Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Trasferimento di lavoratore che assiste un disabile
Licenziamento disciplinare, procedura
Sul principio di immediatezza della contestazione disciplinare
Licenziamento a seguito di giudizio di parziale idoneità alla mansione
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

 Trasferimento di lavoratore che assiste un disabile

Cass. Sez. Lav. 12 ottobre 2017, n. 24015

Pres. Napoletano; Rel. Torrice; P.M. Servello; Ric. G.M.C.; Controric. S.S. s.r.l.;

Trasferimento del lavoratore che assiste disabile - Limiti - Sedi collocate all’interno della medesima unità produttiva - Consenso del lavoratore - Necessità - Rifiuto di trasferirsi  - Legittimità - Invalidità del licenziamento conseguentemente intimato per assenza ingiustificata

Ai sensi dell’art. 33 c. 5 della L. 5 febbraio 1992, n. 104 , come modificato dall’art. 24 c. 1 lett. b) della legge 24.11.2010 n. 183, il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può subire limitazioni,  anche se lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva,  risultando l’inamovibilità giustificata dal dovere di cura e di assistenza da parte del lavoratore al familiare disabile, sempre che non risultino provate da parte del datore di lavoro specifiche esigenze tecniche, organizzative e produttive che, in un equilibrato bilanciamento tra interessi, risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte.

Nota

La Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto dell’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato per assenza ingiustificata ad un lavoratore che si era rifiutato di trasferirsi assumendo la violazione dell’art. 33, comma 5 L. 104/92. In particolare i giudici territoriali hanno ritenuto che, consistendo il mutamento di sede in uno spostamento geografico molto contenuto, trattandosi di luoghi siti all’interno dello stesso comune, e non essendo l’orario di lavoro incompatibile con le esigenze di assistenza tutelate dalla norma, il trasferimento non fosse lesivo dei diritti di assistenza al parente disabile ex art. 33 comma 5 L. 104/92. 

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi e la società ha resistito con controricorso.

In particolare, per quanto qui rileva, si afferma l’illegittimità del licenziamento reputandosi lecito il rifiuto di prestare servizio presso la nuova sede, essendo l’assegnazione avvenuta in violazione dell’art. 33 c. 5 della L. n. 104 del 1992.

La Suprema Corte accoglie tale prospettazione ed afferma il principio di cui alla massima, precisando che l’art. 33, comma 5, L.104/92 deve essere interpretato in termini costituzionalmente orientati - alla luce dell’art. 3, secondo comma, Cost., e della Carta di Nizza che, al capo 3 - rubricato Uguaglianza - riconosce e rispetta i diritti dei disabili di beneficiare di misure intese a garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e la partecipazione alla vita della comunità (art. 26) e al capo 4 - rubricato Solidarietà - tratta della protezione della salute, per la quale si afferma che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un alto livello di protezione della salute umana. La Suprema Corte evidenzia, poi, che tale lettura della norma è conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 dei disabili, ratificata con legge n. 18 del 2009 dall’Italia (C. Cost. n. 275 del 2016) e dall’Unione Europea con decisione n. 2010/48/CE (Cass. 23 maggio 2017, n. 12911, Cass. 12 dicembre 2016, n. 25379). Viene sottolineato che l’efficacia della tutela della persona con disabilità si realizza anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, in quanto il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza. Da qui si afferma che, nel bilanciamento di interessi, necessario per tutti i trasferimenti ex art.2103 c.c., devono essere valorizzate le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore, occorrendo salvaguardare condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte (Cass. 12 dicembre 2016, n. 25379, Cass. 7 giugno 2012, n. 9201). In questa prospettiva applicativa, prosegue la Corte, deve ritenersi che il trasferimento del lavoratore ex comma 5 art. 33 L. 104/92 è configurabile anche nell’ipotesi in cui lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, quando questa comprenda uffici dislocati in luoghi diversi (Cass. 5 novembre 2013, n. 24775).

