Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare  e controlli difensivi
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Sul principio di omnicomprensività della retribuzione
Trasferimento d'azienda, nozione
Licenziamento di dirigente e obbligo del preavviso

Licenziamento disciplinare  e controlli difensivi

Cass. Sez. Lav. 18 luglio 2017, n. 17723

Pres. Di Cerbo; Rel. Bronzini; P.M. Fresa; Ric. M.G. Contro. U.A. S.p.A.;

Licenziamento disciplinare - Controlli difensivi - Agenzia investigativa -Legittimità - Limiti - Rispetto normativa privacy 

È ammissibile il controllo difensivo tramite pedinamento di un dipendente, svolto da un’agenzia investigativa, finalizzato ad accertare eventuali illeciti commessi al di fuori dell’azienda, a condizione che le investigazioni rispettino la normativa sulla privacy e, in particolare, i principi di proporzionalità e adeguatezza.

Nota

Un dipendente di un’impresa assicurativa, con mansioni d’ispettore addetto alla verifica del corretto rispetto delle obbligazioni contrattuali e regolamentari da parte degli agenti, veniva licenziato per giusta causa per mancata presenza al lavoro in un giorno e per essersi allontanato anticipatamente dal lavoro in altri cinque giorni. Tali addebiti erano stati conosciuti dal datore di lavoro a seguito del pedinamento del lavoratore, per un periodo di 20 giorni, effettuato da un’agenzia investigativa.
Il dipendente impugnava il licenziamento, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro.
Al termine della fase a cognizione sommaria, il Tribunale di Milano rigettava il ricorso del lavoratore.
Lo stesso Tribunale, in sede di opposizione, annullava il licenziamento con conseguente reintegrazione e relativo risarcimento del danno, ritenendo che i controlli investigativi erano stati condotti in violazione della normativa privacy, in quanto invasivi anche della sfera privata del lavoratore.
La Corte d’Appello di Milano, in accoglimento del reclamo presentato dalla società, riteneva invece legittima l’investigazione, considerando proporzionata la durata del pedinamento in ragione delle mansioni svolte dal dipendente al di fuori dei locali aziendali e irrilevante il fatto che gli investigatori avessero raccolto informazioni anche sulla vita privata del dipendente, in quanto imputabile al mancato inserimento di alcuni giorni di ferie nell’apposito portale aziendale. La Corte territoriale pur ritenendo dimostrati parte degli addebiti oggetto della lettera di contestazione, non li considerava di gravità tale da giustificare il licenziamento e, quindi, condannava la società al pagamento di un’indennità pari a 12 mensilità.
Avverso tale sentenza ricorreva in cassazione il dipendente; il datore di lavoro resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale.
Il lavoratore lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 4 e 8 dello Statuto dei Lavoratori nonché degli artt. 11, 24 e 26 del Codice in materia di protezione dei dati personali, considerando invasivi i controlli investigativi in quanto posti in essere in violazione dei principî di adeguatezza e proporzionalità del mezzo adoperato e, comunque, indebitamente estesi alla sfera privata.
In primo luogo, la Suprema Corte ha ribadito l’inapplicabilità delle norme statutarie richiamate dal dipendente (in materia di personale di vigilanza, controlli a distanza e divieto di indagini su fatti non rilevanti ai fini dell’attitudine professionale dei lavoratori) a controlli difensivi svolti da un’agenza investigativa privata e connessi ad una specifica indagine su pretese violazioni commesse da un dipendente al di fuori della sede aziendale.
La Corte di Cassazione ha invece ritenuto condivisibili le considerazioni in ordine al doveroso rispetto anche da parte degli investigatori della normativa privacy, censurando la tesi della Corte territoriale secondo cui eventuali violazioni dei dati personali potrebbero solo legittimare pretese risarcitorie nei confronti dell’agenzia investigativa. Tuttavia, stante l’omessa deduzione da parte del ricorrente di elementi concreti per ritenere che fosse stato violato il principio di proporzionalità e di aderenza all’oggetto e allo scopo dell’indagine, la Corte ha rigettato il ricorso.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 20 ottobre 2017, n. 24882

Pres. Napoletano; Rel. Della Torre; P.M. Sanlorenzo; Ric. M.S.; Controric. I.M. s.p.a.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Ragioni dirette ad incrementare efficienza aziendale e produttività - Legittimità - Crisi aziendale e contenimento dei costi - Incidenza sulla specifica posizione lavorativa soppressa - Necessità - Onere prova repechage - Datore di lavoro 

La soppressione del posto di lavoro deve essere riferibile, sul piano causale, a progetti o scelte datoriali - non sindacabili in sede giudiziale quanto ai profili di congruità e opportunità, purché connotati da effettività e assenza di simulazione - diretti a incidere sulla struttura e sulla organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, senza che il datore debba necessariamente provare anche un andamento economico negativo dell’azienda, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa.

