Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo per cessazione di attività
Sullo svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia
Mansioni e patto di prova
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro
Nozione di lavoro subordinato


Licenziamento collettivo per cessazione di attività

Cass. Sez. Lav. 27 aprile 2017, n. 10422

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric. B. s.r.l.; Controric. G.G..

Licenziamento collettivo - Cessazione di attività - Comunicazione finale ex art. 4, c. 9 - Rispetto del termine di sette giorni per l’invio agli enti - Necessità - Violazione del termine - Conseguenza - Illegittimità del licenziamento - Regime sanzionatorio - Tutela indennitaria.

In ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività d'impresa, la violazione del termine di sette giorni per le comunicazioni di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, introdotto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 44, determina l'illegittimità del licenziamento e la sanzione del pagamento dell'indennità risarcitoria, per effetto dell'espresso richiamo dell'art. 24 della predetta legge all'art. 4 citato, operato al fine di consentire il controllo sindacale sull'effettività della scelta datoriale.

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di licenziamenti collettivi e lo ha fatto affermando, ancora una volta, il carattere cogente, ai fini della validità della procedura, del termine di sette giorni (introdotto dalla Legge Fornero) previsto per l’invio, agli enti regionali per l’impiego ed alle associazioni di categoria, della comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/91 (contenente l’elenco dei lavoratori licenziati e la descrizione delle modalità applicative dei criteri di scelta).

La peculiarità della fattispecie al vaglio della Suprema Corte è che la procedura di licenziamento collettivo è stata avviata per cessazione totale dell’attività produttiva ed azzeramento dell’intero organico. L’azienda ha fatto la comunicazione finale ma superando il termine di sette giorni. La Corte d’Appello napoletana, a conferma delle due precedenti pronunce di merito (fase sommaria e giudizio di opposizione) ha dichiarato illegittimo il licenziamento per violazione della procedura, con conseguente applicazione della tutela indennitaria di cui all’art. 18, c. 5, Stat. Lav..

Avverso la predetta sentenza l’azienda ha proposto ricorso per Cassazione, dolendosi, in particolare che: a) trattandosi di un licenziamento collettivo per cessazione totale di attività, il mero superamento del termine di sette giorni per l’inoltro della comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 non è di per sé idonea ad inficiare la validità dei recessi comminati ai lavoratori; b) ai sensi dell’art. 152 c.p.c., in assenza di una specifica disposizione di legge che espressamente qualifichi un termine come perentorio, lo stesso si deve intendere come ordinatorio.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, ribadendo la necessità di inviare la comunicazione finale nel termine di sette giorni anche nell’ipotesi di cessazione di attività - a cui, per espressa previsione dell’art. 24, c. 1, L. n. 223/1991, si applica la procedura prevista da detta legge - e ciò al fine di consentire il controllo sindacale sull'effettività della scelta datoriale (Cass. 22/11/2016 n. 23736). È stata, dunque, attraverso un’interpretazione rigorosa della disciplina, confermata ancora una volta la necessità del rispetto della procedura ai fini della legittimità dei licenziamenti collettivi.

 

Sullo svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia

Cass. Sez. Lav. 27 aprile 2017, n. 10416

Pres. Nobile; Rel. Leo; P.M. Matera; Ric. M.V.; Contr. C.I. s.r.l.;

Licenziamento - Lavoratore assente per malattia - Svolgimento di altra attività durante la malattia - Giusta causa di recesso - Ammissibilità - Condizioni

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, da valutarsi con giudizio ex ante in relazione al tipo di patologia e alle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Cassazione la Corte di appello di Roma, confermando la decisione resa dal Tribunale di Latina, respingeva la domanda avanzata da un lavoratore tesa ad ottenere l'accertamento della declaratoria di illegittimità del recesso per giusta causa intimatogli dal datore di lavoro per aver prestato attività lavorativa durante la sua assenza dovuta a malattia.

