Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Tempestività della contestazione disciplinare

Licenziamento e specificità della contestazione disciplinare
Licenziamento disciplinare e insussistenza del fatto contestato
Trattamento economico di festività

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 6 dicembre 2017, n. 29238

Pres. Nobile; Rel. Bronzini; P.M. Fresa; Ric. F. A.; Controric. V. I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Diversa ridistribuzione delle mansioni tra il personale in servizio - Riassetto per una più economica gestione dell'azienda - Rilevanza - Limiti

Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 della L. n. 604 del 1966, è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere suddivise tra più lavoratori, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale ultima evenienza il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, sicché non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato siano stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta.

Nota

La Corte d’Appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al lavoratore a seguito della decisione aziendale di operare una ridistribuzione tra altri dipendenti delle mansioni dallo stesso svolte, con conseguente soppressione della posizione lavorativa del lavoratore.

In particolare, anche alla luce delle dichiarazioni rese dai testi, la Corte territoriale ha rilevato che la soppressione della funzione di Incident Management cui era addetto il lavoratore licenziato era stata effettiva e non pretestuosa e derivava dalla riorganizzazione aziendale posta in essere dalla società, con notevoli risparmi per quest’ultima di costi, oltre che di vantaggi organizzativi.

Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, deducendo che le mansioni che aveva svolto non erano state soppresse, ma solo ridistribuite tra altri lavoratori.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo.

La Corte di Cassazione ha infatti dato continuità all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento la decisione datoriale di addivenire a una diversa ripartizione delle mansioni del dipendente licenziato tra gli altri lavoratori rimasti in servizio, laddove attuata al fine di una più economica ed efficiente gestione aziendale (Cass. n. 19185/2016).

Ad avviso della Corte il datore di lavoro può dunque ripartire diversamente determinate mansioni tra più dipendenti, ma è necessario che il riassetto organizzativo sia all’origine del licenziamento, non già l’effetto della ristrutturazione operata.
La Suprema Corte ha infine ricordato quanto già espresso dalla giurisprudenza più recente di legittimità (cfr. Cass. n. 25201/2016), ossia che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento può derivare anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni quali ne siano le finalità, comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all'incremento dei profitti.

  

Tempestività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 4 dicembre 2017, n. 28974

Pres. Napoletano; Rel. Lorito; Ric. B.L.; Controric. T. I. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Principi della immediatezza della contestazione - Rilevanza dell'effettiva conoscenza dei fatti addebitati da parte del datore di lavoro - Onere della prova - Accertamento di merito - Insindacabilità in Cassazione - Limiti

In materia di licenziamento per giusta causa il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell'immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall'astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei fatti.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Sollecitazione del potere disciplinare datoriale - Scritti anonimi - Idoneità - Divieto di utilizzo di cui agli artt. 240 e 333 cod. proc. pen. - Applicabilità - Esclusione - Principio di correttezza e buona fede - Ininfluenza

In materia disciplinare, nessuna norma di legge vieta che l'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro possa essere sollecitato a seguito di scritti anonimi, restando escluso solo che questi possano essere lo strumento di prova dell'illecito, né un simile divieto può desumersi dal generale principio di correttezza e buona fede, che costituisce un metro di valutazione dell'adempimento degli obblighi contrattuali e non anche una loro autonoma fonte.

Nota

Nel caso di specie, un lavoratore, addetto al servizio di recupero crediti, veniva licenziato in tronco - all'esito di un'indagine interna avviata immediatamente dopo una denuncia anonima pervenuta alla Società datrice - per aver disposto una serie di indebite operazioni di abbuono, sia nei propri confronti che verso la clientela, di fatture telefoniche emesse dalla Società, causando un pregiudizio economico all’azienda.

Il dipendente impugnava giudizialmente il recesso, censurando, in particolar modo, la carenza di tempestività della contestazione disciplinare.

Sia il Tribunale che la Corte d'Appello respingevano l'impugnativa del lavoratore, reputando tempestiva la contestazione - inviata dopo un mese dalla ricezione della lettera anonima - tenuto conto delle dimensioni dell'azienda e dell’elevatissimo numero di dipendenti.

Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando, in particolare, la violazione del requisito dell'immediatezza della contestazione disciplinare nonché l’irrilevanza probatoria della denuncia anonima, ai sensi dell’art. 240 del codice di procedura penale.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ricordando, anzitutto, che il tempo della contestazione va computato in relazione al momento di conoscenza da parte del datore dell'accadimento disciplinarmente rilevante, e non già con riferimento al momento storico del fatto contestato rispetto al suo verificarsi. In altri termini - a parere dei Giudici di legittimità - il lasso temporale tra i fatti e la contestazione deve decorrere dall'avvenuta conoscenza da parte del datore della situazione contestata e non dall'astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei fatti. Peraltro, soggiunge la Cassazione, il giudizio sull'immediatezza della contestazione è sempre da valutare in rapporto alla complessità dell'organizzazione aziendale ed al tempo necessario per gli accertamenti del caso, non potendo prescindere dal momento in cui il datore sia effettivamente venuto a conoscenza della condotta disciplinarmente illecita.

