Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Subordinazione in caso di prestazioni di natura intellettuale
Patto di prova e specificità delle mansioni
Licenziamento per superamento del periodo di comporto/1
Licenziamento per superamento del periodo di comporto/2
Impugnazione di licenziamento


Subordinazione in caso di prestazioni di natura intellettuale

Cass. Sez. Lav. 6 luglio 2017, n. 16681

Pres. Nobile; Rel. Spena; P.M. Ceroni; Ric. M.V. e M.F.; Intimata C.S..

Autonomia/Subordinazione - Rivendicazione natura subordinata - Prestazioni intellettuali - Subordinazione attenuata - Accertamento - Criteri - Elementi sussidiari - Individuazione - Necessità

In caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro, ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato oppure autonomo, sia pure con collaborazione coordinata e continuativa, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato mediante il ricorso ad elementi sussidiari fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto, che il giudice deve individuare in concreto (Nel caso di specie la Corte ha ritenuto dimostrato i tratti essenziali della subordinazione - quali l'inserimento stabile nell’organizzazione scolastica, la mancanza di rischio economico, il rispetto degli orari e la sostituzione di colleghi assenti - di una lavoratrice che ha svolto attività di docente di materie letterarie per diversi anni scolastici).

Nota

La fattispecie al vaglio della Corte attiene ad un giudizio instaurato per il riconoscimento della natura subordinata del rapporto da una lavoratrice che deduceva di aver svolto attività di docente in via continuativa, dall’anno scolastico 1995/96 all’anno scolastico 2003/2004, e chiedeva la condanna dei datori di lavoro al pagamento delle differenze retributive e del TFR.

La Corte d’Appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda della docente, premettendo non essere decisivo il nomen iuris adottato dalle parti nei contratti conclusi per alcuni anni scolastici e ritenendo sussistente la natura subordinata del rapporto di lavoro sulla base dei seguenti indici: rispetto degli orari, accompagnamento degli alunni in viaggi e gite scolastiche su richiesta della presidenza, partecipazione alle riunioni dei docenti ed ai colloqui con i genitori in orari prestabiliti, sostituzione dei colleghi assenti, la mancata assunzione del rischio di impresa.

Avverso la predetta sentenza, i datori di lavoro hanno proposto ricorso per cassazione, contestando, sotto vari profili, la sentenza di merito nella parte in cui avrebbe ritenuto significativi della subordinazione indici meramente "sussidiari", senza tener conto che dallo stesso interrogatorio formale della lavoratrice erano emersi elementi che denotavano l’assoluta mancanza di un potere direttivo inerente allo svolgimento intrinseco della prestazione (id est: l’assenza di una programmazione didattica organizzata a livello centrale e di un attività di vigilanza sulla didattica e verifica dei risultati; il mancato esercizio del potere disciplinare; la non obbligatorietà della partecipazione ad eventuali riunioni del corpo docente o con le famiglie; la non esclusività del rapporto di lavoro, che veniva adattato ad eventuali incarichi di supplenza conferiti dalla scuola pubblica; la assenza di obblighi di reperibilità e di sostituzione di colleghi assenti; lo svolgimento di un orario di insegnamento ridotto rispetto a quello ordinario di 18 ore settimanali ed il difetto di prestazioni ulteriori rispetto a quella propriamente didattica).

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, avendo osservato come la Corte di merito - nel dare rilievo a tutti gli elementi volti a dimostrare lo stabile inserimento dell’attività della docente nell’ambito della organizzazione scolastica (a prescindere dall’effettivo esercizio del potere direttivo circa le modalità di espletamento della prestazione lavorativa) - abbia fatto corretta applicazione del principio costantemente affermato in giurisprudenza (v. ex plurimis Cass. 30/01/2014, n. 2056; Cass. 13/04/2012, n. 5886) secondo cui in caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice deve individuare in concreto.

 

Patto di prova e specificità delle mansioni

Cass. Sez. Lav. 5 luglio 2017, n. 16587

Pres. Nobile; Rel. Spena; P.M. Ceroni; Ric. B. s.r.l.; Contr. S.N.;

Patto di prova - Mansioni - Determinazione per relationem con rinvio al contratto collettivo - Specificità del richiamo - Richiamo alla nozione più dettagliata - Necessità

Il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a dover risultare da atto scritto, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto, la quale può essere operata anche per relationem alle declaratorie del contratto collettivo che definiscano le mansioni comprese nella qualifica di assunzione e sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico. E ciò, non già in virtù di un semplice riferimento alla categoria lavorativa prevista dal contratto collettivo che permetta l’assegnazione del lavoratore ad uno dei plurimi profili rientranti in esso, ma dovendo il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva, per essere sufficiente ad integrare il requisito di specificità dell’indicazione delle mansioni del lavoratore in prova, essere fatto mediante il richiamo alla nozione più dettagliata alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna sulla questione della necessaria specificità delle mansioni oggetto del patto di prova.

