Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Rivendicazione della natura subordinata del rapporto e rilevanza del nomen iuris
Licenziamento disciplinare e principio di immediatezza della contestazione
Licenziamento disciplinare e diritto del lavoratore ad essere sentito oralmente
Raggiungimento dei requisiti pensionistici e licenziamento
Reintegra e inadempimento del datore di lavoro

Rivendicazione della natura subordinata del rapporto e rilevanza del nomen iuris

Cass. Sez. Lav. 9 gennaio 2017, n. 206

Pres. Di Cerbo; Rel. Negri Della Torre; P.M. Celeste; Ric. Z.A.; Controric. G.S.D. S.r.l..

Autonomia/subordinazione - Rivendicazione natura subordinata - Volontà delle parti e nomen iuris - Valore presuntivo della natura del rapporto - Superamento - Prova della eterodirezione - Onere a carico del lavoratore - Necessità

Ai fini della individuazione della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro, la qualificazione operata dalle parti non è irrilevante, considerato che le manifestazioni negoziali e la qualificazione giuridica in esse data al rapporto assumono un valore quantomeno presuntivo della natura autonoma del rapporto stesso, valore che può essere superato solo nel caso in cui il lavoratore, che è gravato dal relativo onere, fornisca precisi elementi obiettivi idonei a dimostrare che, nel concreto svolgimento dell'attività lavorativa, sia stato sottoposto al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro.

Nota

La Suprema Corte torna a pronunciarsi sulla questione della rilevanza o meno del nomen iuris ai fini dell’accertamento della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro, e sembra rivalutare, sia pure entro certi limiti, la tesi, invero, minoritaria, della rilevanza della qualificazione operata dalle parti.

La fattispecie al vaglio della Corte attiene ad un rapporto di lavoro, formalizzato come co.co.co., di una lavoratrice operante nell’assistenza alla clientela. La Corte d’Appello di Roma, in totale riforma della sentenza di primo grado, escludeva la natura subordinata del rapporto considerato che le risultanze istruttorie acquisite al giudizio non consentivano una qualificazione difforme da quella corrispondente al nomen iuris (collaborazione coordinata e continuativa). E’ stato provato, infatti, che: a) la ricorrente era sottoposta a generiche direttive (ritenute compatibili anche con l'autonomia del rapporto) e non a specifici ordini; b) i controlli in ordine all'esecuzione intrinseca della prestazione non erano costanti; c) la stessa poteva scegliere e gestire autonomamente i turni di lavoro.

Avverso la predetta sentenza, la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione, deducendo, principalmente, violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., sia sotto il profilo dell’erronea attribuzione di valore assorbente (rispetto alle modalità di svolgimento in concreto del rapporto) alla qualificazione formale operata dalle parti, sia sotto il profilo di un’analisi non completa degli indici della subordinazione.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso ritenendo infondati entrambi i suddetti profili di censura.

Con riferimento al primo profilo, la Suprema Corte ha osservato come la Corte di merito, pur affermando la "rilevanza" del nomen iuris, non si sia sottratta dall’esaminare le risultanze istruttorie acquisite al giudizio, facendo, così, corretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 23/07/2004, n. 13884 e Cass. 08/03/1995, n. 2690) secondo cui, ai fini della individuazione della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro, la qualificazione operata dalle parti non è irrilevante, considerato che le manifestazioni negoziali e la qualificazione giuridica in esse data al rapporto assumono un valore quantomeno presuntivo della natura autonoma del rapporto stesso; valore che può essere superato solo nel caso in cui il lavoratore, che è gravato dal relativo onere, fornisca precisi elementi obiettivi idonei a dimostrare che, nel concreto svolgimento dell'attività lavorativa, sia stato sottoposto al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro.

Quanto al secondo profilo di censura, la Cassazione ha rilevato come la Corte territoriale, coerentemente al richiamato principio di diritto, abbia effettuato un’indagine completa di tutti gli indici della subordinazione (id est: modalità di inserimento della lavoratrice nell’organizzazione aziendale, con particolare riguardo a presenze, turni, ferie e relativi modi di comunicazione alla direzione; struttura della retribuzione e qualità delle direttive ricevute), e ciò pure a fronte di un rapporto la cui configurazione appariva dubbia. Indagine, quest’ultima, delle cui conclusioni - ha affermato la Suprema Corte - la lavoratrice non può in alcun modo dolersi, essendo la valutazione e la "pesatura" degli indici della subordinazione, prerogativa del giudice del merito, come tale insindacabile in Cassazione.