Il dipendente propone ricorso per cassazione denunciando la violazione degli artt. 2106, 2110 e 2119 c.c. in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato che, per la giurisprudenza di legittimità, l'eventuale svolgimento di attività lavorativa in costanza di malattia non è vietato qualora non pregiudichi il recupero delle energie psico-fisiche e nel caso di specie l'attività svolta non aveva ostacolato la guarigione del lavoratore.

La Cassazione respinge il ricorso rilevando che, come più volte affermato dalla sezione, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, da valutarsi con giudizio ex ante in relazione al tipo di patologia e alle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia (cfr. Cass. 17625/2014 e Cass. 21253/2012).

A parere dei giudici di legittimità la Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali princìpi laddove ha affermato che il lavoratore, che, assente per malattia, legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per questo deve astenersi da ogni altra attività, ma quest'ultima non solo deve essere compatibile con lo stato di malattia, ma deve essere altresì conforme ai doveri di correttezza e buona fede gravanti sul lavoratore. Nel caso di specie lo svolgimento di attività lavorativa presso una pizzeria, con servizio ai tavoli, così come accertato dall'attività investigativa svolta dal datore di lavoro, certamente è indice di scarsa attenzione del dipendente alla propria salute e ai relativi doveri di cura, considerato il tipo di patologia per la quale si era assentato (trauma contusivo al calcagno).

 

Mansioni e patto di prova

Cass. Sez. Lav. 13 aprile 2017, n. 9597

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. E.V. s.p.a.; Contr. D.A.R.;

Patto di prova - Mansioni - Determinazione per relationem con rinvio al contratto collettivo - Specificità del richiamo - Richiamo alla nozione più dettagliata - Necessità

Il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva può ritenersi sufficiente ad integrare il requisito della specificità dell’indicazione delle mansioni del lavoratore in prova solo se, rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna sulla questione della necessaria specificità delle mansioni oggetto del patto di prova.

Nel caso in esame, una lavoratrice assunta a mezzo collocamento obbligatorio aveva impugnato il recesso per mancato superamento del periodo di prova, lamentando l’illegittimità dello stesso per mancata determinazione e/o determinabilità delle mansioni da svolgere. In appello la lavoratrice aveva ottenuto l’accoglimento della domanda e avverso tale pronuncia la società ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte, accertato che nel contratto individuale le mansioni oggetto del prova erano state determinate per relationem mediante richiamo al contratto collettivo, ha altresì osservato che il predetto richiamo era da considerarsi generico. Ed infatti, alla stregua dell’articolazione interna del ccnl applicato, la locuzione "operatore ecologico di primo livello", riportata nel contratto di lavoro, non consentiva di riferirsi ad un determinato profilo professionale di derivazione collettiva.

Sul punto, se, da un lato, i giudici di legittimità hanno ribadito la possibilità di indicare le mansioni oggetto di prova per relationem, ovverosia mediante richiamo al ccnl, dall’altro, hanno ribadito la necessità assoluta che tale richiamo sia specifico e consenta, in ogni caso, di determinare compiutamente le mansioni affidate al lavoratore. In particolare, nei casi - come quello in esame - in cui il ccnl abbia un’articolazione interna in categorie, qualifiche, livelli, profili professionali ecc., il richiamo, per essere specifico, deve essere fatto alla nozione più dettagliata: ossia, alla declaratoria che non sia articolata ulteriormente al suo interno.

Pertanto, il richiamo al ccnl deve essere rivolto ad una nozione di specificità tale da consentire ex ante la conoscibilità delle mansioni in concreto affidate al lavoratore in prova.

In relazione all’invalidità presentata dalla lavoratrice, infine, la Cassazione afferma che tale condizione impone che la valutazione giudiziale della specificità del patto di prova debba essere ancor più rigorosa, trattandosi di soggetti la cui assunzione è imposta dalla legge.

Sulla base delle osservazioni che precedono, la S.C. ha respinto il ricorso della società.

