Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento e insubordinazione
Licenziamento di disabile
Licenziamento di dirigenti
Appalto di servizi e di manodopera

Licenziamento e insubordinazione

Cass. Sez. Lav. 27 marzo 2017, n. 7795

Pres. Nobile; Rel. Cinque; P.M. Ceroni; Ric. A.C.; Controric. C. s.r.l.;

Giusta causa - Insubordinazione - Nozione - Presupposti - Rifiuto di adempiere - Insufficienza - Comportamenti negatori del potere direttivo - Rilevanza

La nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale.

Nota

La Corte d’Appello di Bologna ha confermato la pronuncia di primo grado di rigetto dell’impugnativa del licenziamento per giusta causa ritenendo sussistente la fattispecie della grave insubordinazione così sanzionata dal CCNL. In particolare la Corte territoriale, dopo aver respinto le censure inerenti la mancanza di immediatezza e specificità della contestazione disciplinare, ha ritenuto accertata la perpetrazione da parte della dipendente - parente del datore di lavoro e con cui vi erano dei contrasti familiari - di condotte di ingerenza espressive di uno specifico animus nocendi, le quali, anche alla luce dei precedenti disciplinari, dell’appartenenza della lavoratrice alla categoria dei quadri e delle specifiche previsioni del CCNL, conducevano a ritenere legittimo il recesso intimato.

Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi, entrambi respinti dalla Suprema Corte, la quale, nell’affermare il principio di cui alla massima - invocando un precedente in verità piuttosto risalente (Cass. 2.7.1987, n. 3251) - ha ritenuto corretta la valutazione della Corte territoriale laddove ha ritenuto che integrasse un atto di insubordinazione l’indebita ingerenza in attività esecutive, del tutto avulse da quelle proprie di competenza, posta in essere dalla dipendente all’evidente scopo di nuocere l’azienda nell’ambito di contrasti familiari ed economici pacificamente sussistenti. Secondo la Cassazione l’accertata imposizione ai dipendenti di direttive in ordine a nuove modalità di gestione degli ordini dei clienti, senza una loro preventiva definizione e condivisione con la direzione aziendale, integra una violazione dell’art. 2104 c.c., comma 2, rappresentando una contestazione pubblica del potere direttivo del datore di lavoro, ovvero, senza dubbio, un atto di insubordinazione tale da legittimare l’adottato licenziamento per giusta causa. Sempre con riferimento alla proporzionalità del provvedimento espulsivo, parimenti corretta, a parere della Suprema Corte, l’operata valorizzazione dei pregressi precedenti disciplinari e della qualifica di quadro rivestita - connotata da più pregnante vincolo fiduciario - nonchè la specifica previsione nel CCNL dell’ipotesi di grave insubordinazione quale comportamento legittimante l’adozione del recesso per giusta causa.

Né, prosegue la Corte, quanto compiuto dalla ricorrente si giustifica per l’esistenza di pregressi contrasti familiari, non rappresentando questi ultimi una clausola di esclusione dell’antigiuridicità della condotta, che va valutata allo stesso modo per tutti i dipendenti.

Il ricorso viene, pertanto respinto.

Licenziamento di disabile

Cass. Sez. Lav. 23 marzo 2017, n. 7524

Pres. Napoletano; Rel. Cinque; P.M. Celeste; Ric.C.; Controric. S.A.

Lavoro subordinato - Collocamento obbligatorio invalidi - Licenziamento - Perdita totale della capacità lavorativa o situazione di pericolo per la salute e l'incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti - Necessità - Commissione medica - Competenze

Il licenziamento dell'invalido, assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio, segue la generale disciplina normativa e contrattuale solo quando è motivato dalle comuni ipotesi di giusta causa e giustificato motivo, mentre, ove sia determinato dall'aggravamento dell'infermità che ha dato luogo al collocamento obbligatorio, è legittimo solo in presenza della perdita totale della capacità lavorativa, ovvero di una situazione di pericolo per la salute e l'incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, il cui accertamento compete all'apposita commissione medica prevista dalla legge n. 104 del 1992, cui spetta altresì la verifica dell'impossibilità di reinserire, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, il disabile all'interno dell'azienda.

Nota

Nel caso in esame la Società aveva licenziato per giustificato motivo oggettivo un dipendente invalido assunto ai sensi della L. n. 68 del 1999 adducendo quale motivazione l'aggravamento delle condizioni di salute che rendeva impossibile il suo utilizzo in qualsiasi attività.

Il Tribunale aveva dichiarato legittimo il licenziamento impugnato dal dipendente.