 

Licenziamento disciplinare e principio di immediatezza della contestazione

Cass. Sez. Lav. 13 marzo 2017, n. 6409

Pres. Napoletano; Rel. Patti; Ric. M.L.P.; Controric. R.F.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Procedimento disciplinare - Principio di immediatezza della contestazione - Relatività della nozione - Giustificazione delle ragioni che causano il ritardo - Necessità - Riserva di valutazione circa tali circostanze al giudice di merito - Sussistenza

In materia di licenziamento disciplinare, il principio di immediatezza relativa esige la giustificazione delle ragioni che possano cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa, con riserva esclusiva di valutazione delle suddette circostanze al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto la valutazione circa la tempestività di una contestazione disciplinare relativa a fatti occorsi svariato tempo prima della stessa.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la richiesta della lavoratrice di annullamento del licenziamento dalla stessa subìto e quelle conseguenti di condanna alla reintegrazione ed al risarcimento del danno. Il licenziamento era stato intimato alla lavoratrice nel maggio 2010 per l’appropriazione, in qualità di cassiera, di una somma nel complesso superiore e 3.000 euro attraverso l’annullamento fittizio di venti biglietti per il trasporto marittimo, avvenuta tra il 2007 e la metà del 2009. La Corte d’Appello aveva ritenuto la sanzione, oltre che fondata e proporzionata, anche tempestiva, in applicazione del principio d’"immediatezza relativa" della contestazione disciplinare.

La lavoratrice ricorreva in Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello, articolando diversi motivi. In particolare e per quanto qui interessa, la lavoratrice sosteneva la violazione e la falsa applicazione degli artt. 7 l. 300/1970, 1175 e 1375 c.c. per avere la Corte territoriale omesso di osservare il principio di tempestività della contestazione. Secondo la ricorrente, infatti, la società datrice di lavoro aveva arrecato un pregiudizio al diritto di difesa della lavoratrice contestandole fatti occorsi anche oltre tre anni prima della contestazione.

La Corte di Cassazione ha confermato l’argomentazione della Corte d’Appello sul punto e l’applicazione del principio di immediatezza relativa.

In particolare la Suprema Corte ha affermato che: "In materia di licenziamento disciplinare, il principio di immediatezza relativa esige la giustificazione delle ragioni che possano cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa, con riserva esclusiva di valutazione delle suddette circostanze al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità.".

Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha affermato che la Corte d’Appello aveva correttamente ritenuto tempestiva la contestazione sulla base del sopra riportato principio. In particolare ha ritenuto corretta la motivazione della Corte d’Appello: se lo sporadico annullamento di biglietti da parte della lavoratrice poteva essere spiegato con l’errore umano ed è quindi stato ritenuto irrilevante sotto il profilo disciplinare, è stato soltanto l’incredibile numero di anomalie registrato nell’agosto 2009 a dare il via alle verifiche. In aggiunta, il lungo periodo intercorso tra l’inizio delle verifiche e la contestazione poteva essere agevolmente spiegato con la grande mole di biglietti da analizzare. Tali circostanze sono state ritenute dalla Suprema Corte idonee a giustificare il ritardo nella contestazione dei fatti e, conseguentemente, la stessa ha respinto la censura di cui sopra e rigettato l’intero ricorso.

 

Licenziamento disciplinare e diritto del lavoratore ad essere sentito oralmente

Cass. Sez. Lav. 2 marzo 2017, n. 5314

Pres. Macioce; Rel. Torrice; Ric. P.L.; Controric. I.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Diritto del lavoratore ad essere sentito oralmente - Sussistenza - Condizioni - Differimento dell'incontro - Ammissibilità - Esigenza difensiva non altrimenti tutelabile - Necessità - Criteri.

Ai sensi dell'art. 7, secondo comma, della Legge 20 maggio 1970, n. 300, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell'incontro limitandosi ad addurre una impossibilità di presenziare, poiché l'obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce i presupposti di legittimità della richiesta, formulata dal lavoratore nell'ambito di un procedimento disciplinare, di differimento dell'audizione per rendere le proprie giustificazioni.

Nella fattispecie, un lavoratore era stato licenziato per giusta causa per aver occultato "per lunghi anni all'interno di un armadio in dotazione al medesimo lavoratore di numerose pratiche di riscatto degli anni di laurea, delle domande di ricongiunzione ex art. 1 L. 29/1979, di 22 tessere assicurative recanti marche non annullate né decontate e pertanto riutilizzabili, di 148 fogli matricolari, di fogli di congedo illimitati, di ricevute di bollettini di versamento di pratiche di riscatti e di ricongiungimenti, 61 ricorsi risalenti agli anni 1992/1993", documenti tutti concernenti pratiche affidate per il loro esame al ricorrente.