 

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 21 aprile 2017, n. 10145

Pres. Bronzini; Rel. Leo; Ric. M.C.; Controric. M.G. S.r.l. e C.A.S.C.A.R.L.;

Lavoro - Lavoro Subordinato - Infortunio sul luogo di lavoro - Responsabilità del Datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Colpa e nesso causale - Responsabilità contrattuale per omissione - Prova liberatoria - Adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche - Onere della prova.

La responsabilità del datore di lavoro, in caso d’infortunio occorso durante lo svolgimento della prestazione di lavoro, discende tanto dalla mancata adozione delle specifiche misure e dei presidi imposti dalle norme antinfortunistiche quanto dalla violazione della clausola generale dell’art. 2087 c.c., in forza della quale grava sul datore l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, adottando ogni più opportuna cautela in relazione alle peculiarità dell’ambiente di lavoro e delle lavorazioni svolte dai dipendenti.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce i presupposti per l’imputazione in capo al datore di lavoro della responsabilità risarcitoria per gli infortuni occorsi ai dipendenti durante lo svolgimento della prestazione di lavoro: tale responsabilità discende, alternativamente, dalla mancata predisposizione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore previste da norme specifiche ovvero dalla violazione della norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., giusto la quale il datore è tenuto ad adottare tutte le cautele che, secondo la comune esperienza, e ancorché non prescritte da norme antinfortunistiche, siano atte a preservare l’integrità psico-fisica dei lavoratori, in particolare nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa.

Nel caso di specie, un dipendente addetto alla lavorazione della ceramica riportava un infortunio a causa della caduta da una scala, inserita in un ambiente lavorativo caratterizzato - per il tipo di lavorazioni compiute - dalla costante presenza, ritenuta fonte di specifico pericolo, di acqua sul pavimento nonché sui macchinari e gli attrezzi di lavoro.

A fronte di tale contesto lavorativo, il datore si era limitato a predisporre dispositivi di protezione consistenti in calzature anti-sdrucciolo, oltre all'organizzazione di corsi di formazione sulla sicurezza.

La Corte territoriale, confermando la decisione di primo grado, aveva escluso la responsabilità del datore e rigettato la richiesta risarcitoria dei danni patrimoniali e non patrimoniali del lavoratore sull'assunto che quest'ultimo non avesse fornito la prova della "causa specifica dello scivolamento e, quindi, la colpa del datore di lavoro".

Il dipendente proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, in particolare, che la sentenza di appello avrebbe sovvertito gli oneri della prova in tema di risarcimento del danno per infortunio sul lavoro, imponendo al dipendente di dimostrare la causa dell’infortunio e la riconducibilità di questo alla colpa del datore. In tal modo, censura ulteriormente il ricorrente, la Corte avrebbe omesso di valutare l’omesso adempimento da parte del datore degli oneri di tutela e sicurezza imposti dalle norme antinfortunistiche e dall’art. 2087 c.c.

La Suprema Corte accoglie il ricorso, confermando, anzitutto, la lettura estensiva dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro un obbligo di tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore che "non si esaurisce "nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico", ma attiene anche - e soprattutto - alla predisposizione di "misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro, anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio"".

Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte d'Appello sia incorsa in errore allorché ha omesso di valutare la circostanza che il datore non avesse fornito la prova liberatoria di aver adottato tutte le opportune misure di prevenzione, in relazione alla concreta realtà aziendale e ai potenziali fattori di rischio individuabili sulla base delle conoscenze tecnico - scientifiche acquisite al tempo dell’infortunio, a nulla rilevando, peraltro, che il lavoratore non fosse stato in grado di allegare e provare l’eziologia dell’infortunio: l’art. 2087 c.c. - soggiunge la Cassazione - introduce una responsabilità contrattuale per omissione che discende, automaticamente, dalla mancata adozione da parte del datore di tutte le misure utili per impedire il verificarsi dell’evento dannoso.

