Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Patto di non concorrenza
Licenziamento per superamento del comporto
Lesione dell'obbligo di fedeltà
Licenziamento di dirigente
Lavoratrice disabile e sorveglianza sanitaria

Patto di non concorrenza

Cass. Sez. Lav. 4 aprile 2017, n. 8715

Pres. Macioce; Rel. Boghetich; Ric. A.I. S.p.A.; Controric. T.E.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Patto di non concorrenza - Opzione non remunerata a favore del datore di lavoro - Nullità - Fondamento

È nulla la clausola di opzione afferente ad un patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. allorché non garantisca alcun corrispettivo a favore del lavoratore, con conseguente illecita sperequazione della posizione delle parti nell'ambito dell'assetto negoziale e violazione della natura contrattuale dell'opzione.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte analizza i presupposti di validità del patto di opzione allorché esso abbia ad oggetto la stipulazione di un patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c.

Nella fattispecie, un lavoratore rivendicava il pagamento del corrispettivo di un patto di non concorrenza, apposto ad un contratto di formazione e lavoro ed oggetto di un'opzione, in virtù della quale il datore si riservava il diritto di decidere, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, se attivare o meno il vincolo anticoncorrenziale e, quindi, la correlativa controprestazione pecuniaria. Precisamente, l'opzione era stata accordata alla società datrice senza corrispettivo economico a favore del lavoratore, bensì unicamente "in considerazione della formazione professionale ricevuta", e con possibilità per la società di avvalersene mediante comunicazione scritta da trasmettersi al dipendente entro trenta giorni lavorativi dalla intervenuta cessazione del rapporto.

La società, entro il predetto termine, aveva comunicato al lavoratore di non voler avvalersi del patto di non concorrenza, negando, pertanto, il pagamento del relativo corrispettivo.

I Giudici del merito accoglievano la domanda del dipendente, dichiarando la nullità della clausola d'opzione e accertando, conseguentemente, il diritto del medesimo al compenso previsto per l'obbligo anticoncorrenziale.

La società proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra il resto, violazione e falsa applicazione dell'art. 1331 c.c., sull'assunto che il patto di opzione non altererebbe in alcun modo lo schema negoziale del patto di non concorrenza.

La Suprema Corte respinge la censura, affermando che la predetta clausola "comprime illegittimamente il potere negoziale del lavoratore" e "determina un inaccettabile squilibrio dei contrapposti interessi delle parti".

Anzitutto, a parere dei Giudici di legittimità, l'opzione sarebbe nulla in quanto celerebbe "l'intento fraudolento di vincolare il lavoratore, sin dalla data di assunzione, all'adempimento dell'obbligazione contenuta nel patto" di non concorrenza, peraltro senza prevedere alcun corrispettivo: difatti - argomenta la Cassazione - la "formazione professionale ricevuta", lungi dal costituire remunerazione dell'opzione, costituiva la causa stessa del contratto di formazione e lavoro. Sicché - conclude la Cassazione - la suddetta clausola di opzione non garantisce alcun corrispettivo a favore del lavoratore, con conseguente illecita sperequazione della posizione delle parti nell'ambito dell'assetto negoziale e violazione della natura contrattuale dell'opzione.

Sotto un ulteriore profilo - soggiunge la Corte - l'opzione de qua sarebbe invalida anche perché contravverrebbe allo schema tipico di cui all'art. 1331 c.c. Segnatamente, ai sensi della norma codicistica, la parte vincolata all'opzione non è affatto tenuta alla prestazione contrattuale finale finché la controparte non l'accetti, mentre nella specie il lavoratore concedente l'opzione si obbligava immediatamente, sin dalla stipulazione dell’opzione (ossia fin dalla conclusione del contratto di lavoro), non solo a mantenere ferma la dichiarazione, ma anche ad adempiere all'obbligazione finale, essendo ab initio impedito al dipendente di esercitare il suo diritto di scelta di ulteriori occasioni di lavoro.