Alla luce di tali principi la Cassazione ritiene non corretta la sentenza di secondo grado laddove ha ritenuto illegittimo il rifiuto del dipendente di trasferirsi sul duplice rilievo che la nuova sede di lavoro si trovava a pochissimi chilometri di distanza da quella originaria e dalla sua abitazione e che il trasferimento avrebbe potuto essere oggetto di contestazioni nella continuità della prestazione di lavoro. La Corte territoriale avrebbe dovuto, infatti, accertare se vi fossero e quale importanza rivestissero le esigenze produttive sottese al trasferimento, procedere alla valutazione della concreta possibilità per il dipendente di continuare ad assicurare la dovuta assistenza al familiare portatore di handicap al fine di operare il bilanciamento tra gli opposti interessi, indispensabili per la formulazione del giudizio di proporzionalità, (Cass. 9 febbraio 2017, n. 3469, Cass. 29 febbraio 2016, n. 3959). La sentenza viene, pertanto, cassata con rinvio ad altro giudice per l’applicazione del principio di diritto affermato nella massima.

Licenziamento disciplinare, procedura

Cass. Sez. Lav. 9 ottobre 2017, n. 23510

Pres. Nobile; Rel. Piergiovanni Patti; P.M. Fresa; Ric. IBM Italia s.p.a.; Controric. P.M.;

Licenziamento disciplinare - Audizione orale - Richiesta di differimento - Mancato accoglimento - Illegittimità 

Ai sensi dell'art. 7 l. 300/1970, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, sussiste l'obbligo per il datore di lavoro di accogliere la richiesta del lavoratore di differimento dell'audizione orale, qualora essa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile e non sia giustificata da una possibilità di  presenziare meramente disagevole o sgradita.

Nota

La Corte di Appello di Roma dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato alla lavoratrice, condannando la società datrice all’immediata reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento in suo favore, a titolo risarcitorio, di una somma pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra, oltre al versamento dei relativi contributi assistenziali e previdenziali. La Corte territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava invece le ulteriori domande formulate dalla lavoratrice, tese ad ottenere l’accertamento della illegittimità delle sanzioni disciplinari comminatele dalla datrice. 

In particolare, la Corte territoriale dichiarava illegittimo il licenziamento per violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970, ritenendo ingiustificato il diniego opposto dalla società datrice alla richiesta di differimento dell’audizione orale, tempestivamente formulata dalla dipendente, tenuto conto che tale richiesta era stata motivata dalla impossibilità della lavoratrice a presenziare all’audizione in ragione di uno stato di malattia debitamente certificato. 

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società datrice, fondato su due motivi. 

La ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970, anche in relazione all’art. 23 CCNL Metalmeccanici del 7 maggio 2003, e dell’art. 2697 c.c., ritenendo che la Corte territoriale avesse erroneamente omesso di verificare l’effettiva ragione che aveva impedito alla lavoratrice di essere sentita entro i cinque giorni dalla contestazione disciplinare, prescritti dalla norma collettiva. Ed infatti, la società rilevava che la lavoratrice, essendosi trovata nella suddetta condizione di malattia alla scadenza del quarto giorno successivo alla contestazione disciplinare, dopo essere stata convocata ultimativamente per il giorno seguente, si era limitata a giustificare il proprio impedimento a partecipare all’audizione mediante l’insufficiente allegazione di un certificato medico. 

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso. 

La Suprema Corte preliminarmente osservava che, ai sensi dell'art. 7 l. 300/1970, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare e salvo che la richiesta del lavoratore di differimento dell'audizione sia giustificata da una possibilità di  presenziare meramente disagevole o sgradita, sussiste l'obbligo per il datore di lavoro di accoglierla, qualora essa risponda ad un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (Cass. 7 maggio 2015, n. 9223; Cass. 31 marzo  2011, n.  7493). La Suprema Corte ha altresì precisato che il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro, al fine di esercitare il proprio diritto di difesa, sussistendo in tal caso il correlativo obbligo del datore di lavoro di accogliere la relativa richiesta. L'accertamento in ordine alla compatibilità delle modalità di convocazione del lavoratore con i principi di buona fede e lealtà contrattuale è rimesso inoltre al giudice di  merito, la cui valutazione è insindacabile se  congruamente motivata (Cass. 16 ottobre 2013, n. 23528).

Con specifico riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale, con accertamento insindacabile in sede di legittimità, avesse correttamente considerato ingiustificato il rifiuto  opposto dalla società datrice alla richiesta di differimento dell'audizione orale, tempestivamente formulata dalla lavoratrice, per impossibilità della dipendente a presenziare in ragione di uno stato di malattia debitamente certificato (cfr. Cass. 9 maggio 2012, n. 7096). Sotto altro profilo, la Suprema Corte ha osservato che lo stato di malattia della dipendente neppure autorizzava il datore di lavoro ad ometterne l’audizione, considerato che il conseguente ritardo nell'intimazione del licenziamento disciplinare non lo avrebbe comunque reso tardivo (Cass. 11 giugno 2009, n. 13596; Cass. 4 aprile 2006, n. 7848).

