Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Il principio di immutabilità della contestazione disciplinare
Procedimento penale e principio di immediatezza della contestazione disciplinare
Successione di licenziamenti
Trasferimento d'azienda e internalizzazione di un servizio dato in appalto
Il risarcimento del danno da perdita di “chance”

Il principio di immutabilità della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2017, n. 6099

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Fresa; Ric. V.D.F.; Controric. A.S.L. T.;

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Principio di immutabilità della contestazione disciplinare - Finalità - Tutela del diritto di difesa del lavoratore - Modica non inerente alla materialità dei fatti contestati - Legittimità.

Nel procedimento disciplinare la contestazione è funzionalmente e teleologicamente finalizzata all’esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa. Di conseguenza, il principio d’immutabilità della contestazione disciplinare non impedisce una diversa qualificazione giuridica del fatto addebitato, giacché il diritto di difesa è leso solo qualora a fondamento dell’atto di recesso vengano posti fatti materialmente diversi da quelli contestati, in relazione ai quali il lavoratore non sia stato posto nella condizione di rendere le proprie giustificazioni.

Nota

Un’azienda sanitaria locale contestava ad un proprio dirigente, autorizzato ad espletare attività libero professionale intramuraria in specifiche fasce orarie, il mancato rispetto dell’orario autorizzato per lo svolgimento di tale attività libero professionale, in quanto svolta anche durante l’orario di servizio. All’esito del procedimento disciplinare l’azienda intimava licenziamento per giusta causa in ragione della "falsa attestazione della presenza in servizio mediante alterazione dei sistemi di rilevamento o con altre modalità fraudolente" ai sensi dell’art. 55 quater, lett. a) D.Lgs. 165/2001.

Il Tribunale di Ivrea, sia nella fase a cognizione sommaria, sia nella successiva fase di opposizione, accoglieva la domanda del dirigente, dichiarando illegittimo il licenziamento.

La Corte d’Appello di Torino, in accoglimento del reclamo dell’azienda, riteneva non violato il principio d’immutabilità della contestazione disciplinare, in quanto la modifica non riguardava i fatti nella loro materialità, ma solo la relativa qualificazione giuridica e l’indicazione delle norme rispetto alle quali si era verificato l'inadempimento.

Avverso tale sentenza il dirigente ricorreva in Cassazione; l’azienda resisteva con controricorso.

Il lavoratore, tra gli altri motivi di ricorso, lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, sostenendo che la Corte territoriale nel valutare la denunciata violazione del principio della immutabilità della contestazione, avrebbe dovuto comparare, da un lato, gli addebiti oggetto della contestazione e, dall’altro, i fatti posti a fondamento del licenziamento, senza fare riferimento ad alcuna "equivalenza di funzione" della contestazione disciplinare.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo il principio di diritto (già affermato in Cass. 2021/2015 e Cass. 27842/2013) secondo cui la contestazione disciplinare non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell'accusa nel processo penale, né si ispira ad uno schema precostituito e a una regola assoluta e astratta, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti ed è funzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell’interesse del lavoratore ad esercitare pienamente il diritto di difesa. Di conseguenza, il principio di immutabilità della contestazione disciplinare non impedisce una diversa qualificazione giuridica del fatto addebitato, giacché il diritto di difesa è leso solo qualora a fondamento dell’atto di recesso vengano poste fatti materialmente diversi da quelli contestati, in relazione ai quali il lavoratore non sia stato in grado di esercitare il proprio diritto di difesa.

In altri termini, l'indagine comparativa che il giudice del merito è chiamato ad effettuare non deve arrestarsi ad una comparazione letterale della contestazione e della sanzione disciplinare, ma deve riguardare gli aspetti sostanziali della condotta e deve considerare che una circostanza può essere ritenuta "nuova" solo qualora la stessa esuli dall’originaria contestazione. Circostanza che non si verifica allorquando il fatto posto a fondamento della sanzione disciplinare è ricompreso negli addebiti oggetto della contestazione, dei quali costituisce una mera specificazione effettuata all'esito del procedimento disciplinare e delle difese svolte dall’incolpato.

 

Procedimento penale e principio di immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 15 febbraio 2017, n. 4011

Pres. Macioce; Rel. Lucia Tria; P.M. Finocchi Ghersi; Ric.S.L.; Controric. R. S.p.A.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Principio di immediatezza della contestazione e di tempestività della sanzione - Carattere relativo - Sussistenza - Fattispecie

In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore. Detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che giustificano o meno il ritardo.