 

Licenziamento per superamento del comporto

Cass. Sez. Lav. 5 aprile 2017, n. 8834

Pres. Nobile; Rel. Lorito; Ric. C.G.; Controric. P.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Diritto alla conservazione del posto - Malattia - Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Necessità di indicazione completa delle assenze nella lettera di licenziamento - Esclusione

Lavoro subordinato - Diritto alla conservazione del posto - Malattia - Comporto - Mutamento del titolo dell'assenza da malattia a ferie - Ammissibilità - Condizioni e limiti - Sussistenza di altri istituti che consentano di evitare la cessazione del rapporto - Possibilità per il datore di rifiutare le ferie - Sussistenza

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto non è assimilabile al licenziamento disciplinare, per cui solo impropriamente, riguardo ad esso, si può parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive come la determinazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato; tanto sul rilievo che l'onere di forma ha la funzione di individuare e cristallizzare la ragione giustificativa del provvedimento espulsivo, che nel caso è riferita ad un evento - l'assenza per malattia - di cui il lavoratore ha conoscenza diretta.

Il lavoratore assente per malattia e ulteriormente impossibilitato a riprendere servizio ha facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia. La descritta facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie da parte del lavoratore, non è incondizionata, non potendo configurarsi un obbligo a carico della parte datoriale di accedere a tale istanza allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto nell'ipotesi di superamento del periodo di comporto.

Nota

Nel caso in esame il lavoratore veniva licenziato per superamento del periodo di comporto nonostante avesse precedentemente richiesto di sostituire l’aspettativa per malattia prevista dal ccnl applicato al rapporto con un periodo di ferie. La richiesta del lavoratore di dichiarare illegittimo il licenziamento di cui sopra veniva respinta tanto in primo grado quanto in appello. I giudici territoriali, infatti, rilevavano che la richiesta del lavoratore era giunta quando lo stesso aveva ormai già usufruito integralmente tanto del congedo per malattia quanto dell’ulteriore periodo di dodici mesi di aspettativa non retribuita previsto dalla contrattazione collettiva.

Contro tale decisione ricorreva per Cassazione il lavoratore articolando vari motivi. In particolare e per quanto qui interessa, il lavoratore lamentava, da una parte, la mancata minuziosa indicazione nella lettera di licenziamento delle giornate di assenza e della loro collocazione temporale; dall’altra l’errore della Corte d’Appello nella misura in cui aveva sostenuto che per sospendere il decorso del periodo di comporto il lavoratore avrebbe dovuto mutare il titolo della sua assenza in ferie prima della scadenza del periodo di aspettativa per malattia.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati entrambi i motivi.

Quanto alla prima doglianza la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale "il licenziamento per superamento del periodo di comporto non è assimilabile al licenziamento disciplinare, per cui solo impropriamente, riguardo ad esso, si può parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive come la determinazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato; tanto sul rilievo che l'onere di forma ha la funzione di individuare e cristallizzare la ragione giustificativa del provvedimento espulsivo, che nel caso è riferita ad un evento - l'assenza per malattia - di cui il lavoratore ha conoscenza diretta".

Nessuna violazione del diritto di difesa del lavoratore né del principio d’immodificabilità delle ragioni del licenziamento è stata dunque ravvisata nel caso di specie.

Quanto alla seconda doglianza la Corte ha preliminarmente offerto un’approfondita disamina dei principi giurisprudenziali consolidati in merito alla possibilità di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie. In tale ambito la Corte ha affermato che "il lavoratore assente per malattia e ulteriormente impossibilitato a riprendere servizio ha facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia" e che il datore di lavoro "nell'esercizio del suo diritto alla determinazione del tempo delle ferie, deve attenersi alla direttiva conferitagli dalla legge ex art. 2109 c.c., comma 2, di armonizzare le esigenze aziendali con gli interessi del lavoratore, essendo tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore, in quanto esposto alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto". La Suprema Corte ha poi precisato che pur sussistendo in capo al lavoratore la descritta facoltà di sostituire al congedo per malattia un periodo di ferie, la stessa "non è incondizionata, non potendo configurarsi un obbligo a carico della parte datoriale di accedere a tale istanza allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto nell'ipotesi di superamento del periodo di comporto".

