Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci


Procedimento disciplinare e richiesta di audizione personale
Accertamento giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e patto di prova
Controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa
Licenziamento di dirigente
Licenziamento per giusta causa

Procedimento disciplinare e richiesta di audizione personale

Cass. Sez. Lav. 12 gennaio 2017, n. 625

Pres. Venuti; Rel. De Marinis; P.M. Matera; Ric. R.D.; Contr. C.B.D.C.C. soc. coop.

Procedimento disciplinare - Richiesta di audizione personale - Impossibilità del lavoratore a presenziare - Malattia - Onere della prova a carico del lavoratore - Sussistenza

Il lavoratore che, a fronte della contestazione disciplinare ricevuta, abbia richiesto, ai fini dell'esercizio del proprio diritto di difesa, di valersi dell'audizione di cui all'art. 7, comma 2, l. n. 300/1970 e che, una volta convocato, versi nell'impossibilità di esercitare il proprio diritto a causa di condizioni di salute ostative, ha l'onere di dimostrare di essersi trovato nelle predette condizioni di incompatibilità con l'espletamento dell'audizione orale, non essendo a tal fine sufficiente la semplice sua attestazione della situazione ostativa.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione affronta la delicata questione del procedimento disciplinare, e precisamente si occupa del caso in cui il dipendente, pur avendo richiesto l'audizione personale al fine di fornire le proprie giustificazioni rispetto al comportamento contestato, si sia successivamente trovato nell'impossibilità di presenziare a tale appuntamento, a causa di condizioni di salute ostative.

Come è noto, l'audizione personale, con l'eventuale assistenza di un rappresentante sindacale, costituisce un diritto "fondamentale" del dipendente nell'ambito del procedimento disciplinare di cui all'art. 7, l. 300/1970, in quanto direttamente correlato all'esercizio del diritto di difesa del lavoratore, cui l'intera procedura è finalizzata.

Ebbene, posto che, in base a quanto appena detto, il datore di lavoro pacificamente non può rifiutarsi di ascoltare il dipendente, pena l'illegittimità dell'intero procedimento disciplinare, la Corte chiarisce il riparto di onere probatorio nel caso in cui la predetta audizione non abbia avuto luogo per impossibilità del dipendente a presenziare per motivi di salute.

In proposito, pur avendo i giudici di legittimità "aperto" ad assenze "giustificate" sia in caso di incapacità naturale del dipendente (influente, cioè, sulla capacità di valutazione e sulla consapevolezza cosciente dell'espletanda attività), sia in caso di "normale" malattia, purché medicalmente accertata, hanno definitivamente chiarito che l'onere di provare l'impossibilità a presenziare grava esclusivamente sul lavoratore, negando ogni valore a semplici attestazioni di quest'ultimo.

In altre parole, in assenza di una prova circa l'effettiva impossibilità del lavoratore a partecipare all'audizione personale - concetto ben diverso dalla semplice allegazione/attestazione proveniente dal dipendente - il datore di lavoro può procedere oltre nel procedimento disciplinare senza che ciò importi l'illegittimità dello stesso.

La Cassazione ha, pertanto, rigettato il ricorso dell'ex dipendente.

 

Accertamento giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e patto di prova

Cass. Sez. Lav. 9 febbraio 2017, n. 3469

Pres. Di Cerbo; Rel. Ghinoy; P.M. Celeste; Ric. P. S.p.A.; Contr. R.D.

Accertamento giudiziale della sussistenza di rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato - Inserimento di patto di prova - Inammissibilità - Assegnazione mansioni diverse - Irrilevanza

Il patto di prova previsto dall'art. 2096 c.c. tutela l'interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro che si intende instaurare, consentendo il recesso ad nutum qualora l'esperimento abbia dato esito negativo. Ne consegue che, ove il rapporto di lavoro si sia già consolidato a tempo indeterminato, anche a seguito di accertamento di illegittimo impiego di un contratto di somministrazione, la verifica preliminare non ha più ragione di essere compiuta, neppure se al lavoratore vengano assegnate mansioni diverse da quelle di assunzione, in quanto in tal modo se ne snaturerebbe la causa. E' ammesso l'inserimento, tra le stesse parti, di un patto di prova solo nel caso di contratti di lavoro diversi e successivi e solo a condizione che vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare elementi sopravvenuti e/o ulteriori rispetto alla valutazione già compiuta.

Nota

La Corte di appello di Palermo, confermando la decisione del Tribunale, aveva ritenuto illegittimo il recesso intimato ad un lavoratore, motivato dall'assenza ingiustificata dal servizio dal 22 febbraio al 27 marzo 2012.

