corte di Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, per insubordinazione verificatasi nelle giornate del 31 agosto e del 7 settembre 2009, per essersi la stessa rifiutata di attendere alle mansioni di front line, in quanto ritenute non compatibili con le sue condizioni di salute. La Corte territoriale ordinava, pertanto, la reintegra della dipendente nel posto di lavoro e condannava la società appellata al risarcimento dei danni, compreso quello biologico.

La Ctu medico legale espletata in appello, il cui esito era stato condiviso dalla Corte territoriale, aveva evidenziato che l'assegnazione della lavoratrice - operatrice telefonica al rientro dalla maternità - alle mansioni di front line, per tre ore al giorno, doveva considerarsi non compatibile con le condizioni di salute della ricorrente, affetta da disfonia pari ad un grado di invalidità del 6%.

Pertanto, la Corte di Appello dichiarava privo di giusta causa il licenziamento in quanto il datore di lavoro, pure essendo a conoscenza dell'inidoneità di quest'ultima a svolgere le suddette attività di front line, non ne aveva tutelato le condizioni di salute.

Avverso la sentenza proponeva ricorso la società fondato su cinque motivi.

La società ricorrente deduceva che erroneamente la Corte di Appello avesse ascritto una responsabilità alla parte datoriale in assenza di elementi atti a comprovare l'esistenza, alla data del licenziamento, di un danno, della nocività dell'ambiente di lavoro e soprattutto l'esistenza del nesso di causalità tra l'asserito danno e l'ambiente di lavoro. La società sosteneva, peraltro, che la Corte territoriale non avesse debitamente considerato che la lavoratrice non avrebbe potuto rendersi totalmente inadempiente, sospendendo ogni attività lavorativa, a fronte della adibizione per sole tre ore al giorno alle mansioni di front line.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso osservando, in particolare, che, a fronte di certificazione medica prodotta dalla lavoratrice, che suggeriva di evitare abusi vocali, la società si era basata su di un parere del medico aziendale che aveva invece ritenuto non particolarmente stressante per le corde vocali l'assegnazione della dipendente alle mansioni in questione per non oltre quattro ore al giorno.

La Suprema Corte rilevava, altresì, che come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, il parere del medico aziendale, espresso con riferimento "alla certificazione prodotta", non aveva fatto seguito ad una visita di idoneità ex art 41 d.lgs. n. 81 del 2008, alla quale la lavoratrice non era stata sottoposta; inoltre, il suddetto parere era stato espresso in una e-mail, della quale non risultava che la società avesse dato comunicazione alla lavoratrice per l'eventuale impugnazione; infine, tale parere aveva omesso di considerare la storia clinica della lavoratrice, che, in precedenza, era stata ritenuta idonea con prescrizioni e, quindi, assegnata a mansioni con astensione da attività vocale.

Alla stregua di tali considerazioni, la Suprema Corte concludeva osservando che l'omissione della visita medica di idoneità alle mansioni di front line costituiva un colposo, grave inadempimento della società datrice di lavoro, idoneo a legittimare la reazione della lavoratrice, ai sensi dell'art 1460 c.c., per non avere il datore adeguato la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell'espletamento delle mansioni loro assegnate.

Inadempimento del dipendente e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 6 dicembre 2016, n. 24994

Pres. Di Cerbo; Rel. Lorito; Ric. M.A.P; Controric. S. S.r.l.

Inadempimento del lavoratore subordinato - Risarcimento del danno - Condizioni - Imputabilità alla colpa del lavoratore - Sussistenza - Incapacità del dipendente a svolgere le mansioni affidategli - Irrilevanza - Onere della prova

Il dipendente che svolge le mansioni affidategli in violazione degli obblighi di diligenza e correttezza è tenuto al risarcimento del danno sofferto dal datore di lavoro in conseguenza dell'inadempimento. A tal fine è irrilevante l'incapacità del lavoratore, per difetto di preparazione professionale, di svolgere le mansioni.

Incombe sul lavoratore l'onere di provare che l'inadempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivata da causa oggettivamente non imputabile allo stesso, secondo la regola generale di cui all'art.1218 c.c.

Nota

Una società citava in giudizio un'ex dipendente, con qualifica impiegatizia, per ottenere il risarcimento del danno derivante da comportamenti inadempienti posti in essere dalla lavoratrice che aveva commesso delle irregolarità contabili e amministrative per le quali la società aveva subito un ammanco di cassa e l'irrogazione di sanzioni pecuniarie per oltre Euro 120.000.

Il Tribunale di Marsala respingeva il ricorso.

La Corte d'Appello di Palermo, in accoglimento dell'impugnazione promossa dal datore di lavoro, condannava la lavoratrice a risarcire l'intero danno subito dall'azienda, avendo accertato che nell'esecuzione delle mansioni affidatele, aventi ad oggetto la gestione delle scritture contabili e dei rapporti con gli istituti previdenziali, in forza di ampia delega conferita dall'organo amministrativo della società, la lavoratrice aveva violato gli obblighi di diligenza e correttezza.

Avverso tale sentenza la dipendente ricorreva in cassazione; l'azienda resisteva con controricorso.

La ricorrente impugnava la sentenza lamentando esclusivamente l'omessa considerazione, da parte della Corte territoriale, della culpa in eligendo degli amministratori della società che le avevano conferito una delega non in linea con la sua qualifica impiegatizia e senza tener conto della sua inidonea preparazione professionale.