Nel caso in esame, un lavoratore assunto a mezzo collocamento obbligatorio aveva impugnato il recesso per mancato superamento del periodo di prova, lamentando l’illegittimità dello stesso per mancata determinazione e/o determinabilità delle mansioni da svolgere. In appello il lavoratore aveva ottenuto l’accoglimento della domanda, con condanna alla reintegrazione e al pagamento delle mensilità retributive medio tempore maturate. Avverso tale pronuncia la società ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte, premesso che l’accertamento sull’eventuale genericità del patto di prova apposto al contratto di lavoro è attività riservata al giudice di merito, ha confermato la sentenza di appello, ritenendola correttamente applicativa del principio di diritto secondo cui "Il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a dover risultare da atto scritto, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto"; nondimeno, come avvenuto nel caso in esame, la Cassazione consente che le mansioni oggetto del patto di prova vengano indicate per relationem, ossia mediante richiamo alle declaratorie contenute nel contratto collettivo, ma solo a condizione che tale richiamo sia sufficientemente specifico. Sul punto, la Corte ribadisce che il riferimento è specifico solo quando sia fatto "mediante il richiamo alla nozione più dettagliata alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali", elemento che, evidentemente, nella specie è mancato.

La Cassazione ha pertanto rigettato il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro.

 

Licenziamento per superamento del periodo di comporto/1

Cass. Sez. Lav. 4 luglio 2017, n. 16393

Pres. Macioce; Rel. Boghetich; Ric. P. S.p.A.; Controric. B.A.;

Lavoro - Lavoro Subordinato - Licenziamento - Licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c. - Computo - Assenze per malattia - Esclusione - Adibizione del lavoratore a mansioni incompatibili col suo stato di salute - Responsabilità del Datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Responsabilità contrattuale per omissione - Onere della prova.

Le assenze per malattia, collegate con lo stato di invalidità, non possono essere incluse nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro (a norma dell'art. 2110 c.c.), se il lavoratore invalido sia stato adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche, in quanto l'impossibilità della prestazione lavorativa deriva, in tal caso, dalla violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica del lavoratore, che è gravato, tuttavia, dell'onere di provare gli elementi oggettivi della fattispecie - sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro - dimostrandone, quindi, l'inadempimento, nonché il nesso di causalità tra l'inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro che ne conseguano.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte stabilisce quali sono le assenze dal lavoro del dipendente invalido escluse dal periodo di comporto.

Nella fattispecie, un lavoratore, invalido civile con riduzione della capacità lavorativa in misura pari all'80%, veniva licenziato per superamento del periodo di comporto.

Il dipendente impugnava il recesso, lamentando di essere stato adibito a mansioni incompatibili col suo stato di salute: segnatamente, riferiva che le predette mansioni comportavano lo stato eretto e la flessione del rachide cervicale, il sollevamento di pesi, nonché l'esposizione a stress termici.

Entrambi i Giudici del merito accoglievano l'impugnazione del lavoratore, con conseguente reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro: tra il resto, veniva accertato che la postazione del lavoratore fosse, usualmente, "in piedi" e che il dipendente fosse stato esposto a stress termici, risultando conseguentemente provato - a detta della Corte territoriale - il nesso di causalità tra patologia sofferta dal prestatore e condizioni di lavoro nonché l'incompatibilità delle mansioni assegnate al dipendente con le sue condizioni fisiche - stato fisico che richiedeva, sulla scorta delle prescrizioni dettate dal medico del lavoro ed acquisite al processo, di evitare frequenti flessioni del rachide o il sollevamento di pesi eccessivi -, non essendo, per contro, emersa l'adozione, da parte del datore, di misure di protezione idonee a preservare lo stato di salute del lavoratore.

La società datrice proponeva ricorso per Cassazione, denunziando, essenzialmente, con plurime censure, la violazione degli artt. 2087, 2110 e 2697 cod. civ.

La Suprema Corte respinge il ricorso, ritenendo condivisibili le motivazioni articolate dai Giudici d'Appello.

Anzitutto, la Cassazione chiarisce che, in generale, il dipendente, ove sostenga la riconducibilità dell'infermità ad una causa di servizio, ha l'onere di dedurre e provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riferibilità dell'affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento delle mansioni inerenti la qualifica rivestita. Il nesso causale tra malattia e carattere morbigeno delle mansioni espletate - chiarisce il Collegio - non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell'esposizione a rischio.