Né, la Suprema Corte ha ritenuto pertinente la censura del lavoratore, di asserita violazione dell’art. 240 c.p.p. - il quale dispone che i documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti né in alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato - trattandosi di norma specificamente dettata per il solo procedimento penale, anche in virtù del principio giurisprudenziale secondo cui «in materia disciplinare, nessuna norma di legge vieta che l'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro possa essere sollecitato a seguito di scritti anonimi, restando escluso solo che questi possano essere lo strumento di prova dell'illecito, né un simile divieto può desumersi dal generale principio di correttezza e buona fede, che costituisce un metro di valutazione dell'adempimento degli obblighi contrattuali e non anche una loro autonoma fonte». 

 

Licenziamento e specificità della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 10 novembre 2017, n. 26680

Pres. Nobile; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric. I.M.A. Contr. M.R. s.r.l.;

Contestazione disciplinare – Tempestività – Carattere relativo – Natura fiduciaria del rapporto di lavoro – Affidamento del datore di lavoro sul corretto adempimento da parte del lavoratore – Obbligo di controllo continuo sul lavoratore – Insussistenza

La tempestività della contestazione disciplinare ha carattere relativo e va valutata rispetto al momento in cui datore di lavoro ha acquisito piena conoscenza dei fatti, tenuto conto che il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dagli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del rapporto di lavoro subordinato.

Procedimento disciplinare – Contestazione – Indicazione dei fatti – Rinvio per relationem – Ammissibilità

La contestazione disciplinare non richiede l'osservanza di schemi formali prestabiliti, essendo sufficiente che la stessa consenta al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa in sede disciplinare. In tal senso è pienamente ammissibile la contestazione per relationem mediante il richiamo ad atti o a documenti che siano alla stessa allegati (nella specie, i tabulati telefonici) e che consentano di individuare i fatti nella loro materialità.

Nota

La Corte di appello di Bologna, confermando la decisione del Tribunale del lavoro di Reggio Emilia, accoglieva il ricorso presentato da un datore di lavoro per ottenere l'accertamento della legittimità del licenziamento intimato ad una propria dipendente. In particolare, la Corte di merito aveva ritenuto tempestiva la contestazione disciplinare, inviata nel gennaio del 2008, relativa all'abnorme traffico telefonico registrato nell'arco di sei mesi (febbraio/luglio 2007), perché giustificata dalla necessità di esaminare i tabulati telefonici il cui controllo analitico non veniva effettuato in via ordinaria e si era reso necessario solo allorquando era emerso un uso spropositato delle linee telefoniche. La Corte di appello riteneva infondata anche la censura relativa alla mancanza di specificità della lettera di contestazione.

Avverso tale statuizione la dipendente propone ricorso per cassazione, denunciando la violazione dell'art. 7 della L. n. 300/70, in quanto la contestazione disciplinare era stata inviata circa un anno dopo l'inizio della condotta contestata, in tal modo ledendo il diritto di difesa della lavoratrice. La Cassazione respinge il motivo rilevando che è pur vero che, nel licenziamento disciplinare, il solo elemento costituito dalle dimensioni dell'organizzazione aziendale non è sufficiente a far ritenere legittimo il ritardo nella contestazione (Cass. 9 agosto 2013, n. 19115). Ciò in quanto l'immediatezza della comunicazione della contestazione disciplinare è elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro e la non immediatezza, della contestazione o del licenziamento, induce a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto ritenendo non così grave la condotta del lavoratore (Cass. 1 luglio 2010, n. 15649). Allo stesso modo, però, la nozione di tempestività deve essere intesa in senso relativo poiché può essere compatibile con un intervallo più o meno lungo, quando l'accertamento o la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore. In tal caso la tempestività deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire la conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al suo autore, la cui prova è a carico del datore di lavoro (Cass. 26 marzo 2010, n. 7410). Nel caso in esame, a parere della Cassazione, la Corte di appello aveva fatto corretta applicazione di tali princìpi in quanto era emerso che, solo alla fine dell'anno 2007, quando erano stati eseguiti controlli a campione di fine anno, era stata inserita anche la sede cui era addetta la dipendente ed erano emerse le anomalie che avevano indotto il datore di lavoro ad effettuare approfondimenti. Con l'ulteriore precisazione che, il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dagli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del rapporto di lavoro subordinato, sicché la tempestività va valutata rispetto al momento in cui datore di lavoro ha acquisito piene conoscenza dei fatti (Cass. 17 maggio 2016, n. 10069).