A fondamento della decisione la Corte di appello aveva rilevato che era stata in precedenza giudizialmente accertata tra le parti l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato quale conseguenza della illegittimità di un contratto di somministrazione. Il datore di lavoro, all'atto della riammissione, aveva richiesto al dipendente di sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo indeterminato nel quale era stato inserito un patto di prova di tre mesi, con libera recedibilità nel corrispondente periodo. Il lavoratore, dapprima si era rifiutato di sottoscrivere il contratto e successivamente aveva contestato la legittimità della condotta aziendale manifestando la propria disponibilità a riprendere il servizio. Con comunicazione del 28 marzo 2012, il datore di lavoro gli aveva contestato l'assenza ingiustificata. La Corte di merito, nel rigettare le domande avanzate dal datore di lavoro, aveva rilevato che il patto di prova non poteva essere inserito nel contratto, atteso che il rapporto di lavoro era già stato ripristinato e, quindi, correttamente il lavoratore si era rifiutato di adempiere alla sua prestazione ex art. 1460 c.c.

Avverso tale sentenza la società propone ricorso per cassazione, denunciando la violazione dell'art. 2096 c.c., in quanto sostiene che nel caso in esame, comunque, occorreva valutare l'idoneità del lavoratore all'espletamento delle mansioni anche tenuto conto che le nuove mansioni assegnate, a seguito della riammissione, erano molto diverse rispetto a quelle ricoperte molti anni prima in esecuzione del contratto di somministrazione.

La Suprema Corte respinge il ricorso, evidenziando che il patto di prova previsto dall'art. 2096 c.c. tutela l'interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro che si intende instaurare, consentendo, il recesso ad nutum qualora l'esperimento abbia dato esito negativo. Conseguentemente, ove il rapporto di lavoro si sia già consolidato a tempo indeterminato, la verifica preliminare non ha più ragione di essere compiuta, neppure se al lavoratore vengano assegnate mansioni diverse da quelle di assunzione, in quanto in tal modo se ne snaturerebbe la causa. In tal senso, la giurisprudenza ha sempre escluso la possibilità di introdurre il patto di prova nell'ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ammettendola tra le stesse parti solo nel caso di contratti di lavoro diversi e successivi e, solo a condizione che vi sia effettivamente per il datore di lavoro la necessità di verificare elementi sopravvenuti e/o ulteriori rispetto alla valutazione già compiuta (cfr. Cass. 17 luglio 2015, n. 15059; Cass. 22 giugno 2012, n. 10440).

Per i giudici di legittimità, nel caso in esame, deve ritenersi conforme ai princìpi sopra espressi la valutazione compiuta dalla Corte di merito che ha ritenuto illegittima l'apposizione di un patto di prova in occasione della riammissione in servizio del lavoratore, atteso che era già stata giudizialmente accertata l'esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dal 18.12.2002.

 

Controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa

Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2017, n. 3630

Pres. Di Cerbo; Rel. Esposito; Ric. M.G.; Controric. P.I. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Libertà e dignità del lavoratore - Personale di vigilanza - Controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa - Legittimità - Condizioni - Fondamento

Le disposizioni dell'art. 2 dello Statuto dei Lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative - purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce i presupposti per il legittimo ricorso, da parte del datore di lavoro, ad agenzie investigative ai fini dell'accertamento di condotte disciplinarmente rilevanti tenute dai dipendenti.

Nella fattispecie, un lavoratore era stato licenziato per giusta causa in quanto, durante l'assenza per malattia, era stata riscontrata, per il tramite di un'agenzia investigativa, la prestazione da parte sua di attività lavorativa, per due giorni consecutivi, nella rosticceria della moglie.

La Corte di merito, in riforma della sentenza di prime cure, dichiarava la legittimità del recesso. Segnatamente, i Giudici d'appello - premessa la legittimità dell'impiego di agenzie investigative per verificare il comportamento dei lavoratori assenti per malattia - rilevavano che dalla consulenza tecnica espletata era emerso come il lavoratore, pure affetto da malattia traumatica, nei giorni in cui aveva svolto attività lavorativa presso la rosticceria, fosse pressoché guarito; pertanto - soggiungeva la Corte territoriale - la prestazione nella rosticceria, pur non avendo potuto incidere negativamente sullo stato di salute del dipendente, integrava la fattispecie di cui all'art. 54 del CCNL di settore (laddove prevede che il dipendente debba astenersi, in periodo di malattia ed infortunio, dallo svolgere attività lavorativa, ancorché non remunerata) e si poneva, altresì, in contrasto con i doveri di cui all'art. 2104 c.c. e del codice etico aziendale, giustificando il recesso in tronco.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra il resto, la violazione dell'art. 7, Legge 300/1970, in quanto i controlli occulti non sarebbero consentiti ai fini della verifica dell'esatto adempimento della prestazione, ma solo in relazione alla commissione da parte del prestatore di un fatto illecito a danno del patrimonio aziendale.

