Contenzioso

Libertà religiosa oltre i formalismi

di Marina Castellaneta

È una violazione del diritto alla libertà di manifestazione del credo religioso condannare per oltraggio alla Corte un testimone che, per motivi legati alla propria religione, si rifiuta di togliere un copricapo. È la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza depositata ieri nel ricorso Hamidovic contro Bosnia Erzegovina.

Un bosniaco chiamato a comparire come teste in un processo penale in cui erano imputati alcuni membri legati alla comunità wahhabita/salafita, di cui anch’egli faceva parte, si era rifiutato di togliersi uno zucchetto malgrado il divieto di indossare simboli o indumenti religiosi in tribunale. Di qui la condanna per oltraggio alla Corte e il successivo ricorso ai giudici internazionali.

Prima di tutto, la Corte europea attribuisce agli Stati un ampio margine di discrezionalità nel determinare i limiti alla libertà di manifestazione del proprio credo, diritto garantito dall’articolo 9 della Convenzione europea che ammette, però, alcune restrizioni. Per quanto riguarda l’utilizzo di simboli religiosi nelle aule di giustizia da parte di privati cittadini, i giudici ricordano che in 38 Stati non vi sono regole ad hoc e che, però, in alcuni Paesi, come Italia, Belgio, Portogallo e Slovacchia è richiesto di entrare nelle aule con il capo scoperto.

Strasburgo, poi, traccia una precisa linea di demarcazione tra utilizzo di simboli religiosi in luoghi di lavoro, in particolare da parte di dipendenti pubblici, e comportamenti di privati cittadini che indossano quei simboli. Nel primo caso, infatti, i dipendenti sono sottoposti a un dovere di neutralità e imparzialità, che include l’obbligo di non indossare simboli mentre esercitano la loro attività. In quest’ambito, per la Corte è legittimo che uno Stato fissi un divieto nei confronti delle persone che svolgono funzioni ufficiali.

Diversa soluzione per i privati. Nel caso specifico, per i giudici internazionali il ricorrente aveva dichiarato di indossare lo zucchetto per motivi religiosi. Nessun intento, quindi, di mettere in ridicolo il processo o di incitare altri a respingere i valori laici e democratici. È vero – osserva la Corte – che in alcuni casi gli interessi di un individuo devono arretrare rispetto alle esigenze della collettività, ma «la democrazia non implica semplicemente che l’opinione della maggioranza debba sempre prevalere». Spetta alle autorità nazionali, inoltre, non limitarsi a rimuovere i motivi di tensione eliminando il pluralismo, ma piuttosto assicurando che la tolleranza sia affermata e diffusa. D’altra parte il ricorrente aveva accettato di testimoniare e non aveva avuto alcun gesto di mancato rispetto.

Di qui la conclusione che la condanna inflitta dai giudici nazionali non era necessaria e che lo Stato ha oltrepassato il margine di discrezionalità violando l’articolo 9 della Convenzione.

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