Quanto alla denunciata genericità della contestazione disciplinare, la Cassazione respinge anche tale censura evidenziando che, in adesione ai princìpi più volte affermati dalla Corte, la contestazione dell'addebito non richiede l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, essendo sufficiente che vengano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o condotte contrarie ai doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. (Cass. 10 giugno 2004, n. 11045), in modo da consentire al lavoratore di esercitare il diritto di difesa. Pertanto è pienamente ammissibile la contestazione per relationem mediante il richiamo ad atti o a documenti che siano alla stessa allegati (nel caso di specie, i tabulati telefonici). 

 

Licenziamento disciplinare e insussistenza del fatto contestato

Cass. Sez. Lav. 5 dicembre 2017, n. 29062

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Fresa; Ric. S.F.; Controricorrente e ricorrente incidentale S.E.V.E.L. S.p.A..

Licenziamento disciplinare - Illegittimità licenziamento - Insussistenza del fatto contestato - Interpretazione - Fatto sussistente ma non illecito - Inclusione - Conseguenza - Reintegrazione e risarcimento del danno ex art. 18 comma 4 - Applicabilità

In tema di licenziamento disciplinare, l’insussistenza del fatto contestato di cui al comma quattro dell’art. 18 Stat. Lav., comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica, e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore, di tal che, anche in tali ultime ipotesi, si applica la tutela reintegratoria.

Congedo straordinario ex art. 42, comma 5, D.Lgs. 151/2001 – Assistenza esclusiva – Non necessità – Cura dei propri interessi personali – Ammissibilità – Limiti – Intervento assistenziale permanente, continuativo e globale

L'assistenza al familiare con grave handicap che legittima il beneficio del congedo straordinario di cui all'art. 42 comma 5 D. Lgs. 151/2001 non deve intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, quali la cura dei propri interessi personali e familiari, oltre alle ordinarie necessità di riposo e di recupero delle energie psico-fisiche, sempre che risultino complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale che deve avere carattere permanente, continuativo e globale nella sfera di relazione del disabile.

Nota

La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte attiene al licenziamento con preavviso irrogato ad un dipendente che, durante i giorni di congedo straordinario ex art. 42, c. 5, d.lgs. n. 151/2001, è stato visto dagli investigatori nella propria abitazione e non presso quella della madre disabile con cui è convivente. Il lavoratore si è giustificato affermando di averle prestato assistenza notturna, risultando anche dalla certificazione medica specialistica che la madre aveva tendenza alla fuga e insonnia notturna che rendevano necessaria la presenza del figlio di notte.

All’esito del procedimento ex L. n. 92/2012, Il Tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno, sul presupposto della “insussistenza del fatto contestato” (id est: il non aver prestato assistenza alla madre disabile e l’aver abusato del beneficio concesso ex art. 42, c. 5, d.lgs. n. 151/2001). La Corte d’Appello, poi, in sede di reclamo, pur confermando l’illegittimità del licenziamento, ha però escluso la reintegrazione ex art. 18, c. 4, Stat. Lav. e condannato la datrice di lavoro al pagamento della sola indennità risarcitoria ex art. 18, c. 5, Stat. Lav. (nella specie, pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto), ritenendo il caso riconducibile alle “altre ipotesi” in cui “non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa” menzionate da tale ultima norma. Ciò perché, secondo la Corte territoriale – pur essendo stato provato in giudizio che l’assistenza prestata dal lavoratore alla propria madre era svolta nelle ore notturne, alternandosi lo stesso, durante il giorno con altre persone – l’assistenza, per essere adeguata, avrebbe dovuto essere prestata in via principale e privilegiata da parte del lavoratore, fruitore dei congedi straordinari, e solo in via residuale da altre persone. La Corte di merito ha, dunque, rimproverato al lavoratore non di non aver assistito la madre, ma di averla assistito “meno di quanto ritenuto necessario”.

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso la società, la quale, a sua volta, proponeva ricorso incidentale, con cui si contestava la declaratoria di illegittimità del licenziamento così come affermata in entrambi i gradi di merito.