Nota

La Corte d’Appello di Napoli, pronunciando in sede di rinvio, ha confermato la sentenza del Tribunale di rigetto dell’impugnativa del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo ad un redattore di una casa editrice a cagione dello stato di crisi in cui versava. In particolare, la Corte territoriale riteneva che le ragioni indicate dalla società, ovvero lo stato di crisi aziendale con la conseguente necessità di contenimento dei costi, trovassero dimostrazione nel decreto ministeriale di concessione del trattamento di CIGS e nei successivi accordi sindacali. Quanto alla possibilità di una diversa collocazione aziendale, la Corte riteneva le deduzioni del lavoratore inidonee a soddisfare l’onere di allegazione posto a suo carico.
Avverso tale decisione il redattore ha proposto due identici ricorsi, poi riuniti, censurandola sotto svariati profili. In particolare, per quanto qui rileva, con il primo motivo di ricorso il lavoratore si duole che la Corte di merito abbia considerato sufficiente, ai fini della giustificazione del recesso, la verifica della situazione di crisi aziendale e della necessità di un contenimento dei costi attraverso la contrazione del numero dei giornalisti occupati, senza accertare, con onere probatorio a carico del datore di lavoro, se la specifica posizione occupata dal ricorrente fosse stata realmente soppressa e se non sussistesse la possibilità di impiegare altrove il lavoratore licenziato.
La Cassazione accoglie il motivo, affermando il principio di cui alla massima, già sancito in recenti precedenti (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699). Secondo la Corte va verificato in concreto quale sia il posto di lavoro occupato dal lavoratore licenziato a seguito di riorganizzazione aziendale e, successivamente, se tale posto sia stato effettivamente eliminato in seguito alla ristrutturazione, non potendo il giudice basare la propria valutazione unicamente sull'equazione tra stato di crisi di aziendale e giustificazione del licenziamento. Altro principio ribadito dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, seppur incidentalmente, attiene alla non indispensabilità del requisito dell’andamento economico negativo dell’azienda, precisandosi che possono integrare un valido GMO anche azioni dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, qualora esse determino una riorganizzazione che comporti la soppressione di uno specifico posto di lavoro.
Infine la Cassazione, adeguandosi al recente orientamento - modificativo di quello da anni consolidato - sull’onere della prova in materia di repechage, afferma che esso incombe sul datore di lavoro che deve dimostrare l’impossibilità di una diversa collocazione del dipendente all’interno dell’impresa ristrutturata o rimodulata nei suoi aspetti tecnico-organizzativi, senza che il lavoratore sia tenuto ad allegare i posti assegnabili (Cass.22 marzo 2016, n. 5592; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101).
Secondo la Suprema Corte la sentenza impugnata non si è conformata a tali principi, avendo i giudici del merito - sulla base di un’erronea equazione tra stato di crisi aziendale e giustificazione del licenziamento - omesso di verificare in concreto quale fosse il posto di lavoro occupato dal ricorrente e se tale posto di lavoro dovesse ritenersi effettivamente e specificamente soppresso. La sentenza viene, pertanto, cassata con rinvio.

Sul principio di omnicomprensività della retribuzione

Cass. Sez. Lav. 30 ottobre 2017, n. 25760

Pres. Nobile; Rel. Spena; P.M. Celentano; Ric. F.T.M. S.p.A.; Controric. R.R.;

Lavoro subordinato - Retribuzione - Lavoro straordinario - Computabilità ai fini della retribuzione spettante per gli istituti indiretti - Principio generale ed inderogabile di omnicomprensività - Insussistenza - Fattispecie

In tema di retribuzione dovuta al prestatore di lavoro ai fini dei cc.dd. istituti indiretti (mensilità aggiuntive, ferie, permessi, malattia e infortunio), non esiste un principio generale ed inderogabile di omnicomprensività e, pertanto, nella quantificazione degli istituti indiretti il compenso per lavoro straordinario può essere computato esclusivamente qualora ciò sia previsto da specifiche norme di legge o di contratto collettivo.