La Suprema Corte respinge la censura, argomentando come segue.

Anzitutto - osserva la Cassazione - difetta, nel ricorso avversario, l'"indicazione del profilo" in relazione al quale la procedura ex art. 7 cit. sarebbe stata violata.

In secondo luogo, i Giudici di legittimità ribadiscono il principio, già affermato dalla medesima Corte, a mente del quale, da un lato, le disposizioni dell'art. 2, Legge 300/1970, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative - purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3, Legge 300/1970 direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori -, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; e, dall'altro, quello secondo cui le disposizioni dell'art. 5, Legge 300/1970, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l'assenza, dovendosi ritenere legittimi gli accertamenti demandati, dal datore di lavoro, a un'agenzia investigativa, e aventi a oggetto comportamenti extralavorativi, che assumevano rilievo sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

 

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 13 gennaio 2017, n. 797

Pres. Venuti; Rel. Manna; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.A.; Controric. e ric. incid. S.A.V.E. S.r.l.

Dirigente - Licenziamento - Motivi - Inadeguatezza rispetto all'incarico ricoperto - Sufficienza - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Sussistenza

Il licenziamento individuale del dirigente d'azienda, ove non basato su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, ma su ragioni concernenti la persona del dirigente e il suo contegno, può scaturire anche semplicemente dalla mera inadeguatezza del dirigente rispetto all'incarico ricoperto, fermo restando, però, che l'onere probatorio a riguardo incombe pur sempre sul datore di lavoro.

Dirigente - Licenziamento - Giustificatezza - Nozione - Equiparabilità alla nozione legale di giusta causa e giustificato motivo - Esclusione - Contenuto minimo: inadeguatezza rispetto all'incarico e/o violazione degli obblighi di buona fede e correttezza - Necessità

Pur essendo i concetti di giusta causa e giustificato motivo diversi da quello di giustificatezza del licenziamento d'un dirigente, nondimeno quest'ultima nozione, ove riferita al contegno del lavoratore, suppone quanto meno una sua inadeguatezza ai compiti assegnatigli o una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che presiedono allo svolgimento del rapporto contrattuale (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia del giudice di merito che aveva ritenuto giustificato il licenziamento di un dirigente che trovava la sua causa esclusivamente in una divergenza di opinioni manifestata, peraltro pacatamente, nel corso di una riunione di lavoro).

Nota

La Suprema Corte torna a pronunciarsi in materia di licenziamento del dirigente, e lo fa precisando, ancora una volta, la nozione contrattual-collettiva di "giustificatezza".

La fattispecie al vaglio della Corte attiene ad un licenziamento, privo di qualsivoglia motivazione, intimato all'esito di un periodo di prova. La Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava nullo il patto di prova per difetto di forma scritta - e, per l'effetto condannava la società al pagamento in favore del dirigente dell'indennità sostitutiva del preavviso - ma confermava il rigetto della domanda di indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, ritenendo che il licenziamento de quo, pur non assistito da giusta causa, sarebbe stato comunque giustificato.

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, duolendosi principalmente del fatto che la Corte territoriale (in violazione dell'art. 112 c.p.c.), ha affermato la giustificatezza del licenziamento nonostante la società non avesse mai formulato domanda di accertamento in tal senso né avesse mai neppure allegato una qualche giustificazione del recesso, rilevando, dunque, d'ufficio una questione che non aveva formato oggetto di contraddittorio tra le parti.

La Corte di legittimità ha ritenuto fondata la predetta censura ed ha, per tale ragione, cassato la sentenza con rinvio al solo fine della quantificazione dell'indennità supplementare spettante al dirigente.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, osservato che la Corte di merito ha assurto a giustificazione del licenziamento, in assenza di qualsivoglia allegazione, da un lato, un mero assunto difensivo della società (sul quale, peraltro non era stata neppure offerta prova) - circa la presunta inadeguatezza del dirigente rispetto all'incarico ricoperto - dall'altro, un'allegazione contenuta (ad altri fini) nel ricorso introduttivo del giudizio, circa una divergenza di opinione manifestata dal lavoratore pacatamente nel corso di una riunione.

