Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Dirigenti e durata minima garantita del rapporto
Licenziamento di dirigente/1
Licenziamento di dirigente/2
Accertamento della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro
Sul cambio appalto


Dirigenti e durata minima garantita del rapporto

Cass. Sez. Lav.  9 giugno 2017, n. 14457

Pres. Nobile; Rel. Spena; P.M. Ghersi; Ric. 3.V.T.E.&.P.S. S.p.A.; Controric. M.B.;

Rapporto di lavoro subordinato - Patto di stabilità - Durata minima garantita nell’interesse del datore di lavoro - Penale a carico del dipendente in caso di inadempimento - Liceità - Necessità di corrispettivo specifico - Esclusione.

Fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso ai sensi dell'art. 2119 c.c., nessun limite è posto dall'ordinamento all'autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché limitata nel tempo, che comporti il risarcimento del danno in favore del datore di lavoro nella ipotesi di mancato rispetto del periodo minimo di durata. A fronte della stipulazione di un patto di stabilità nell’interesse del datore di lavoro è necessario un corrispettivo a favore del lavoratore che può essere liberamente stabilito dalle parti e consistere nella reciprocità dell'impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore.

Nota

Un’azienda stipulava un contratto di lavoro con un dirigente con un patto di stabilità in forza del quale quest’ultimo non avrebbe potuto recedere dal rapporto prima del termine pattuito. A seguito delle dimissioni del dirigente avvenute nel periodo di durata minima garantita, il datore di lavoro otteneva dal Tribunale di Bergamo un decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento della penale pattuita in caso di inadempimento del lavoratore al patto di stabilità.

In accoglimento dell’opposizione promossa dal dirigente, il Tribunale dichiarava la nullità della clausola di durata minima garantita nell'interesse del datore di lavoro, non essendo previsto alcun corrispettivo specifico a favore del lavoratore a fronte della limitazione del suo diritto di recesso. Tale decisione veniva confermata anche dalla Corte d’Appello di Brescia.

L’azienda ricorreva in Cassazione e il dirigente resisteva con controricorso.

Il datore di lavoro lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 e ss., 2099 e 2118 c.c. nella parte in cui la Corte territoriale aveva affermato che ogni limitazione, nell’interesse aziendale, di una libertà del lavoratore doveva trovare un corrispettivo economico. L’azienda deduceva invece che la corrispettività doveva essere apprezzata rispetto al complesso degli obblighi e diritti nascenti dal contratto di lavoro e non alle singole clausole.

La Corte di Cassazione, innanzitutto, ha ribadito il principio di diritto (già affermato in Cass. 18122/2016; Cass. 17010/2014; Cass. 17817/2005 e Cass. 18547/2009) secondo cui, fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso nelle quali viene in rilievo la norma inderogabile di cui all’art. 2119 c.c., l'ordinamento non pone alcun limite all'autonomia privata di disciplinare la facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore e che, pertanto, è legittima la pattuizione di una clausola di durata minima garantita del rapporto, purché limitata nel tempo, con conseguente diritto del datore di lavoro al risarcimento del danno derivante dal mancato rispetto del periodo minimo di durata. Peraltro, il c.d. patto di prova risponde al legittimo interesse datoriale di assicurare la continuità della prestazione in vista di un programma aziendale per la cui realizzazione ritenga utile l’apporto di quel lavoratore.

La Suprema Corte, nell’affrontare la questione della necessità di un corrispettivo dell’impegno del dipendente di non recedere per il periodo oggetto del patto di stabilità, ha affermato che il lavoratore subordinato non può liberamente disporre del diritto, inderogabilmente sancito dall’art. 36 Cost, ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, con la conseguenza che, qualora il trattamento retributivo pattuito non sia superiore al minimo tabellare previsto dal CCNL, detta retribuzione non può in alcun modo compensare la temporanea rinunzia del lavoratore alla sua facoltà di recesso. Pertanto, la Corte ha concluso che al lavoratore è dovuto un corrispettivo della limitazione della sua facoltà di recesso, affinché non venga inciso il minimo costituzionale dovutogli quale corrispettivo proporzionato alla quantità e qualità della sua prestazione lavorativa.