Nota

Il caso di specie riguarda il ricorso promosso da un lavoratore al fine di far accertare il proprio diritto all’inclusione del compenso per il lavoro straordinario (prestato con abitualità per un periodo di oltre 4 anni) nella base di calcolo della retribuzione per ferie, permessi, festività e tredicesima mensilità, con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive consequenziali.
La domanda veniva accolta in primo grado e confermata in appello.
In particolare, la Corte d’Appello affermava che il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro (CCNL per i dipendenti dalle industrie metalmeccaniche private e della installazione di impianti) stabilisce espressamente che la retribuzione globale di fatto debba essere utilizzata come base di calcolo della retribuzione per ferie, permessi retribuiti e tredicesima mensilità, e che la stessa retribuzione globale di fatto debba intendersi comprensiva di tutti i compensi percepiti con carattere non eccezionale, ivi incluso, quindi, lo straordinario continuativo. Quanto alle festività, la Corte d’Appello giungeva ad identica conclusione in considerazione delle disposizioni di legge (art. 5, L. n. 260/1949).
Ricorre per Cassazione la società datrice di lavoro, deducendo l’erronea interpretazione da parte del giudice di merito della definizione di “retribuzione globale di fatto” prevista dalle norme di legge e contrattuali.
La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato limitatamente alla parte dei compensi per festività e, per il resto, infondato.
Nello specifico, la Corte ha affermato, innanzitutto, che per la determinazione della retribuzione dovuta al prestatore di lavoro in relazione agli istituti cc.dd. indiretti non vige nel nostro ordinamento un principio di onnicomprensività ma occorre avere riguardo alla disciplina di fonte legale o contrattuale dei singoli istituti (cfr. ex plurimis Cass. n. 813/2013).
Quanto al compenso per ferie, permessi retribuiti e tredicesima mensilità la fonte è contrattuale e la nozione di “retribuzione globale di fatto” adottata dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro deve intendersi comprensiva di tutte le voci di retribuzione corrisposte con continuità e sistematicità al lavoratore nell'arco temporale rilevante ai fini della maturazione della retribuzione indiretta, così da divenire parte della retribuzione normalmente liquidata.
La sentenza impugnata aveva, dunque, correttamente interpretato le previsioni del contratto collettivo relativamente alle modalità di calcolo di tali compensi.
Il ricorso è, invece, fondato per quanto riguarda l’interpretazione delle previsioni dell'articolo 5 della legge n. 260/1949 in materia di compenso per le festività. Tale norma fa, infatti, riferimento alla normale retribuzione giornaliera e da tale nozione di retribuzione è dunque escluso il compenso per lavoro straordinario, anche se corrisposto in modo fisso e continuativo.
Sul punto, la Corte si era già espressa in passato, affermando che l'art. 5 cit. non consente, dato il riferimento alla normalità della retribuzione, la computabilità di compensi straordinari, come la retribuzione per il lavoro straordinario, ancorché continuativo (cfr. da ultimo Cass. n. 25761/2016).
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza limitatamente alla parte relativa alla violazione dell’art. 5 L. n. 260/1949.

Trasferimento d'azienda, nozione

Cass. Sez. Lav. 25 ottobre 2017, n. 25382

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Celentano; Ric. P.D.; Controric. W.I.S.p.A.

Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Ramo d'azienda - Elementi costitutivi - Autonomia funzionale preesistente - Necessità - Rilevanza

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda, l’elemento costitutivo della cessione è l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente. 

Nota
Nella fattispecie in esame, la Corte di Appello di Trieste ha confermato la pronuncia del tribunale che aveva respinto la domanda del dipendente volta ad accertare che il contratto di lavoro era proseguito con la società cedente anche dopo il trasferimento del reparto carpenteria ad altra società, stante la mancanza dei requisiti previsti dall’articolo 2112 cod.civ..
Per la Corte territoriale il tribunale aveva correttamente statuito sia nella parte in cui aveva affermato l'autonomia funzionale del ramo d'azienda ceduto, sia nella parte in cui aveva escluso la natura apparente o fraudolenta dell'operazione anche considerato che il ramo di azienda costituito dal reparto carpenteria non era stato creato al momento della cessione.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso in Cassazione il dipendente contestando l’autosufficienza del ramo di azienda. Per il ricorrente il reparto ceduto non era economicamente autosufficiente e non poteva costituire una piccola azienda capace di collocarsi sul mercato ed era perciò privo di uno dei requisiti costitutivi cui fa riferimento l'art. 2112 c.c..
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione nel corso del giudizio di merito erano emerse circostanze tali da far ritenere che era stata trasferita un'articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, in coerenza con il principio di legittimità secondo cui la cessione di ramo d'azienda è configurabile ove la struttura ceduta sia dotata di pregressa autonomia organizzativa e sia idonea a costituire un'entità economica unitaria, finalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni e servizi. Per la Cassazione, detta nozione di trasferimento di ramo d'azienda è coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea secondo cui «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria» (art. 1, n. 1, Direttiva 2001/ 23).
In questo senso anche la Corte di Giustizia ha specificato che, al fine di verificare se un’entità economica sia (anteriormente al trasferimento) funzionalmente autonoma, la nozione di autonomia deve riferirsi «ai poteri riconosciuti ai responsabili del gruppo di lavoratori considerato, di organizzare, in modo relativamente libero e indipendente, il lavoro in seno a tale gruppo e, più specificamente, di impartire istruzioni e distribuire compiti ai lavoratori subordinati appartenenti al gruppo medesimo, e ciò senza intervento diretto da parte di altre strutture organizzative del datore di lavoro» (CGUE, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 32, che richiama CGUE, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, punto 51).
Con riferimento al caso in esame, per la Cassazione la Corte triestina non avrebbe quindi violato la legge laddove l’interpretazione dell’articolo 2112 c.c. è avvenuta secondo i principi di diritto. La Corte di appello aveva correttamente confermato l’autonomia del ramo ceduto ritenendo estranei alla fattispecie elementi quali la necessità che il ramo d'azienda produca utili e non sia in perdita, la durata dell'impresa cessionaria che resti sul mercato per un certo tempo senza fallire, la capacità economica ed imprenditoriale, e quindi i mezzi ed i capitali dell'impresa stessa.