La Corte territoriale, confermando la sentenza di prime cure, dichiarava la legittimità del recesso, argomentando, tra il resto, che la certificazione medica dedotta dal dipendente a presunto supporto della richiesta di posticipazione dell'audizione a difesa del lavoratore non attestava l'impossibilità di quest'ultimo di comparire al relativo incontro, atteso che, da un lato, la medesima documentava unicamente uno stato ansioso generalizzato e che, dall'altro, il datore, sin dalla lettera di contestazione, si era dichiarato disponibile a far visionare e prelevare personalmente al lavoratore, ovvero per il mezzo di soggetto all'uopo delegato, il fascicolo relativo al procedimento disciplinare, sì da tutelare il diritto di difesa del dipendente.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra il resto, l'illegittimità del rifiuto opposto dal datore di lavoro alla richiesta di differimento dell'audizione.

La Suprema Corte respinge la censura, argomentando come segue.

Anzitutto - osserva la Cassazione - ai sensi dell'art. 7, secondo comma, della Legge 20 maggio 1970, n. 300, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell'incontro limitandosi ad addurre una impossibilità di presenziare, poiché l'obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. La convocazione, infatti - soggiunge la Cassazione - è evidentemente strumentale all'audizione a difesa e nessuna norma, neppure collettiva, prevede che, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore in un determinato giorno, quest'ultimo abbia un incondizionato diritto al differimento dell'incontro.

 

Raggiungimento dei requisiti pensionistici e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 24 gennaio 2017, n. 1743

Pres. Nobile; Rel. Venuti; P.M. Ceroni; Ric. A. s.p.a.; Contr. M.U.;

Raggiungimento dei requisiti pensionistici - Clausola del contratto collettivo che prevede la collocabilità a riposo dei lavoratori che conseguano il diritto a pensione - Licenziamento - Inconfigurabilità - Obbligo di preavviso - Insussistenza

La comunicazione del datore di lavoro di collocamento a riposo del dipendente, in forza della clausola contrattuale di automatica risoluzione del rapporto di lavoro al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, non integra un’ipotesi di licenziamento, ma esprime solo la volontà datoriale di avvalersi di un meccanismo risolutivo previsto in sede di autonomia negoziale. Di conseguenza, in tale ipotesi, non compete al lavoratore il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione affronta l’interessante questione della qualificazione giuridica della risoluzione del rapporto di lavoro a seguito di raggiungimento, da parte del dipendente, dei requisiti per il diritto a pensione.

Nel caso di specie, il contratto collettivo prevedeva espressamente tale possibilità (invero, correlandola al raggiungimento della massima anzianità contributiva) e l’Azienda, cautelativamente, aveva comunicato al dipendente che, a causa del prossimo compimento, da parte di quest’ultimo, del 65° anno di età, il rapporto di lavoro si sarebbe estinto a tale data.

Il lavoratore aveva qualificato tale atto datoriale come licenziamento ed aveva proposto impugnativa giudiziale dello stesso. La Corte d’Appello aveva dato ragione all’ex dipendente e aveva condannato la Società a corrispondergli l’indennità sostitutiva del preavviso.

Di diverso avviso, invece, si sono mostrati i giudici di legittimità.

Costoro hanno infatti negato a tale atto la natura di licenziamento, ricostruendo, invece, l’estinzione del rapporto come attuazione di un’apposita clausola pattuita per via contrattual-collettiva, che prevedeva, appunto, l’automatica risoluzione del rapporto al raggiungimento, da parte del dipendente, della massima anzianità contributiva (come nella specie verificatosi).

Rileva la Cassazione che, in ragione di tale clausola, il rapporto di lavoro era destinato a cessare automaticamente al compimento del 65° di età del dipendente e che, per tale ragione, non sarebbe stata necessaria neppure una apposita comunicazione da parte del datore di lavoro.

Da tale assunto, la Corte trae due ordini di conclusioni.

In primo luogo, afferma che non si può far scaturire dalla semplice esistenza di una comunicazione che ricorda l’operatività di siffatta clausola una diversa natura della fattispecie che ha portato alla risoluzione del rapporto, qualificandola come licenziamento.

In secondo luogo, partendo dalla negazione dell’esistenza di un licenziamento, i giudici di legittimità escludono che possa ravvisarsi il diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva del preavviso, non potendosi neppure individuare, nel caso di specie, la sussistenza delle finalità da cui l’art. 2118 c.c. fa discendere tale obbligo in capo al datore di lavoro recedente (vale a dire, impedire che il lavoratore subisca la perdita improvvisa del lavoro e, quindi, della propria fonte di sostentamento, nonchè consentire allo stesso di ricercare di un’altra occupazione).