La corrispettività, tuttavia, deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale di ciascuna parte, in applicazione del principio generale secondo cui, nei rapporti a prestazioni corrispettive, la reciprocità dell'impegno non deve essere valutata atomisticamente, cioè come contropartita dell’assunzione di ogni singola obbligazione, bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni.

La Corte di Cassazione ha quindi affermato che, nell'equilibrio delle posizioni contrattuali, il corrispettivo della clausola di durata minima garantita nell'interesse del datore di lavoro è sì necessario, ma può essere liberamente stabilito dalle parti e può consistere nella reciprocità dell'impegno di stabilità assunto dalle parti oppure in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, come una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore. A conferma di tale conclusione, è stato sottolineato che la necessità di un corrispettivo specifico, in deroga al suddetto principio generale, viene espressamente prevista solo ove ritenuta necessaria, come nel caso dell’art. 2125 c.c. per il patto di non concorrenza.

In conclusione, la sentenza è stata cassata con rinvio per non aver valutato la reciprocità degli impegni rispetto alla complessiva posizione contrattuale.

 

Licenziamento di dirigente/1

Cass. Sez. Lav. 8 giugno 2017, n. 14302

Pres. Di Cerbo; Rel. Bronzini; P.M. Fresa; Ric. B.D.M. s.p.a.; Controric. P.G.;

Licenziamento - Dirigente - Giustificatezza - Nozione - Valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso - Sufficienza - Necessità di rigorosa prova della fondatezza delle contestazioni e della loro idoneità ad incrinare il rapporto fiduciario - Insussistenza

Considerata la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento ex art. 1 della legge n. 604 del 1966; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. La valutazione dell'idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione.

Nota

La sentenza concerne un articolato caso di risoluzione del rapporto di lavoro con un dirigente apicale da parte di un noto istituto bancario trovatosi coinvolto, anche in seguito alle condotte contestate al dirigente, in un clamoroso caso di insolvenza.

Per quanto qui specificamente interessa i giudici del merito hanno ritenuto ingiustificato il licenziamento condannando la banca al pagamento del preavviso e dell’indennità supplementare.

Avverso tale decisione l’istituto ha proposto ricorso per cassazione ed il dirigente ha, a sua volta, proposto ricorso incidentale.

La Suprema Corte, nell’accogliere il secondo motivo del ricorso principale, afferma il principio di cui alla massima, già enunciato in numerosi specifici precedenti (tra le tante Cass. 19 agosto 2005, n. 17039) ricordando anche che, ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, è rilevante qualsiasi motivo che lo sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, atteso che non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza di poteri attribuiti al dirigente (Cass. 27 marzo 2014, n. 6110; Cass. 11 giugno 2008, n. 15496).

Alla strega di tali principi, secondo la Suprema Corte i giudici del merito non hanno compiuto una corretta valutazione, mal identificando le caratteristiche della nozione di giustificatezza, la quale richiede, appunto, solo l’accertamento della non arbitrarietà del recesso. La Corte d’Appello ha, invece, trattato la vicenda alla stregua di un recesso per giusta causa di un dipendente in generale e non già di un dirigente apicale, in tal modo allontanandosi dalle consolidate affermazioni della giurisprudenza di legittimità. Peraltro, aggiunge la Cassazione, in tale analisi i giudici del merito hanno totalmente trascurato di dare il giusto peso alle specifiche mansioni svolte dal dirigente apicale, responsabile della valutazione dei rischi delle operazioni bancarie e le cui errate stime - oggetto della contestazione - hanno portato al tracollo economico dell’istituto.

La Suprema Corte accoglie, pertanto il secondo motivo di ricorso, ritiene assorbiti gli altri nonchè il ricorso incidentale e cassa con rinvio.