Tutto ciò posto la Suprema Corte ha rilevato che nel caso di specie la richiesta del lavoratore di sostituire le ferie alla malattia al fine di evitare il licenziamento fosse relativa ad un momento in cui il lavoratore aveva già esaurito tanto il periodo di comporto quanto l’ulteriore aspettativa per malattia prevista dalla contrattazione collettiva. Pertanto, confermando la decisione dei Giudici territoriali, la Suprema Corte ha affermato che l’effetto sostitutivo richiesto dal lavoratore non poteva verificarsi nel caso in esame, rigettando l’intero ricorso. 

 

Lesione dell’obbligo di fedeltà

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2017, n. 8131

Pres. Di Cerbo; Rel. Manna; P.M. Sanlorenzo; Ric. V.G.; Controric. C.E.G.M..

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del prestatore di lavoro - Obbligo di fedeltà - Contenuto - Integrazione con i principi di correttezza e buona fede - Necessità - Comportamenti extra lavorativi - Rilevanza - Fattispecie

L'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., integrato dai generali doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. nello svolgimento del rapporto contrattuale, deve intendersi come divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi o come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del dipendente nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Nella fattispecie in esame, la Suprema Corte ha ritenuto concretata la lesione dell’obbligo di fedeltà nello svolgimento di attività in concorrenza da parte di un giornalista che ha pubblicato su altra testata giornalistica i medesimi articoli scritti per il proprio datore di lavoro e riguardanti gli stessi eventi sportivi locali).

Licenziamento disciplinare - Giusta causa - Proporzionalità della sanzione - Criteri di giudizio.

Il giudice investito della domanda con cui si chieda l’invalidazione di un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve valutare se vi è proporzione tra l’infrazione commessa dal lavoratore e la sanzione irrogatagli. A tal fine, la proporzionalità della condotta va indagata sia in astratto (rispetto alle previsioni pattizie e alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo), sia in concreto, vale a dire in relazione alle singole circostanze oggettive e soggettive che l’hanno caratterizzata.

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c.. Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Campobasso, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare disposto nei suoi confronti dall’azienda per aver svolto attività concorrenziale. Trattasi, nello specifico, della pubblicazione su altro quotidiano dei medesimi articoli già redatti per conto del proprio datore di lavoro e riguardanti i medesimi avvenimenti sportivi.

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, dolendosi, in particolare che: a) la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto sussistente un rapporto concorrenziale tra le due testate giornalistiche, trascurando che le stesse operano su zone di mercato differenti; b) il giudizio di proporzionalità della sanzione operato dalla Corte di merito fosse viziato, per non aver tenuto conto, in concreto, di alcuni elementi, quali l’assenza di precedenti disciplinari a carico del lavoratore e la mancanza di pregiudizio all’azienda.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ribadendo i seguenti principi ormai consolidati: 1) l’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. va integrato con i principi generali di correttezza e buona fede sanciti dagli artt. 1175 e 1375 c.c. e, pertanto, deve intendersi, in senso più ampio, come divieto per il lavoratore di prestare la propria attività in favore di terzi concorrenti, o, comunque, come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del dipendente nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o siano comunque idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cass. 08/07/2015, n. 14249; Cass. 09/01/2015, n. 144; Cass. 14/03/2013, n. 6501); 2) la proporzionalità della condotta va accertato sia in astratto (rispetto alle previsioni pattizie e alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo), sia in concreto, vale a dire in relazione alle singole circostanze oggettive e soggettive che l’hanno caratterizzata (Cass. 17/07/2015, n. 15058; Cass. 13/02/2012, 2013).

La Suprema Corte ha osservato come correttamente la Corte di merito, in ossequio ai principi sopra esposti, abbia, con accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, in primis, ravvisato la sostanziale coincidenza dei bacini d’utenza delle due testate - e ciò non solo per la contiguità delle aree geografiche in cui le stesse operano, ma anche per l’identità del contenuto degli articoli, riguardanti gli stessi eventi sportivi locali - e, in secundis, accertato in concreto la gravità della condotta addebitata, tenuto conto di fattori quali: il lungo protrarsi nel tempo; l’assenza di informativa nei confronti dei superiori e l’utilità esclusivamente personale tratta da siffatta attività (nella quale non è stata investita altra energia lavorativa che non fosse stata già remunerata dal proprio datore di lavoro).