La Corte ha, altresì, rilevato come la Corte d'Appello si sia discostata dall'orientamento ormai consolidato (cfr. ex plurimis Cass. 13/12/2010, n. 25145) della giurisprudenza di legittimità secondo cui: a) la nozione di giustificatezza del licenziamento, pur essendo diversa dai concetti di giusta causa e di giustificato motivo, deve avere pur sempre un "contenuto minimo", consistente (ove il licenziamento sia basato su ragioni soggettive), o in una inadeguatezza del lavoratore rispetto ai compiti assegnatigli o in una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede; b) la prova di tali fatti grava sul datore di lavoro.

Ebbene - ha concluso la Suprema Corte - nulla di tutto ciò è ravvisabile nell'unico episodio su cui la sentenza impugnata ha basato il proprio decisum, laddove divergenti opinioni manifestate nel corso d'una sola riunione di lavoro non possono mai essere sussunte nel concetto di giustificatezza del licenziamento, essendo una corretta dialettica connotato fondamentale e irrinunciabile di qualsiasi rapporto civile e lavorativo.

 

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 8 febbraio 2017, n. 3374

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. B.A.; Controric. P. S.r.l.

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Mancata tipizzazione della condotta nel CCNL applicato - Irrilevanza - Possibilità per il giudice di fare riferimento alle ipotesi contemplate dal CCNL - Sussistenza

In tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi; tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità. Il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi, ed il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Natura esemplificativa delle ipotesi tipizzate nel CCNL applicato - Sussistenza della giusta causa in caso di comportamenti contrari alla comune etica - Lesione del vincolo fiduciario - Necessità

L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile alla sola condizione che tale grave inadempimento, o tale grave comportamento, con apprezzamento di fatto del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato per comportamenti non tipizzati dal CCNL applicato al rapporto.

La Corte d'Appello di Ancona, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva l'impugnativa di licenziamento disciplinare da parte del ricorrente, ritenendo accertato, sulla base dell'istruttoria espletata nel corso del primo grado di giudizio, il verificarsi dei due inadempimenti contestati al lavoratore, nessuno dei due tipizzati dal CCNL di riferimento.

In breve, i fatti contestati al lavoratore erano i seguenti: nel primo caso il lavoratore aveva, durante il turno di lavoro, lasciato le sue mansioni per salire per "gioco" sulle forche di un muletto guidato da altro addetto, farsi sollevare a circa due-tre metri dal suolo e saltare giù; nel secondo caso lo stesso aveva fraudolentemente inadempiuto alla prestazione lavorativa appartandosi per tre ore nel corso del turno di lavoro e rendendosi inoperoso, salvo rispondere che stava "scioperando" una volta scoperto dalla responsabile. La Corte d'Appello, pertanto, riteneva il licenziamento "ampiamente giustificato non solo dalle ipotesi tipizzate dal CCNL richiamate nell'atto espulsivo ma anche ai fini della nozione legale di giusta causa di licenziamento", in virtù di elementi quale l'intenzionalità dei comportamenti, la gravità e reiterazione dei fatti e la rottura del vincolo fiduciario.

Contro tale decisione il lavoratore ricorreva in Cassazione lamentando, tra l'altro, violazione e falsa applicazione dell'art. 30 della Legge n. 183 del 2010 in quanto nessuno dei comportamenti contestati al lavoratore risulta contemplato dal CCNL applicabile. La Suprema Corte ha respinto tale doglianza ritenendola infondata sulla base di un orientamento consolidato secondo il quale la nozione di giusta causa è di natura legale e, pertanto, "il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi". Secondo la Suprema Corte, infatti, "l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile alla sola condizione che tale grave inadempimento, o tale grave comportamento, con apprezzamento di fatto del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore".

Anche in assenza di tipizzazione del CCNL, pertanto, il licenziamento per giusta causa è legittimo ogni qual volta il comportamento sia di una gravità tale da ledere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore.

In aggiunta la Corte di Cassazione ha affermato che quanto sopra "non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità" ma che la disposizione invocata dal ricorrente (art. 30, L. 183/2010) impone al giudice soltanto di "tenere conto" delle tipizzazioni della contrattazione collettiva, con ciò intendendo che le stesse debbano essere considerate, senza rappresentare un vero e proprio vincolo per il giudice. Incidentalmente, pur non essendo il principio applicabile alla fattispecie in esame, la Suprema Corte ha confermato che l'espressa previsione all'interno del CCNL di una sanzione conservativa per un determinato comportamento, vincola il datore, impedendo l'irrogazione della sanzione espulsiva.

Sulla base dei principi di cui sopra la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

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