Sul principio di immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 27 settembre 2017, n. 22610

Pres. Bronzini; Rel. De Gregorio; P.M. Servello; Ric. R.R.; Controric. B.M.D.P.D.S. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Principio dell'immediatezza della contestazione - Natura - Carattere relativo dell'accertamento - Contenuto - Fattispecie 

Nel licenziamento per motivi disciplinari, il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tenere conto della specifica natura dell'illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, maggiore quanto più è complessa l'organizzazione aziendale.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento disciplinare intimato ad una dipendente che aveva percepito una serie di emolumenti non dovuti in relazione a trasferte mai eseguite e relativi rimborsi spese, per un ammontare di circa 85.000 euro.

Il licenziamento veniva dichiarato legittimo sia in primo che in secondo grado. 

Ricorre per Cassazione la lavoratrice, deducendo la violazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, essendo trascorso un notevole lasso di tempo (5 mesi circa) tra la scoperta dei fatti da parte della società e la contestazione degli stessi. 

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che il requisito dell'immediatezza della contestazione disciplinare deve essere inteso in senso relativo, ben potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare l’esercizio del potere disciplinare, restando comunque riservata al giudice di merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo (cfr. tra le più recenti Cass. n. 1248/2016, e Cass. n. 281/2016). Sul punto, la Corte d’Appello di Napoli aveva accertato la necessità di un lungo lasso di tempo per il definitivo accertamento dei fatti, vista l’entità della somma e la frequenza e risalenza nel tempo dei vari avvenimenti, tenuto altresì conto delle notevolissime dimensioni aziendali; tali argomentazioni appaiono, secondo la Corte di Cassazione, del tutto corrette ed esaurienti e, pertanto, insindacabili.

Inoltre, prosegue la Corte, l'intervallo temporale intercorrente fra l’esercizio del potere disciplinare e il fatto commesso dal lavoratore non necessariamente è sintomo di una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio delle proprie facoltà, con la conseguenza che l’incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta anche da misure cautelari, come la sospensione, adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure - specialmente se l'adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva - dimostrano la permanente volontà datoriale di irrogare, ancorché eventualmente, la sanzione del licenziamento.

Ebbene, nel caso di specie, la lavoratrice non poteva ragionevolmente riporre alcun affidamento sulla volontà del datore di lavoro di non esercitare il proprio potere disciplinare, essendo stata sospesa cautelarmente al momento della scoperta dei fatti. 

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Licenziamento a seguito di giudizio di parziale idoneità alla mansione

Cass. Sez. Lav. 5 ottobre 2017, n. 23266

Pres. Macioce; Rel. De Felice; P.M. Celeste; Ric. G.L.; Controric. C.P.I. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Parziale idoneità alla mansione certificata dall’ASL - Insufficienza delle mansioni residue - Inesistenza di altre mansioni a cui adibire il lavoratore - Licenziamento - Legittimità - Onere della prova.  

È legittimo il licenziamento del dipendente a seguito di giudizio di parziale idoneità alla mansione, quando la porzione di mansione effettivamente erogabile dal lavoratore è meramente residuale rispetto alla mansione da ultimo svolta e di così modesta entità da non giustificare la conservazione del rapporto di lavoro e ciò, a condizione che non sussistano altre mansioni alle quali adibire il lavoratore. Il lavoratore ha l’onere di allegare la sufficienza della mansione residua, mentre il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare l’insussistenza di mansioni pari o equivalenti che potessero giustificare il mantenimento in servizio del lavoratore. 

Nota

Un dipendente addetto a lavori ausiliari presso un laboratorio microbiologico veniva licenziato nel 2010 a seguito del giudizio di parziale idoneità alla mansione da ultimo svolta, certificato dall’ASL con prescrizioni di sicurezza a carico del datore di lavoro.

La Corte d’Appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale di Velletri, rigettava il ricorso del dipendente volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli.