Licenziamento di dirigente e obbligo del preavviso 

Cass. Sez. Lav. 26 ottobre 2017, n. 25460

Pres. Venuti; Rel. Leo; P.M. Matera; Ric. D.M.A.; Controric. F.A.L.s.r.l.;

Dirigenti - Licenziamento - Mancato preavviso - Compimento del 65° anno di età - Esonero dall'obbligo di fornire il preavviso - Previsione del CCNL - Sussiste

Ai sensi degli artt. 22 e 23 del CCNL Dirigenti di Aziende Industriali del 27.4.1995, come modificato dall’accordo del 19.11.1997 e rinnovato in data 23.5.2000, il datore di lavoro è esonerato dall’obbligo di fornire il preavviso in caso di risoluzione del rapporto di lavoro nei confronti del dirigente che sia in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia o che abbia comunque superato il 65° anno di età. 

Nota
La Corte di Appello di Bari confermava la sentenza resa dal giudice di primo grado con la quale era stato rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, con qualifica di dirigente, volto ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità della condotta posta in essere dalla società resistente, consistita nel non aver dato il preavviso in occasione del recesso intimato al dirigente medesimo, con contestuale condanna della stessa al pagamento dell’indennità di mancato preavviso, nonché del trattamento di fine rapporto e dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su due motivi.
In particolare, il ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 23 del CCNL Dirigenti di aziende industriali, sostenendo che tali disposizioni non prevedessero affatto la risoluzione automatica del rapporto di lavoro del dirigente al compimento del 65° anno di età, bensì si limitassero esclusivamente a prevedere l’esonero del datore di lavoro dall’obbligo di comunicare i motivi del recesso e di promuovere il collegio arbitrale, nel caso in cui il dirigente avesse già acquisito il diritto alla pensione di vecchiaia ed avesse comunque superato il 65° anno di età. Pertanto il ricorrente sosteneva che le parti sociali non avessero in alcun modo esonerato il datore di lavoro dall’obbligo del preavviso nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente per raggiungimento del 65° anno di età.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
La Cassazione ha ritenuto che i giudici di appello, con argomentazioni logico giuridiche del tutto congrue, avessero correttamente sussunto la fattispecie di causa nella normativa da applicare, anche in considerazione delle peculiarità che connotano il rapporto dirigenziale.
Con specifico riferimento alla previsione di cui all’art. 22 del CCNL di settore - che testualmente dispone: “…Le disposizioni del presente articolo …. non si applicano in caso di risoluzione del rapporto di lavoro nei confronti del dirigente che sia in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia o che abbia comunque superato il 65° anno di età”- la Suprema Corte ha rilevato che, come correttamente sottolineato dai giudici di appello, la contrattazione collettiva ha espressamente previsto l’esonero del datore di lavoro dall’obbligo di fornire il preavviso nelle ipotesi di cui all’art. 2119 c.c. in cui si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
Pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che la decisione impugnata, con una corretta esegesi del comma 6 dell’art. 22 del CCNL di settore, ha escluso che le disposizioni ivi previste si applichino in caso di risoluzione del rapporto di lavoro nei confronti del dirigente che sia in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia o che abbia comunque superato i 65 anni di età.

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