 

Licenziamento di dirigente/2

Cass. Sez. Lav. 6 giugno 2017, n. 13988

Pres. Di Cerbo; Rel. Curcio; P.M. Mastroberardino; Ric. T.F.; Controric. C.E.D.P.D.R.C.;

Dirigente - Licenziamento per raggiungimento del 65° anno di età - Risoluzione automatica - Non sussiste

Recesso con effetto immediato - Preavviso - Natura obbligatoria - Pagamento indennità sostitutiva del preavviso - Malattia - Sospensione decorrenza del preavviso - Non sussiste

Alla stregua di una interpretazione letterale e logico- sistematica dell'art. 2118 cod. civ., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale ma ha efficacia obbligatoria, con la conseguenza che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti; a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso.

Nota

Il Tribunale di Reggio Calabria, previa declaratoria di illegittimità del recesso disposto dalla datrice di lavoro al compimento del 65° anno di età del dipendente con qualifica di dirigente, condannava la datrice di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare.

La Corte di Appello di Reggio Calabria, accogliendo il motivo di gravame formulato dalla datrice di lavoro avverso la sentenza di primo grado, in parziale riforma di tale pronuncia dichiarava la legittimità del recesso, osservando che non era consentito al dipendente, oramai 65° enne, di avvalersi dell’opzione prevista dall’art. 16 del D.Lgs. n. 503/1992 di restare in servizio sino al compimento del 67° anno di età, essendo detta norma applicabile soltanto ai dipendenti dello Stato e degli enti pubblici non economici, e condannava la datrice al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso. La Corte territoriale rilevava che lo stesso CCNL dirigenti aziende industriali prevedeva quale ipotesi di recesso datoriale il raggiungimento dell’età pensionabile per gli uomini di 65 anni (art. 22 ccnl) e la corresponsione, anche in tal caso, dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Avverso tal pronuncia proponeva ricorso il lavoratore sulla base di quattro motivi.

In particolare, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 22 del CCNL dei dirigenti imprese industriali sostenendo che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto sussumibile il recesso operato dalla datrice di lavoro nella fattispecie di cui alla succitata previsione contrattuale. Secondo quanto sostenuto dal ricorrente il CCNL dei dirigenti industria non prevedeva espressamente, quale condizione estintiva del rapporto di lavoro, il raggiungimento dei requisiti contributivi o anagrafici, limitandosi a stabilire l’inapplicabilità, nei confronti del dirigente che avesse compiuto il 65° anno di età, delle procedure disciplinate nel citato art. 22 per le ipotesi di risoluzione del rapporto, fatto salvo l’obbligo di motivazione di cui al comma 1° della medesima disposizione. Il ricorrente sosteneva, altresì, che quand’anche volesse ritenersi che l’art. 22 contenesse una clausola automatica di risoluzione del rapporto, la stessa doveva considerarsi nulla, non potendo determinare di per sé la cessazione del rapporto, come da orientamento costante della giurisprudenza di legittimità.

Inoltre, il ricorrente impugnava la sentenza di primo grado nella parte in cui la Corte territoriale, sul presupposto della natura obbligatoria e non reale del preavviso, non aveva considerato i periodi di malattia per assenze discontinue ai fini della sospensione della decorrenza del termine di preavviso.

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

In primo luogo, la Suprema Corte rilevava che la Corte territoriale aveva correttamente interpretato il disposto di cui all’art. 22 del CCNL di settore laddove aveva ritenuto che, fatta eccezione per la comunicazione per iscritto del recesso, le restanti disposizioni previste dalla medesima norma (quali ad esempio quella che prevedeva l’obbligo di comunicazione contestuale della motivazione del recesso) non si applicavano in caso di risoluzione del rapporto di lavoro nei confronti del dirigente che fosse in possesso dei requisiti di legge per aver diritto alla pensione di vecchiaia o che avesse comunque superato il 65° anno di età (60° se donna). La Suprema Corte precisava, altresì, che pur dovendosi escludere una risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento di una determinata età o in caso di possesso dei requisiti pensionistici, senza obbligo di preavviso e di erogazione di corrispondente indennità di preavviso (così Cass. 17 aprile 2015, n. 7899; Cass. 22 luglio 2002, n. 10713), in tali ipotesi - tra le quali rientrava quella di causa - non era in alcun modo richiesta una diversa ed aggiuntiva ragione obiettiva a sostegno del recesso datoriale.