 

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2017, n. 8136

Pres. Bronzini; Rel. Manna; P.M. Celentano; Ric. C.B.; Contr. S. s.p.a.;

Licenziamento dirigente - Procedimento disciplinare - Applicabilità art. 7 l. 300/1970 - Lettera di licenziamento - Requisiti - Perfezionamento del licenziamento al momento dell’esternazione del relativo atto - Irrilevanza del momento in cui è stata presa la decisione di licenziare

Posto che il termine di 5 giorni previsto dall’art. 7, comma 5, l. 300/1970 ha il fine di consentire al lavoratore di far pervenire le giustificazioni a seguito della contestazione per iscritto dell’addebito disciplinare, non rileva il momento in cui si sia formato nel datore il proposito di licenziare il dipendente, ma quello dell’esternazione del relativo atto.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un caso di licenziamento, irrogato sì all’esito di un regolare procedimento disciplinare, ma rispetto al quale il dipendente era venuto in possesso di un documento che comprovava che la decisione di procedere al licenziamento era stata presa dai vertici societari prima ancora della ricezione delle giustificazioni (nella specie, un’e-mail indirizzata a un terzo).

Trattandosi di un dirigente, il Tribunale aveva accertato che il licenziamento era da ritenersi giustificato ai sensi del ccnl, sebbene non assistito da giusta causa (posta invece a fondamento del recesso), con conseguente diritto del lavoratore a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso. La Corte d’Appello aveva confermato le statuizioni di primo grado, condannando la Società a corrispondere altresì l’integrazione del TFR derivante dal diritto a percepire tale ultima indennità. Il dipendente proponeva ricorso per Cassazione lamentando, tra l’altro, violazioni di legge riguardanti il procedimento disciplinare (art. 7, l. 300/1970) e la disciplina degli atti unilaterali recettizi (artt. 1334 e 1335 c.c.); la Società resisteva e proponeva a sua volta ricorso incidentale.

La Cassazione, dopo aver ribadito il noto principio secondo cui le garanzie procedimentali di cui all’art. 7 l. 300/1970 si applicano anche al dirigente (coinvolto nel procedimento in esame), ha affermato che l’e-mail confidenziale, peraltro diretta ad un terzo e non al diretto interessato, con cui si preannunciava l’intenzione di licenziare il dipendente sottoposto a procedimento disciplinare, non può in alcun modo configurare un licenziamento (atto che, essendo stato adottato prima dell’esame delle giustificazioni, sarebbe stato affetto da nullità), atteso che la natura di quest’ultimo è recettizia e, dunque, lo stesso si perfeziona solo una volta giunto a conoscenza del destinatario. Peraltro, trattandosi di una comunicazione confidenziale, alla predetta e-mail, secondo i giudici di legittimità, non si può riconoscere natura né negoziale, né di atto giuridico in senso stretto.

Alla luce di ciò, la Cassazione afferma che "non rileva il momento in cui si sia formato nel datore il proposito di licenziare il dipendente, ma quello dell’esternazione del relativo atto", aggiungendo che "finché esso [ndr: l’intento di licenziare] non sia stato manifestato con atto avente efficacia esterna in quanto diretta al destinatario, non solo è inidoneo a risolvere il rapporto, ma è pur sempre superabile alla luce delle giustificazioni offerte nel corso del procedimento disciplinare".

Interessante appare anche la specificazione, resa incidenter tantum, che chiarisce che nelle imprese aventi natura societaria è ben possibile che il consiglio di amministrazione deliberi per il licenziamento di un dipendente sottoposto a procedimento disciplinare prima del decorso del termine, in favore del lavoratore, per rendere le giustificazioni, in quanto è sufficiente "che l’organo competente per l’adozione dell’atto con rilevanza esterna abbia provveduto dopo il decorso del termine medesimo".

La Corte, pertanto, ha confermato la sentenza di appello, rigettando sia il ricorso del lavoratore, sia quello incidentale della Società.