La Corte accoglie pertanto il ricorso e, sussistendone i presupposti, decide altresì nel merito la causa.

 

Reintegra e inadempimento del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2017, n. 6089

Pres. Amoroso; Rel. Lorito; P.M. Mastroberardino; Ric. P.I. S.p.A.; Contr. O.F.;

Conversione giudiziale di un contratto a tempo determinato - Assegnazione del lavoratore presso una sede diversa da quella di origine - Rifiuto del lavoratore di riprendere servizio - Eccezione ex art. 1460 c.c. - Ammissibilità - Licenziamento del lavoratore - Illegittimità.

L'inadempimento del datore di lavoro consistente nel riammettere in servizio il dipendente - per effetto della conversione del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, in conseguenza della nullità del termine apposto al contratto - in una sede diversa da quella nella quale il lavoratore avrebbe dovuto essere collocato, senza alcuna giustificazione in merito alla sussistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive, è certamente grave e, dunque, legittima il rifiuto del lavoratore, ex art. 1460 c.c., di riprendere servizio nella sede presso cui è stato illegittimamente trasferito.

Nota

La Corte di appello di Roma, nel confermare la decisione del Tribunale, aveva accertato la illegittimità del recesso per giusta causa intimato in data 25 gennaio 2007 da un datore di lavoro ad un proprio dipendente, ordinando la reintegra di quest'ultimo nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno ex art. 18, L. 300/1970. A fondamento della decisione, la Corte di merito rilevava che il datore di lavoro nel dare esecuzione ad una sentenza che aveva dichiarato la nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro, aveva invitato il lavoratore a riprendere servizio in una sede diversa da quella assegnata in origine e poiché il lavoratore non si era presentato, gli aveva intimato il licenziamento per assenza ingiustificata.

Secondo la Corte di appello l'assegnazione del lavoratore presso un sede diversa da quella di origine configurava un inadempimento del datore di lavoro - per illegittimo trasferimento del dipendente per mancata dimostrazione delle ragioni poste a fondamento dello stesso - che giustificava il rifiuto del lavoratore di riprendere servizio ed il conseguente licenziamento doveva ritenersi illegittimo.

Avverso tale decisione la società propone ricorso per cassazione lamentando, innanzitutto, la violazione dell'art. 1362 c.c., in quanto la Corte di appello non avrebbe correttamente interpretato il documento prodotto dalla società dal quale risultava che tra le sedi c.d. eccedentarie - vale a dire con personale a tempo indeterminato superiore al 100% - vi era proprio la sede di origine del lavoratore, per cui la società lo aveva assegnato a quella più vicina, in termini di distanza chilometrica, tra quelle in cui vi era disponibilità di posti.

La Cassazione respinge il motivo, rilevando che correttamente la corte di merito aveva affermato che il documento prodotto non fosse sufficiente di per sé a fornire la prova invocata dal datore di lavoro, in quanto avrebbe dovuto essere corredato da ulteriori elementi, quali l'indicazione del numero dei posti in organico ed i criteri con i quali tale organico era stato determinato.

Con successivo motivo, l'azienda denuncia la violazione dell'art. 1460 c.c. in relazione agli artt. 2104 e 2015 c.c., evidenziando che l'eccezione di inadempimento non può essere opposta se il rifiuto di eseguire la prestazione sia contrario a buona fede e correttezza.

La Cassazione, nel respingere anche tale doglianza, premette che è principio consolidato quello secondo il quale il giudice, qualora sia proposta l'eccezione di inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti (o inadempimenti) avuto riguardo alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto; sicché qualora rilevi che l'inadempimento della parte, nei cui confronti sia opposta l'eccezione, non sia grave ovvero abbia scarsa importanza, in relazione all'interesse dell'altra parte a norma dell'art. 1455 c.c., deve ritenere che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell'art. 1460, secondo comma, c.c. (cfr. Cass. 23 settembre 2016, n. 18721).

Ebbene, nel caso di specie, l'inadempimento del datore di lavoro alla propria obbligazione di riammettere in servizio il dipendente, che ne abbia diritto per effetto della conversione del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, in una sede diversa da quella nella quale il lavoratore avrebbe dovuto essere collocato, senza alcuna giustificazione in merito alla sussistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive, è certamente grave in quanto pregiudizievole di interessi primari del lavoratore, compresi quelli familiari.

Appare pertanto corretto, secondo la Suprema Corte, il rifiuto del lavoratore di riprendere servizio in una sede diversa, in quanto rispondente al principio di proporzionalità sopra menzionato, come accertato nella valutazione compiuta dal giudice di merito.

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