Con riferimento all’indennità sostitutiva del preavviso, la Suprema Corte, premessa la natura obbligatoria del preavviso, rilevava che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti; a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso (cfr. Cass. 4 novembre 2010, n. 22443).

Con specifico riferimento al caso in esame, la Suprema Corte ha osservato che il periodo di preavviso non è stato lavorato in quanto la datrice ha esercitato la facoltà di recedere con effetto immediato, con la conseguenza che i periodi di malattia non avrebbero potuto posticipare la scadenza del termine e quindi il periodo di preavviso. 

 

Accertamento della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 8 giugno 2017, n. 14296

Pres. Nobile; Rel. Leo; P.M. Ceroni; Ric. S.A.; Controric. F.L.

Lavoro subordinato - Lavoro autonomo - Qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato - Esercizio del potere organizzativo del datore - Necessità -- Dati fattuali - Modalità di svolgimento della prestazione - Accertamento del giudice - Necessità

Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto.

Nota

La Corte di Appello di Reggio Calabria, accoglieva il ricorso proposto dalla lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale e dichiarava che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato condannando la società al pagamento delle differenze retributive.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione la società contestando alla Corte di aver omesso di valutare la volontà delle parti al momento della sottoscrizione del contratto e che tutto il rapporto si era svolto compatibilmente con la disciplina del lavoro autonomo.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Infatti, per la Cassazione, l'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da valutare attraverso un accertamento compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.

In particolare, mentre la subordinazione implica l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale mediante la messa a disposizione delle proprie energie lavorative ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo, nel lavoro autonomo l'oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell'attività.

Inoltre, insiste la Cassazione, l'elemento tipico che contraddistingue i due rapporti, è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro; mentre, altri elementi - come l'assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione - possono avere solo valore indicativo potendo in astratto conciliarsi sia con l'una che con l'altra qualificazione del rapporto.

Con particolare riguardo alla censura mossa dalla società, la Cassazione precisa anche che il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione.

Tutto ciò premesso, deve osservarsi che secondo la Cassazione nel caso di specie la Corte di merito ha correttamente statuito dopo aver esaminato gli elementi che qualificano la subordinazione ritenendo necessario valutare, stante le caratteristiche dell’attività svolta dalla lavoratrice, non solo la sussistenza del potere direttivo della società ma anche tutti i criteri sussidiari dai quali era emerso che la lavoratrice era tenuta a rispettare un orario di lavoro stabilito dalla società che forniva la gran parte dei mezzi e delle strutture per l'espletamento del proprio lavoro. 

 

Sul cambio appalto

Cass. Sez. Lav. 25 maggio 2017, n. 13179

Pres. Napoletano; Rel. Curcio; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. D.L.V. + altri; Controric. S. S.p.A;

Lavoro Subordinato - Cambio appalto - Passaggio alle dipendenze del nuovo appaltatore - Art. 32 L. 183/2010 - Decadenza - Applicabilità - Esclusione - Fattispecie

Il termine di decadenza di cui all’art. 32, L. 183/2010 non è applicabile in caso di cambio appalto, poiché tale fattispecie non rientra né nella previsione di cui al comma 4, lettera c) dell’art. 32, che riguarda solo il caso di trasferimento d’azienda, né in quella di cui alla lettera d), che riguarda solo le ipotesi di somministrazione irregolare, appalti illegittimi, violazione delle norme sul distacco e tutte quelle altre tipologie in senso lato interpositorie che possono realizzarsi.