La Corte di appello di Cagliari ha riformato la pronuncia del Tribunale dichiarando ingiustificato il licenziamento comunicato dalla società. Per la Corte, la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore non integra un’impossibilità oggettiva della prestazione nei rapporti di lavoro con avviati obbligatori per i quali è necessaria la perdita totale della capacità lavorativa. Inoltre, i giudizi emessi dalle commissioni mediche non erano stati contestati e si erano pronunciati sull'idoneità del dipendente allo svolgimento della mansione di operario di 2° livello, sia pure con particolari esclusioni. Infine, dall'istruttoria espletata non era emersa l'impossibilità di un utilizzo del lavoratore.

Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso in Cassazione la società contestando che in caso di aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore disabile, il datore di lavoro non è tenuto a modificare o adeguare, sostenendo costi aggiuntivi, la sua organizzazione aziendale alle condizioni di salute del lavoratore protetto né a creare nuovo posto di lavoro cui adibire il lavoratore disabile. Secondo la società nel caso in esame era stata provata l'impossibilità di reimpiego del dipendente in attività compatibili con la sua residua idoneità fisica, sia pure ipotizzando una ridistribuzione degli incarichi tra i lavoratori già in servizio.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale si è correttamente attenuta al principio secondo cui il licenziamento dell'invalido, assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio, è legittimo solo in presenza della perdita totale della capacità lavorativa, ovvero di una situazione di pericolo per la salute e l'incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, il cui accertamento compete all'apposita commissione medica cui spetta, altresì, la verifica dell'impossibilità di reinserire, anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro, il disabile all'interno dell'azienda.

Ribadisce la Cassazione che il giudizio emesso dalla commissione istituita ex L. n. 104 del 1992, è stato il seguente: "Idoneo alla mansione di operario di 2° livello con mansioni di aiuto meccanico. Esclusione di attività che prevedano l'operare in condizioni in cui necessiti una valida funzione streoscopica (luoghi ristretti, irregolari, conduzioni di mezzi meccanici; esclusione dalla movimentazione manuale dei carichi)".

Secondo la Suprema Corte i giudici di appello con argomentazioni conformi al principio sopra richiamato hanno correttamente precisato che: 1) l’accertamento della commissione medica non era stato contestato dalle parti; 2) non era stato previsto un giudizio d’inidoneità totale al lavoro; 3) non erano ravvisabili situazioni di pericolo o di rischio. Con riferimento a tale ultimo aspetto l'accertamento della commissione era stato reso con piena cognizione della realtà aziendale essendo state esaminate, oltre al documento di valutazione dei rischi, varie schede informative sulle mansioni di aiutante meccanico, il parere del responsabile aziendale per la sicurezza e i documenti descrittivi degli ambienti di lavoro.

 

Licenziamento di dirigenti

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2017, n. 6097

Pres. Napoletano; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. I.F.; Controric. B.C.C.C. S.R.L.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Dirigente - Licenziamento - Disciplina applicabile - Leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 - Esclusione

La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi nn. 604/1966 e 300/1970 non è applicabile (ad eccezione dei casi di nullità del licenziamento di cui al comma 1 dell’art. 18 L. 300/1970) ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione, confermando la pronuncia della Corte d’Appello di Catanzaro, ha rigettato il ricorso promosso da un dirigente al fine di ottenere la declaratoria d’illegittimità del licenziamento irrogatogli.

Nello specifico, il dirigente aveva impugnato la sentenza di secondo grado deducendo la violazione dell’art. 1 della legge n. 604/66 e dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, per avere la Corte d’Appello erroneamente ritenuto lo stesso dirigente apicale, con conseguente esclusione delle tutele di cui alle norme appena citate.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito che, per giurisprudenza costante, la disciplina limitativa del potere di licenziamento e le connesse tutele di cui alle leggi n. 604/66 e n. 300/70 non è applicabile ai dirigenti "convenzionali", quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente, e che dunque, in concreto, dirigenti non sono (cfr. Cass. n. 25145/2010).

Inoltre, anche un’eventuale dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, del dirigente apicale a dirigente riconducibile alla "media" o "bassa" dirigenza, pur costituendo inadempimento contrattuale, non muterebbe il regime giuridico del licenziamento ad nutum proprio dei dirigenti.

Del resto, nelle imprese di rilevanti dimensioni possono ben coesistere dirigenti di diverso livello, con differente graduazione dei compiti loro assegnati, purché sia riconosciuta al dirigente di grado inferiore un'ampia autonomia decisionale in grado di incidere sugli obiettivi aziendali, anche se circoscritta dal potere generale del dirigente di livello superiore (cfr. Cass. n. 39812016). Ed infatti, in tema di attribuzione della qualifica di dirigente, bisogna tenere conto anche di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva e dalle prassi sindacali, che ne hanno portato al riconoscimento anche a lavoratori che, pur non investiti di quei poteri di direzione necessari per richiamare la nozione di "alter ego" dell’imprenditore, sono in possesso di elevate conoscenze scientifiche e tecniche o, comunque, sono dotati di professionalità tale da collocarsi in condizioni di particolare forza nel mercato del lavoro (cfr. Cass. n. 20805/2016).