Ad avviso della Corte territoriale, da un lato, la porzione di mansione effettivamente erogabile dal lavoratore, a seguito del giudizio di parziale idoneità, era del tutto residuale rispetto alle precedenti mansioni e tale da non giustificare l’impiego esclusivo di un’unità. Infatti, le mansioni residue non si rivelavano di per sé sufficienti, quantitativamente e qualitativamente, a costituire una posizione lavorativa senza alterare l’organizzazione aziendale. La Corte riteneva poi assolto, da parte datoriale, l’onere probatorio connesso al tentativo di repechage, avendo compiuto, con esito negativo, una ricerca sull’intera struttura aziendale e sull’intero organigramma per verificare la disponibilità di altre mansioni a cui adibire il dipendente.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione; la società resisteva con controricorso.

Con l’unico motivo di ricorso, il dipendente lamentava l’omessa pronuncia sulla domanda, sostenendo di aver ritualmente dedotto la propria capacità di svolgere le mansioni affidategli nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza poste a carico del datore di lavoro, con conseguente inapplicabilità della procedura di repechage.

La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile e comunque infondato il ricorso del dipendente. È stata quindi confermata la legittimità del licenziamento in considerazione del fatto che le residue mansioni, in quanto meramente marginali rispetto a quelle da ultimo svolte, non erano state ritenute sufficienti a far apprezzare alla società un’utilità della prestazione capace di giustificare la conservazione del posto di lavoro. 

Quanto alla presunta erroneità nella distribuzione degli oneri probatori, il lavoratore sosteneva che il datore di lavoro avrebbe avuto l’onere di dimostrare l’inidoneità del lavoratore, contestando gli accertamenti medici e impugnando avanti al Tar il provvedimento di riforma del giudizio di inidoneità permanente. La Corte di Cassazione ha invece chiarito che il giudice di appello ha fatto corretta applicazione dei principî giurisprudenziali in materia, ritenendo non soddisfatto da parte del lavoratore l'onere di allegazione circa la sufficienza della mansione “residua” e, invece, assolto il diverso onere, a carico del datore, di dimostrare l'insussistenza di mansioni pari o equivalenti che potessero giustificare il mantenimento in servizio del lavoratore (e ciò in applicazione, ratione temporis, dell’art. 2103 c.c. nella versione antecedente la riforma del giugno 2015).

Licenziamento collettivo e criteri di scelta 

  Cass. Sez. Lav. 16 ottobre 2017, n. 24352

Pres. Mammone; Rel. Mancino; P.M. Mastrobernardino; Ric. C.R.; Controric. T.S.

  Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - Riduzione e criteri di scelta del personale - Accordo sindacale sui criteri di scelta - Adozione dell'unico criterio dei carichi di famiglia - Legittimità - Condizioni

 In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale e di individuazione dei lavoratori in esubero, l'adozione, nell'accordo sindacale raggiunto in procedura di consultazione, dell'unico criterio di scelta relativo ai carichi di famiglia non è legittimo, qualora tale criterio non permetta l'esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento e, quindi, non risulti applicabile senza margini di discrezionalità da parte del datore di lavoro.

Nota

 La Corte di appello di Napoli dichiarava la nullità del licenziamento intimato dalla società al lavoratore all’esito della procedura di licenziamento collettivo e ordinava la reintegrazione e la condanna al pagamento della retribuzione globale dalla data del licenziamento fino all'effettiva reintegra.

Per la Corte di merito il licenziamento era nullo non essendo stato indicato e giustificato il motivo della scelta del solo criterio del carico di famiglia.

Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso in Cassazione la società contestando alla Corte di merito di aver ritenuto non sorretta da motivazioni la scelta dell'unico criterio dei carichi di famiglia. Infatti, secondo la società era stata allegata agli atti cospicua documentazione recante specifiche richieste dei dipendenti di accordare priorità ai carichi di famiglia.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione è necessaria la puntuale indicazione - come prescrive l'art. 4, comma 9 - dei criteri di scelta e delle modalità applicative, dovendo la società operare una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessati al licenziamento, quanto meno con riguardo alle situazioni raffrontabili per livello di specializzazione. Il datore di lavoro non può limitarsi alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa.

Nella specie, insiste la Corte, l'adozione dell'unico criterio dei carichi di famiglia - a nulla rilevando che nell'indicazione della priorità di tale criterio avessero inciso specifiche richieste dei dipendenti - non consentiva di individuare, in via oggettiva e predeterminata, il lavoratore da licenziare, cosicché la scelta operata dalla società, indicando specificamente la soppressione della posizione lavorativa alla quale era preposto il lavoratore, si è nella realtà risolta in una valutazione di carattere prettamente discrezionale.

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