Nota

Il caso di specie riguarda l’applicabilità del termine di decadenza previsto dall’art. 32, L. 183/2010 all’ipotesi di cambio di appalto, che, secondo alcuni contratti collettivi, può comportare il passaggio dei lavoratori dipendenti del precedente appaltatore alle dipendenze dell’appaltatore subentrante.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello rigettavano la domanda promossa da alcuni lavoratori che chiedevano l’accertamento del loro diritto al passaggio alle dipendenze della società subentrata nell’appalto, accogliendo l’eccezione formulata dalla società convenuta di avvenuta decadenza, ai sensi dell’art. 32 legge cit., a causa della mancata impugnazione da parte dei lavoratori nei termini di cui all’art. 6, L. 604/1966 e cioè entro 60 giorni dalla ricezione della lettera di licenziamento.

In particolare, la Corte d’Appello affermava che, in caso di cambio di gestione dell’appalto, l’azione per l’accertamento del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante rientrasse nella fattispecie di cui all’art. 32, legge cit., in particolare nell'ipotesi di cui al comma 4 lettera d), trattandosi di una domanda diretta ad accertare e a costituire il rapporto di lavoro nei confronti di un soggetto diverso dal precedente titolare del rapporto. Conseguentemente, i lavoratori erano soggetti al termine di impugnazione di 60 giorni; quanto al dies a quo per il computo del termine di decadenza, questo veniva individuato dalla Corte nel giorno dell’avvenuta comunicazione del licenziamento da parte dell’impresa datrice di lavoro che cessava il contratto di appalto.

Comunque la Corte riteneva che la fattispecie avrebbe potuto anche ricondursi all'ipotesi di cui al comma 4 lettera c), dell'art. 32, che si riferisce alla cessione di contratto di lavoro ai sensi dell’art. 2112 c.c..

Ricorrono per cassazione i lavoratori deducendo che il cambio appalto non sarebbe soggetto al termine decadenziale di cui all’art. 6 L. 604/1966, non rientrando nelle fattispecie previste dall’art. 32 della L. 183/2010.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato statuendo che il cambio d’appalto non può ritenersi riconducibile alle fattispecie previste dal comma 4 lettera d) dell’art. 32, in quanto tale norma si riferisce solo alle ipotesi di somministrazione irregolare, appalti illegittimi, violazione delle norme sul distacco e comunque a tutte quelle altre tipologie in senso lato interpositorie che possono realizzarsi, come ad esempio nell'ambito di gruppi societari che nascondono un’unicità d’impresa.

Nelle fattispecie previste da tale norma si è, infatti, in presenza di atti posti in essere dal datore di lavoro ai quali il lavoratore si oppone, invocando la natura irregolare o fraudolenta del contratto formale e rivendicando l'accertamento del rapporto in capo all'effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa e dunque del reale datore di lavoro.

Nel caso di cambio di appalto, invece, non si è in presenza di alcuna azione diretta a contrastare fenomeni interpositori, trattandosi di un semplice avvicendamento nella gestione di un appalto di servizi, disciplinato in maniera articolata e puntuale da diversi contratti collettivi.

Né può ritenersi che il caso di specie rientri nella previsione di cui al comma 4 lettera c) dell’art. 32, che si riferisce chiaramente ai casi di trasferimento d’azienda, visto l’esplicito richiamo all’art. 2112 c.c., che è fattispecie ben diversa dalla cessione del contratto di un singolo lavoratore. Tale deduzione, del resto, contrasterebbe con quanto previsto dall'art. 29 comma 3° D.lgs n.276/2003 (quanto meno nella vecchia formulazione in vigore all'epoca dei fatti di causa), secondo cui si esclude espressamente che l'acquisizione, nell'impresa subentrante nell’appalto, di personale già impiegato dal precedente appaltatore, possa costituire trasferimento d’azienda.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

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