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo che l'incapacità della dipendente a svolgere le mansioni affidatele, per difetto di preparazione professionale, esula dal thema decidendum che, invece, attiene all'adempimento della prestazione secondo gli obblighi di diligenza e di correttezza di cui agli artt. 1175 e 1176 c.c. Infatti, la complessità dei compiti assegnati, non può giustificare l'infedele o negligente adempimento della prestazione lavorativa, potendo, tuttalpiù, legittimare la rivendicazione di un inquadramento superiore.

La Suprema Corte ha quindi avallato la motivazione della Corte d'Appello che aveva accertato le omissioni e le irregolarità contabili e amministrative poste in essere dalla lavoratrice, dalle quali erano scaturite le sanzioni amministrative e l'ammanco di cassa. Accertamento che la lavoratrice non aveva in alcun modo censurato nel proprio ricorso.

E' stato poi ribadito il principio generale secondo cui è onere del debitore provare che l'inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 13 dicembre 2016, n. 25554

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. I. s.p.a..; Controric. R.S.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Requisiti - Oggettività e verificabilità - Indicazione puntuale nella comunicazione ex art. 5, comma 9 L. 223/91 delle modalità di applicazione e di concorrenza dei criteri di scelta - Necessità

Il datore di lavoro deve comunicare in modo puntuale, chiaro e trasparente non soltanto i criteri di scelta utilizzati, ma anche le modalità applicative con le quali sono stati fatti concretamente interagire i suddetti criteri, dovendo il lavoratore essere posto in grado di sapere se sarà o meno mantenuto in servizio o sarà posto in mobilità, perché mediante i criteri di scelta devono essere individuabili le posizioni di coloro che saranno eliminati.

Nota

La Corte d'appello di l'Aquila ha respinto il gravame proposto dalla società avverso la sentenza del Tribunale di accoglimento dell'impugnativa del licenziamento collettivo ritenendo violato il comma 9 dell'art. 4 della legge n. 223 del 1991 per avere la società indicato la concorrenza dei tre criteri di scelta e la relativa percentuale (carichi di famiglia, per un peso ponderale del 30%; anzianità di servizio, pari al 20%; esigenze tecnico-produttive, per un peso ponderale pari al 25% per il livello posseduto e pari all'ulteriore 25% per la professionalità), ma omesso la puntuale specificazione dei 5 sottocriteri in base ai quali era stato attribuito il punteggio ponderale relativo alla valutazione di professionalità.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi ed il lavoratore ha resistito con controricorso proponendo a sua volta ricorso incidentale condizionato.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso principale, ritenendo assorbito il ricorso incidentale, reputando corretta ed immune da censure la decisione della Corte territoriale che, affermando il principio di cui alla massima, ha fatto applicazione dei consolidati principi in tema di criteri di scelta affermati da tempo dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, come più volte ribadito dalla Suprema Corte, non essendo richiesti per la legittimità del licenziamento collettivo la giusta causa od il giustificato motivo, l'effettiva garanzia per il lavoratore licenziato è esclusivamente di tipo procedimentale: il datore di lavoro comunica il criterio di selezione adottato "con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta" ed il lavoratore può contestare che la scelta sia stata fatta in "puntuale" applicazione di tale criterio. Diversamente, se il datore di lavoro comunica criteri vaghi ovvero non indica le modalità concrete applicative degli stessi, il lavoratore è privato della tutela assicuratagli dalla legge, perché la scelta in concreto effettuata dal datore non è raffrontabile con alcun criterio oggettivamente predeterminato e, quindi, non è verificabile (Cass. 23 dicembre 2009, n. 27165; Cass. 23 agosto 2004 n. 16588). In altre pronunce la Cassazione ha precisato che il datore di lavoro non può limitarsi alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa, ma deve operare una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessanti al provvedimento, quanto meno con riguardo alle situazioni raffrontabili per livello di specializzazione (cfr. Cass. 10 luglio 2013, n. 17119; Cass. 5 agosto 2008, n. 21138). Tale principio è stato ribadito anche quando il criterio prescelto sia stato unico (cfr. Cass. 26 agosto 2013, n. 19576; Cass. 6 giugno 2011, n. 12196).

Alla stregua di tali principi la Cassazione ha condiviso la valutazione operata dalla Corte territoriale laddove, nella mancata indicazione delle concrete modalità con cui si è attribuito il complessivo punteggio relativo ad uno dei sottocriteri, ha riscontrato la carenza di trasparenza delle scelte datoriali e un vulnus all'esercizio della funzione sindacale di controllo e valutazione, considerato, altresì, il peso ponderale del suddetto sottocriterio, che incideva nella misura del 25% della valutazione totale. A giudizio della Corte la carenza di puntuale indicazione non tanto dei criteri di scelta utilizzati (che erano quelli legali), quanto piuttosto delle modalità con cui sono stati concretamente fatti interagire i suddetti criteri, non ha consentito di conoscere esattamente tutti gli elementi in base al quale era stato formulato un punteggio per ciascun lavoratore, impedendo l'esaustiva valutazione e controllo dell'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da parte delle organizzazioni sindacali. Correttamente, pertanto, la Corte d'appello ha respinto il gravame della società.

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