Tanto premesso - soggiunge il Supremo Collegio - le assenze per malattia, collegate con lo stato di invalidità, non possono essere incluse nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro (a norma dell'art. 2110 c.c.), allorché l'invalido - come nel caso di specie - sia stato adibito a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche, in quanto l'impossibilità della prestazione lavorativa deriva, in tal caso, dalla violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica del prestatore.

I Giudici di legittimità ricordano, infine, che, in tali ipotesi, il dipendente è gravato, unicamente, dell'onere di provare gli elementi oggettivi della fattispecie - sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro - dimostrandone, quindi, l'inadempimento, nonché il nesso di causalità tra l'inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro che ne conseguano.

 

Licenziamento per superamento del periodo di comporto/2

Cass. Sez. Lav. 4 luglio 2017, n. 16392

Pres. Macioce ; Rel. Boghetich; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. L.L.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso - Onere della prova

Nel caso in cui il datore di lavoro intimi un licenziamento per superamento del periodo di comporto dopo la ripresa dell'attività lavorativa da parte del dipendente, l'allegazione e la prova di circostanze che integrino una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso spetta al lavoratore in quanto fatto estintivo del potere di recesso.

Nota

Nel caso in esame il lavoratore veniva licenziato per superamento del periodo di comporto e impugnava giudizialmente il recesso.

Il Tribunale di Lamezia Terme prima e la Corte d’Appello di Catanzaro poi, pur ritenendo pacifico il numero complessivo di assenze del dipendente e superato il requisito previsto dal CCNL applicato per il recesso datoriale, ritenevano il licenziamento illegittimo. Secondo i Giudici territoriali, infatti, l’intervallo di tempo trascorso tra il rientro del lavoratore e l’intimazione del recesso avevano ingenerato in questo un incolpevole affidamento nella prosecuzione del rapporto e nella rinuncia del datore al recesso.

Contro la decisione della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione il datore di lavoro per due motivi. In primo luogo sosteneva che nel valutare la tempestività del recesso la Corte territoriale avesse omesso di considerare le rilevanti dimensioni aziendali (circa 160.000 dipendenti sparsi in circa 14.000 uffici) e il fatto che la comunicazione non provenisse dal superiore gerarchico del dipendente ma dall’organo disciplinare che aveva dovuto provvedere al computo analitico dei giorni di assenza. In secondo luogo sosteneva che la Corte avesse invertito l’onere probatorio, da porre in capo al lavoratore, in ordine alla sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare al recesso.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati i motivi e accolto il ricorso.

Quanto al primo profilo la Corte di Cassazione ha osservato che, in caso di superamento del comporto, è lecito per il datore di lavoro attendere il rientro in servizio del dipendente per sperimentare eventuali margini di riutilizzo dello stesso, ribadendo altresì l’esistenza in capo al datore di un legittimo spatium deliberandi in merito che va contemperato con l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale.

Quanto, invece, all'onere della prova circa il superamento dei limiti di ragionevolezza tali da costituire espressione della volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare al recesso, la Suprema Corte ha osservato come "in applicazione del criterio di riparto dell'onere della prova dettato dall'art. 2697 c.c., la prova del superamento del periodo di comporto spetti al datore di lavoro in quanto fatto costitutivo del licenziamento, mentre la prova della sussistenza di un affidamento incolpevole (ossia di circostanze che integrino una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso) spetti al lavoratore in quanto fatto estintivo del potere di recesso. Dette circostanze possono essere rappresentate oltre che dal lasso di tempo intercorso tra maturazione del periodo di comporto e data di intimazione del licenziamento anche da una serie di altri elementi di varia natura (tra cui, ad es., il possesso da parte del datore di lavoro di tutti i dati documentali necessari per il computo delle assenze, il tipo e le dimensioni della struttura organizzativa aziendale)". La Corte ha poi aggiunto che, nel caso in cui il lasso di tempo tra il rientro in servizio e il recesso sia di rilevante entità, il lavoratore potrà dedurre e provare la violazione delle regole generali di correttezza e buona fede, spettando a questo punto al datore di lavoro dimostrare che il pregiudizio che ha colpito la controparte deriva da causa a lui non imputabile.