Nota

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Venezia ha confermato la pronuncia del Tribunale territoriale e rigettato il ricorso proposto dal dipendente per impugnare il licenziamento per giusta causa comunicato dalla Società all’esito di un procedimento disciplinare.

Secondo la Corte, la contestazione disciplinare e la relativa sanzione comunicata al dipendente, erano da ritenersi tempestive posto che la società era venuta a conoscenza del potenziale carattere fraudolento del comportamento di alcuni dipendenti (tra cui il ricorrente) impegnati nello smaltimento di materiale ferroso solo quando in sede penale erano stati disposti sequestri e perquisizioni.

Avverso la sentenza della Corte di Appello il dipendente ha proposto ricorso in Cassazione contestando la violazione ed errata applicazione del principio d’immediatezza di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 3 e 4, circa l'individuazione del momento in cui la società era venuta a conoscenza - o avrebbe potuto farlo - degli illeciti disciplinari poi addebitati al dipendente.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Infatti, in base ad un consolidato indirizzo della Corte in tema di tempestività della contestazione e del licenziamento, la regola d’immediatezza (del licenziamento e della contestazione) va intesa in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno ampio, se richiesto dalla durata dell'accertamento e dalla valutazione dei fatti ovvero quando la complessità della struttura organizzativa della società possa far ritardare il provvedimento di recesso.

Nel caso in esame, secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del summenzionato principio affermando la tempestività delle contestazioni mosse al dipendente avendo la società appreso i fatti oggetto di contestazione solo quando in sede penale sono scattati sequestri e perquisizioni.

 

Successione di licenziamenti

Cass. Sez. Lav. 10 marzo 2017, n. 6308

Pres. Amoroso; Rel. Lorito; P.M. Mastroberardino; Ric. P.S.; Controric. M.I. s.r.l.;

Secondo licenziamento - Dirigente - Sentenza dichiarativa dell’illegittimità del primo - Esclusione della tutela reintegratoria - Conseguente efficacia estintiva del primo recesso - Cessazione della materia del contendere - Sussiste

Nell'ipotesi in cui il lavoratore, riammesso al lavoro a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli, venga successivamente ancora licenziato ed impugni il nuovo licenziamento, il giudice chiamato a giudicare sul secondo recesso deve emettere sentenza di cessazione della materia del contendere ove accerti che, nelle more, il primo licenziamento sia poi stato ritenuto legittimo.

Nota

Il Tribunale di Salerno accoglieva il ricorso proposto dal lavoratore diretto a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare senza preavviso irrogatogli in data 7.4.2000 dalla società datrice di lavoro, alle cui dipendenze aveva svolto attività lavorativa con qualifica dirigenziale, e lo reintegrava nel posto di lavoro, condannando la società al risarcimento del danno, sulla base del rilievo essenziale che il lavoratore avesse svolto mansioni di dirigente di livello inferiore e mai quelle di dirigente apicale.

La sentenza relativa a detto licenziamento veniva confermata dalla Corte di appello di Salerno.

Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte di Cassazione, che disponeva il rinvio alla Corte di Appello di Napoli affinchè verificasse la sussistenza, in capo al lavoratore, del ruolo di dirigente ovvero di pseudo-dirigente, al fine di stabilire la disciplina applicabile al licenziamento impugnato.

Il giudice designato, sul rilievo che il lavoratore rivestiva all’interno dell’assetto organizzativo aziendale un ruolo di vero e proprio dirigente, dichiarava l’illegittimità del licenziamento irrogatogli il 7.4.2000 ma condannava la società esclusivamente al risarcimento del danno ed al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso con esclusione della reintegrazione.

Medio tempore il lavoratore, reintegrato nel posto di lavoro in data 30.12.2002, era stato nuovamente licenziato per motivi disciplinari con lettera del 30.1.2003.

A seguito dell’impugnativa del secondo licenziamento, il Tribunale di Salerno, accertata l’illegittimità dello stesso, ordinava la reintegra del ricorrente nel posto di lavoro, condannando la società al risarcimento del danno nella misura di sei mensilità della retribuzione globale di fatto.

Avverso tale pronuncia proponevano ricorso sia la società che il medesimo lavoratore, il quale chiedeva, con appello incidentale, il conseguimento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento fino alla effettiva reintegra.

La Corte di appello di Salerno, investita dell’impugnativa, dichiarava estinto il giudizio per cessazione della materia del contendere rilevando che, a seguito della pronuncia della Corte di Appello di Napoli in sede di rinvio, che aveva condannato la società esclusivamente al risarcimento del danno escludendo l’applicabilità della tutela reintegratoria, il rapporto di lavoro inter partes doveva ritenersi definitivamente risolto alla data del primo licenziamento intervenuto il 7.4.2000.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore sulla base di un unico motivo.