In conclusione, affermano i Giudici di legittimità, sussiste il "nesso causale tra l’infortunio occorso al M.C. e l’attività svolta dallo stesso in un ambiente in cui, per la scivolosità del pavimento e degli strumenti connessi all’attività lavorativa, causata dal particolare tipo di lavorazione, era altamente probabile che, non adottando ogni cautela prescritta, si verificassero eventi dannosi per il personale". 

 

Nozione di lavoro subordinato

Cass. Sez. Lav. 10 aprile 2017, n. 9157

Pres. Mammone; Rel. Doronzo; Ric. C.E.D.CI. & C. S.a.s.; Controric. INPS+2;

Lavoro subordinato - Accertamento relativo - Riferimento alla specificità dell'incarico e alle modalità della sua attuazione - Peculiarità delle mansioni - Mansioni elementari - Utilizzabilità di criteri complementari e sussidiari - Necessità - Condizioni e limiti

Lavoro subordinato - Subordinazione - Accertamento relativo - Nomen iuris - Rilevanza e limiti - Concrete modalità di svolgimento del rapporto - Rilevanza

Ove l'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni - come ad esempio in presenza di mansioni elementari, ripetitive, predeterminate nelle modalità d'esecuzione, che per ciò solo non richiedono un potere direzionale costante del datore di lavoro - occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario predeterminato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale. Tali elementi, privi ciascuno di valore decisivo, possono e debbono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione.

In tema di accertamento della natura subordinata del rapporto, pur avendo indubbio rilievo nomen iuris che le parti hanno dato al contratto, occorre tuttavia accertare se lo schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se questa si sia svolta con lo schema della subordinazione

Nota

Nel caso in esame la società datrice di lavoro, a seguito di accertamento svolto dall’INPS e dalla DTL competente, si vedeva recapitare cartelle di pagamento relative a contributi previdenziali e premi assicurativi per alcuni lavoratori, formalmente inquadrati come co.co.co, co.co.pro. e occasionali, ma per i quali era emersa la natura subordinata del rapporto.

I lavoratori in esame svolgevano mansioni particolarmente elementari e ripetitive consistenti nella consegna di giornali sulla base di tabulati, modalità e turni predisposti dalla società.

Le impugnazioni proposte dalla datrice di lavoro venivano rigettate tanto in primo quanto in secondo grado.

Contro la decisione di appello la datrice di lavoro ricorreva in Cassazione articolando vari motivi. In particolare, per quanto qui interessa, la società sosteneva violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod.civ. per aver dato la Corte territoriale rilievo ad indici secondari della subordinazione e non, invece, al vincolo di assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. La società, inoltre, censurava la sentenza della Corte d’Appello per omessa motivazione in ordine al nomen iuris dato dalle parti al rapporto controverso.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati tutti i motivi d’impugnazione proposti e rigettato l’intero ricorso.

Quanto alla prima doglianza, infatti, la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale "ove l'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni - come ad esempio in presenza di mansioni elementari, ripetitive, predeterminate nelle modalità d'esecuzione, che per ciò solo non richiedono un potere direzionale costante del datore di lavoro - occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario predeterminato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale. Tali elementi, privi ciascuno di valore decisivo, possono e debbono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione".

Quanto alla seconda doglianza la Corte ha osservato che "con riguardo al nomen iuris che le parti hanno dato al contratto, pur avendo esso indubbio rilievo, occorre tuttavia accertare se lo schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se questa si sia svolta con lo schema della subordinazione".

In conclusione, secondo la Corte di Cassazione, la Corte territoriale avrebbe fatto corretta applicazione dei principi di cui sopra nel caso in esame, avendo ritenuto - sulla base delle risultanze istruttorie - che le mansioni di consegna dei giornali, svolte su turni e tabulati predeterminati nonché vincolate rispetto al numero delle copie da consegnare, alle modalità e agli orari di consegna, avevano natura meramente esecutiva ed erano carenti di ogni forma si autonomia organizzativa. Indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, dunque, tali rapporti sono stati ritenuti di lavoro subordinato.

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