Ebbene, nel caso di specie, era stato proprio il ricorrente a riconoscere la propria qualifica dirigenziale e non rilevando, per i motivi indicati, la differenza tra dirigente apicale, medio o minore, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Appalto di servizi e di manodopera

Cass. Sez. Lav. 21 marzo 2017, n. 7179

Pres. D’Antonio; Rel. Doronzo; P.M. Matera; Ric. A.Q. S.p.A.; Controric. I.N.P.S.;

Appalto di servizi endoaziendale - Interposizione illecita di manodopera - L. 1369/1960 - Criteri distintivi - Messa a disposizione di mere prestazioni lavorative - Mancata organizzazione delle prestazioni lavorative da parte dell’appaltatore - Corrispettivo stabilito ad ore lavorative - Mancata assunzione del rischio di impresa da parte dell’appaltatore.

Ai sensi della legge 1369/1960, l'ipotesi di appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal terzo comma del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante), sia quando l’appaltatore manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un'autonoma organizzazione — da verificarsi con riguardo alle prestazioni in concreto affidategli.

Con riferimento ai c.d. appalti endoaziendali, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, va precisato che il divieto di cui all'art. 1 L. 1369/1960 opera tutte le volte in cui l'appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore stesso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo e non assuma, con la gestione dell'esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio d'impresa relativo al servizio fornito.

Nota

Una società proponeva opposizione avverso ad una cartella di pagamento, notificata nell’interesse dell’I.N.P.S., avente ad oggetto contributi previdenziali relativi a lavoratori assunti per il tramite di interposizioni illecite di manodopera.

La Corte d’Appello di Firenze confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato l’opposizione dell’azienda in ragione della natura fittizia dei contratti di appalto relativi a "lavori di zappatura e ripulitura dei vitigni e di raccolta delle olive". La non genuinità di tali contratti veniva accertata sulla base di un complesso di elementi istruttori, globalmente considerati, e costituiti dall’oggetto del servizio appaltato; dall'assenza di particolari tecnologie o uso di mezzi straordinari richiesti per la sua esecuzione; dalla mancanza di una struttura organizzativa autonoma delle società appaltatrici; dal tipo di corrispettivo pattuito, commisurato al numero delle ore impiegate per l'esecuzione dell'opera e ad una tariffa oraria; nonché dalla conseguente assenza di un rischio di impresa in capo alle appaltatrici.

Avverso tale sentenza l’azienda ricorreva in Cassazione; l’I.N.P.S. resisteva con controricorso.

Il ricorrente lamentava, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione della Legge 1369/1960 (ad oggi sostituita dall’art. 29 D.Lgs. 276/2003), che la Corte territoriale avesse accertato la natura illecita degli appalti sulla base di presunzioni diverse da quelle di cui all’art. 1 comma 3 della norma citata e, come vizio di motivazione, che il giudice di appello non avesse comunque indicato gli elementi integranti l’intermediazione vietata di manodopera.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che, per giurisprudenza costante (per tutte Cass. 21/07/2006, n. 16788), l'ipotesi di appalto di manodopera è configurabile non solo in presenza degli elementi presuntivi considerati dall’art. 1, comma 3 (cioè l’impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dal committente), bensì anche quando il soggetto interposto manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un'autonoma organizzazione, da verificarsi con riguardo alle prestazioni in concreto affidategli.

Con riferimento agli appalti cosiddetti "endoaziendaIi", che sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, la Suprema Corte ha precisato che il divieto di interposizione di manodopera cui all'art. 1 Legge 1369/1960 opera tutte le volte in cui l'appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore stesso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo e non assuma, con la gestione dell'esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio d'impresa relativo al servizio fornito.

Nella sentenza viene altresì sottolineato che la non genuinità dei contratti di appalto trovava conferma negli accertamenti compiuti dall’ispettorato del lavoro da cui era emerso che una delle appaltatrici risultava inesistente, mentre l’altra possedeva un’organizzazione del tutto insufficiente a far fronte al fatturato dichiarato, tenuto conto che le fatture esaminate riguardavano solo gli automezzi relativi al trasporto del personale, il vitto e l’alloggio di questo, la telefonia mobile e la pubblicità.

Da ultimo la Corte di Cassazione ha chiarito che il corrispettivo degli appalti, commisurato al numero delle ore impiegate per l'esecuzione dell'opera e alla relativa tariffa oraria, escludeva di per sé l’assunzione di qualsiasi rischio di impresa da parte delle appaltatrici.

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