In particolare, il ricorrente lamentava che la Corte territoriale, nel dichiarare cessata la materia del contendere, avesse omesso di pronunciarsi su un fatto decisivo per la soluzione della controversia insorta tra le parti a seguito del secondo licenziamento, non avendo tenuto conto che il lavoratore aveva manifestato il perdurante interesse alla conferma dell’illegittimità anche del secondo licenziamento intimatogli.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla base di plurime ragioni concorrenti.

Nello specifico, la Suprema Corte ha osservato che gli approdi cui era pervenuta la Corte distrettuale dovessero ritenersi coerenti con i dicta del giudice di legittimità, secondo cui, nell'ipotesi in cui il lavoratore riammesso al lavoro a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli, venga successivamente ancora licenziato ed impugni il nuovo licenziamento, il giudice chiamato a giudicare sul secondo recesso deve emettere sentenza di cessazione della materia del contendere ove accerti che, nelle more, il primo licenziamento sia poi stato ritenuto legittimo dal giudice dell'impugnazione. Ed infatti, per effetto della riforma della sentenza di primo grado che aveva ordinato la reintegrazione del lavoratore, il primo licenziamento riacquista la sua piena efficacia estintiva del rapporto, rendendo non più necessaria una decisione sul secondo licenziamento.

Ciò senza che neppure possa venire in considerazione la richiesta di risarcimento del danno relativamente al secondo recesso, atteso che l'accertamento giudiziale dell'intrinseca ingiustizia del primo ordine di reintegrazione travolge tutti gli effetti che in quell'ordine trovavano fondamento; tenuto conto, altresì, che non può essere nemmeno invocato il disposto dell'art. 2126 c.c., tale norma trovando applicazione solo con riferimento alle retribuzioni maturate dal lavoratore dopo la reintegrazione e non alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella dell'ordine di reintegra e liquidate a titolo risarcitorio (vedi Cass. 27 giugno 2000, n. 8751).

Applicando tali principi alla fattispecie scrutinata, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale aveva correttamente ritenuto che per effetto della sentenza emessa in sede di rinvio dalla Corte di Appello di Napoli, il rapporto inter partes dovesse ritenersi definitivamente risolto in seguito al licenziamento intimato il 7.4.2000, dichiarando conseguentemente assorbita ogni questione inerente al provvedimento di reintegra del lavoratore, successivo al secondo licenziamento intimato in data 30/1/2003.

Trasferimento d’azienda e internalizzazione di un servizio dato in appalto

Cass. Sez. Lav. 15 marzo 2017, n. 6770

Pres. Bronzini; Rel. Spen; P.M. Celentano; Ric. I.A.; Controric. H.I. s.r.l.;

Trasferimento d’azienda - Internalizzazione appalto - Passaggio di beni di non trascurabile entità - Configurabilità

Si configura il trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda in ipotesi di successione nell’appalto di un servizio quando il passaggio dei beni è di non trascurabile entità e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa, ed analoghe considerazioni valgono quando alla cessazione dell’appalto, il servizio torni in gestione diretta all’imprenditore già committente.

Nota

Una società ha proposto opposizione avverso il precetto con il quale - sul presupposto della successione ex art. 2112 cc. nel rapporto di lavoro intercorso tra una lavoratrice ed altra società - le si intimava, quale cessionaria della azienda, di adempiere ad una sentenza di reintegra e di condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria emessa nei confronti della cedente. Il Tribunale di Roma ha accolto l’opposizione e la Corte d'appello di Roma ha rigettato l'appello della lavoratrice.