Nel caso di specie, ha affermato la Suprema Corte, la Corte d’Appello non si è attenuta ai principi sopra enunciati, avendo posto in capo al datore l’onere di provare la sussistenza di circostanze impeditive della formazione dell’incolpevole affidamento del lavoratore alla prosecuzione del rapporto. La violazione dei principi di cui sopra sarebbe evidente, secondo la Corte, se si considera che il datore di lavoro aveva evidenziato la sussistenza di una complessa organizzazione aziendale oltre che il limitato arco temporale intercorso tra il rientro in servizio del lavoratore e il recesso (35 giorni): in presenza di tali elementi, afferma la Cassazione, l’onere probatorio del lavoratore deve essere assolto in maniera rigorosa.

Conseguentemente la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello, enunciando il seguente principio di diritto "Nel caso in cui il datore di lavoro intimi un licenziamento per superamento del periodo di comporto dopo la ripresa dell'attività lavorativa da parte del dipendente, l'allegazione e la prova di circostanze che integrino una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso spetta al lavoratore in quanto fatto estintivo del potere di recesso". 

 

Impugnazione di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 17 maggio 2017, n. 12352

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Fresa; Ric. Cooperativa S.I.G.C. Contr. F.L.;

Licenziamento - Impugnazione ex art. 6, L. 604/66 - Termine giudiziale (270 o 180 giorni) - Dies a quo - Impugnazione stragiudiziale effettiva - Necessità.

Ai sensi del secondo comma dell'art. 6, legge n. 604/1966, così come modificato dall'art. 32 della legge n. 183 del 2010, il termine di 270 giorni (oggi 180) per l'impugnativa giudiziale del licenziamento decorre dal giorno in cui il licenziamento è stato concretamente impugnato e non dalla scadenza del termine di 60 giorni previsto per l'impugnativa stragiudiziale del recesso.

Nota

Con ricorso presso il Tribunale del lavoro di Cosenza, un lavoratore chiedeva che venisse accertata l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli, per assenze ingiustificate dal lavoro, con condanna del datore di lavoro alla riassunzione o al risarcimento ex art. 8, legge n. 604/66. Il dipendente rilevava l'illegittimità del recesso in quanto, a suo dire, le giornate di assenza contestate erano giustificate dalla prosecuzione della malattia certificata dal medico curante.

Si costituiva in giudizio il datore di lavoro il quale deduceva, in via preliminare, il mancato rispetto dei termini di decadenza per l'impugnazione del licenziamento, come modificati dalla legge n. 183/2010 e, nel merito, la piena legittimità del recesso.

Il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda, in quanto il ricorso era stato depositato oltre il termine introdotto dall'art. 32, comma 1, legge n. 183/2010.

Avverso tale pronuncia il lavoratore proponeva ricorso in appello, ritenendo errata l'interpretazione fornita dal Tribunale secondo cui il termine di 270 giorni - all'epoca applicabile - dovesse decorrere dalla data di effettiva impugnazione stragiudiziale anziché dallo spirare del termine finale di 60 giorni previsto dalla legge.

La Corte di appello di Catanzaro accoglieva il gravame dichiarando illegittimo il licenziamento intimato e condannando il datore di lavoro a riassumere il lavoratore o a risarcirgli il danno commisurato in sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Avverso tale sentenza il datore di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 6, comma 2, legge n. 604/66, come modificato dall'art. 32, legge n. 183/2010, laddove la sentenza di appello ha ritenuto di dover calcolare la decorrenza del termine di 270 giorni (applicabile ratione temporis) non dal momento della effettiva proposizione della impugnazione stragiudiziale bensì dallo spirare del 60° giorno previsto in via generale dall'art. 6, comma 1, legge n. 604/66.

La Cassazione accoglie il motivo, evidenziando di aver già avuto modo di precisare che, nella interpretazione del novellato art. 6, legge n. 604/66, nulla autorizza a ritenere che il secondo termine di decadenza - prima 270 giorni, oggi 180 - teso a realizzare una maggiore certezza dei rapporti giuridici tra lavoratore e datore di lavoro, debba decorrere dalla scadenza del 60° giorno dalla comunicazione del licenziamento, in particolare laddove il lavoratore abbia provveduto ad impugnare il recesso con maggiore tempestività senza attendere il 60° giorno. E' necessario, quindi, che il lavoratore depositi il ricorso entro 180 (o 270 nel caso di specie) giorni dall'impugnativa stragiudiziale del licenziamento, che ciascun lavoratore può valutare quando proporre (Cass. 3 ottobre 2016, n. 19710).

Applicando tale principio al caso in esame la Cassazione rileva l'intervenuta decadenza dall'impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore, in quanto tra la data di impugnativa stragiudiziale ed il deposito del ricorso erano trascorsi più di 270 giorni.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti la causa viene decisa nel merito con il rigetto dell'impugnativa.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©