 

Lavoratrice disabile e sorveglianza sanitaria

Cass. Sez. Lav. 15 marzo 2017, n. 6771

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Celentano; Ric. C.C.; Contr. DMM S.p.A.;

Lavoratrice disabile - Sorveglianza sanitaria - Inidoneità alla mansione - Rifiuto di adempiere mansioni incompatibili con il suo stato - Legittimità

La lavoratrice disabile ha diritto di richiedere la sorveglianza sanitaria per l'accertamento della compatibilità delle mansioni assegnatele con il suo stato di salute; con la conseguenza che, in caso di accertata incompatibilità alle mansioni, è legittimo il suo rifiuto, ex art. 1460 c.c., ad adempierle.

Nota

Con ricorso presso il Tribunale di Urbino, una lavoratrice esponeva di essere stata avviata al lavoro ex L. 68/1999; di essere stata assunta da un'azienda come operaia addetta all'imballaggio; di essere stata adibita successivamente a mansioni non compatibili con il stato di salute; di essersi assentata dal lavoro in ragione del suo stato dal 18.11.2010 al 29.03.2011 e, una volta cessato il periodo di malattia, di aver chiesto di essere sottoposta a visita medica, visita che però le era stata negata in quanto, secondo il datore di lavoro, le mansioni espletate non erano soggette alla sorveglianza sanitaria di cui all'art. 41, D. Lgs. 81/2008, pertanto l'assenza era stata ritenuta ingiustificata con mancato pagamento delle retribuzioni da parte della società. La lavoratrice chiedeva, quindi, di essere riammessa in servizio con mansioni di operaia addetta all'imballaggio e che il datore di lavoro venisse condannato al pagamento delle retribuzioni ed al versamento dei contributi previdenziali per il periodo di malattia. Il Tribunale accoglieva le domande, condannando la società alla riammissione in servizio della lavoratrice, previa verifica sanitaria della idoneità alla mansione. La Corte di appello di Ancona, cui si era rivolta l'azienda, riformava la decisione, rigettando le originarie domande.

Avverso tale pronuncia la dipendente propone ricorso per cassazione, denunciando plurime violazioni e false applicazioni di legge.

In particolare, la lavoratrice lamenta la violazione dell'art. 41, commi 1 e 2, lett. e-ter) del D. Lgs. 81/2008, anche in relazione all'art. 10, L. 68/99, nella parte in cui la sentenza ha ritenuto non obbligatoria la sorveglianza sanitaria e, quindi, la visita medica, dopo un periodo di assenza superiore a 60 giorni, ma che la stessa fosse subordinata alla valutazione discrezionale del medico competente.

Inoltre la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2087 e 1460 c.c. e della Direttiva 89/391 CE che concerne l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori. A parere della ricorrente, dalla corretta interpretazione della disciplina nazionale e comunitaria, discendeva l'illegittimità delle mansioni affidatele e, quindi, ella coerentemente si era astenuta, ex art. 1460 c.c., dallo svolgimento dell'attività lavorativa.

La Cassazione accoglie il ricorso rilevando che erroneamente la Corte di appello non aveva valutato che la lavoratrice, circa un anno dopo il rientro (agosto 2012), era stata sottoposta a visita dal medico competente, con giudizio di inabilità alle mansioni assegnate, così implicitamente ammettendo sia la sottoponibilità della ricorrente alla vista sanitaria che la sua incompatibilità con le mansioni assegnate.

Pertanto, secondo la Cassazione, la sentenza di merito, aveva violato l'art. 10, L. 68/99, comma 2, secondo cui il datore di lavoro non può richiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni, e comma 3, che prevede che il disabile possa sempre richiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute. Inoltre, la sentenza doveva ritenersi in contrasto sia con la Direttiva Europea n. 89/391, secondo cui, all'art. 6, comma 1, il datore di lavoro deve adottare le misure necessarie per la protezione e sicurezza dei lavoratori, che con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata dall'Italia con L. 18/2009 che, all'art. 25, pone il divieto di discriminazioni sul lavoro in base alla disabilità e, all'art. 27, promuove il pieno inserimento nel lavoro delle persone affette da disabilità.

Alla luce di quanto affermato, la Suprema Corte cassa la pronuncia impugnata e rinvia alla Corte di appello di Bologna affinché accerti le conseguenze del diritto della lavoratrice al rifiuto di svolgere le mansioni per le quali era risultata inidonea.

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