La Corte territoriale ha osservato che l’opponente aveva dato in appalto i servizi di fitness e centro benessere interni all’albergo ed in istruttoria tale appalto era risultato genuino, pertanto doveva escludersi che con la cessazione dell'appalto si fosse verificata una retrocessione del ramo di azienda, ai sensi dell'articolo 2112 cc.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice in base ad un unico motivo denunziando la violazione o falsa applicazione dell'articolo 2112 cc.. Violazione effettivamente riscontrata dalla Suprema Corte che ha accolto il ricorso cassando con rinvio la sentenza per una nuova valutazione della fattispecie alla luce del principio affermato nella massima, già ribadito in numerosi altri precedenti, prevalentemente in tema di successione nell’appalto (Cass. 16 maggio 2013, n. 11918; Cass. 13 aprile 2011 n. 8460; Cass. 15 ottobre 2010 n. 21278; Cass. 10 marzo 2009 n. 5708; Cass. 8 ottobre 2007 n. 21023; Cass. 13 gennaio 2005 n. 493; Cass. 27 aprile 2004 n. 8054; Cass. 29 settembre 2003 n. 13949). Ricorda la Suprema Corte che, secondo una giurisprudenza costante del giudice europeo (Corte giustizia UE, sez. II, 9 settembre 2015, Joào Filipe Ferreira da Silva e Brito più altri e giurisprudenza ivi citata), il criterio decisivo, per stabilire se sussista un trasferimento di azienda consiste nel fatto che l’entità economica preservi la sua identità, a prescindere dal cambiamento del proprietario, al quale scopo va valutato l’effettivo proseguimento o ripresa della sua gestione ricavabile da una serie di indici fattuali (ad es. il tipo d’impresa, la cessione degli elementi materiali ed il relativo valore, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento della clientela, il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione). Inoltre, quando un’entità economica è in grado di operare senza elementi patrimoniali significativi, il mantenimento della sua identità, al di la` dell'operazione di cui essa e` oggetto, non può dipendere dalla cessione di tali elementi sicché, nei settori in cui l'attività si fonda essenzialmente sulla mano d'opera, anche un gruppo di lavoratori può corrispondere ad un’entità economica.

A parere della Cassazione la Corte territoriale non si è uniformata a tali principi, ritenendo erroneamente decisivo il tipo contrattuale laddove ha escluso il trasferimento di azienda sulla base del dato formale dell’esistenza di un appalto di servizi.

 

Il risarcimento del danno da perdita di "chance"

Cass. Sez. Lav. 17 marzo 2017, n. 6988

Pres. Nobile; Rel. Ghinoy; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. E.N. S.p.A.; Controric. F.O.;

Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - Avanzamento di carriera - Risarcimento del danno da perdita di "chance" - Inadempimento del datore di lavoro - Necessità

Il risarcimento del danno per perdita di "chance" presuppone un inadempimento da parte del datore di lavoro che abbia impedito al lavoratore di ottenere una qualifica superiore. Peraltro, incombe sul singolo dipendente l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l'inadempimento datoriale e il danno, ossia la sua concreta e non ipotetica possibilità di conseguire la promozione.

Nota

Il caso di specie trae origine da una sospensione dal servizio adottata nei confronti di un dipendente, per motivi cautelari, a causa di un procedimento penale pendente a suo carico. In seguito all’assoluzione definitiva del dipendente, lo stesso veniva riammesso in servizio dal datore di lavoro (circa 8 anni dopo l’inizio della sospensione).

Il lavoratore agiva quindi per chiedere il risarcimento dei danni arrecatigli dalla sospensione dal servizio e la domanda veniva accolta sia in primo che in secondo grado.

In particolare, la Corte d’Appello di Torino condannava il datore di lavoro anche al risarcimento del danno da perdita di chance, sul presupposto che quattro colleghi di lavoro del dipendente, che erano stati assunti insieme a lui, avevano tutti ottenuto nelle more una progressione di carriera. La Corte di merito affermava, quindi, che in assenza della sospensione dal servizio con alto grado di probabilità il dipendente avrebbe conseguito un livello superiore.

Ricorre per Cassazione la società, lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c., sostenendo che l’obbligo risarcitorio potrebbe derivare solo da una condotta inadempiente del datore di lavoro, nel caso di specie insussistente in quanto la sospensione dal servizio era stata legittimamente disposta.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo fondato, affermando che la perdita di chance rappresenta un modello generale di danno che trova collocazione nel campo della responsabilità contrattuale o extracontrattuale. Nel rapporto di lavoro, essa presuppone un inadempimento del datore di lavoro, che abbia impedito al dipendente di conseguire un risultato favorevole cui egli poteva aspirare con elevata probabilità di successo. Ciò premesso il lavoratore che voglia ottenere i danni derivanti dalla perdita di chance ha comunque l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato, che sia stato impedito dalla condotta illecita del datore di lavoro, della quale il danno risarcibile dev'essere conseguenza immediata e diretta (cfr. da ultimo Cass. n. 4014/2016).

Ebbene, nel caso di specie, non sussistendo alcuna condotta inadempiente del datore di lavoro, non può sussistere alcuna responsabilità risarcitoria in capo a quest’ultimo per il mancato conseguimento del livello superiore da parte del dipendente.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata.

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