La Corte di legittimità ha preliminarmente disatteso le censure mosse dalla società, in quanto tese, nonostante la formale denuncia di violazioni di legge, a rimettere in discussione la ricostruzione del fatto storico così come operata dai giudici di merito. Ha osservato la Suprema Corte come questi ultimi, infatti, abbiano ritenuto, con accertamento insindacabile in sede di legittimità, provate la convivenza e l’assistenza notturna, anche sulla scorta di una certificazione medica specialistica che dimostrava come la disabile necessitasse di una persona che restasse sveglia di notte stante la tendenza dell’ammalata alla fuga ed all’insonnia.

Respinto il ricorso incidentale, è stato poi accolto il primo motivo del ricorso principale (id est: violazione di norme di Costituzione, di legge e di CCNL Metalmeccanici, per avere la sentenza impugnata, pur acclarata l’assistenza notturna del figlio alla madre disabile e, quindi, l’illegittimità del licenziamento, disconosciuto la tutela reintegratoria, pretendendo di qualificare l’assistenza dovuta dal lavoratore quale “principale e privilegiata”).

Ebbene, la Suprema Corte – una volta chiarito che “l’insussistenza del fatto” comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, sia privo del carattere di illiceità o di rilevanza giuridica (e, quindi, sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare), o non sia imputabile al lavoratore (Cass. n. 23669/2014; Cass. 20540/2015; Cass. 20545/2015; Cass. n. 18418/2016; Cass. 10019/2016; Cass. 13383/2017; Cass. n. 13799/2017) – ha ritenuto che, nel caso in esame, pur risultando materialmente accaduto che il lavoratore si trovasse nelle giornate di fruizione di congedo straordinario (oggetto di investigazione) lontano dall’abitazione della madre, l’addebito contestato (id est: il non aver prestato assistenza alla madre) non fosse, per ciò solo, sussistente.

Ciò perché: a) è stato smentito, secondo la ricostruzione ormai intangibile dei giudici di merito, che il figlio convivente non prestasse l’assistenza dovuta alla madre (essendo stato provato in giudizio che lo stesso assisteva la disabile di notte in via continuativa); b) l’assistenza al familiare con grave handicap, che legittima il beneficio del congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, D. Lgs. 151/2001, non deve intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, quali la cura dei propri interessi personali e familiari, oltre alle ordinarie necessità di riposo e di recupero delle energie psico-fisiche, sempre che risultino complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale che deve avere carattere permanente, continuativo e globale nella sfera di relazione del disabile. Conclusivamente, la Corte di legittimità ha considerato la condotta tenuta dal lavoratore (id est: l’essersi assentato durante il giorno dall’abitazione del disabile convivente) priva di rilievo disciplinare e, come tale, equiparabile al “fatto insussistente”.

La Suprema Corte, ha, quindi, per tali ragioni, cassato con rinvio la sentenza gravata, affinché la Corte territoriale applichi alla fattispecie de qua il comma quattro dell’art. 18 Stat. Lav.. 

 

Trattamento economico di festività

Cass. Sez. Lav. 23 novembre 2017, n. 27948

Pres. Napoletano; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. D. S.p.A.; Contoric. A.F. + 10;

Lavoro subordinato – Festività e relativo trattamento economico – Contrattazione collettiva – Fruizione della festività subordinata alle esigenze aziendali – Impossibilità in mancanza di accordo specifico – Erogazione del trattamento economico di festività anche nel caso di rifiuto della prestazione – Necessità

Il diritto al trattamento economico di festività, previsto anche in altri casi di assenza dal lavoro (come malattia e gravidanza) non può essere negato al dipendente che si rifiuti di prestare attività lavorativa nelle festività previste dalla legge.

Nota

La pronuncia in esame trae origine dal ricorso presentato da una società avverso sei sentenze di merito, tutte d’identico contenuto, del tribunale di Bergamo. Il Tribunale aveva condannato la società al pagamento ai lavoratori (ricorrenti) della retribuzione giornaliera relativa alle festività dell’8 dicembre e del 6 gennaio, nonostante i lavoratori si fossero rifiutati di prestare attività lavorativa in tali giornate.

Anche la Corte d’Appello competente, respingendo il gravame proposto dal datore di lavoro, aveva confermato la pronuncia di primo grado e condannato dunque la società al pagamento delle retribuzioni richieste.

La società ha dunque proposto ricorso in Cassazione contro tale provvedimento lamentando due differenti profili di illegittimità della decisione di merito.

In primo luogo il datore di lavoro sosteneva che al lavoratore fosse riconosciuto il diritto soggettivo di astenersi dal lavoro in occasione delle festività infrasettimanali (come nel caso di specie era avvenuto), ma che laddove il contratto collettivo applicato prevedesse un’eccezione alla regola legale, l’attività lavorativa poteva essere svolta nelle giornate festive, in caso di determinate esigenze aziendali. Si verificava, in altri termini, una deroga contrattuale al regime legale, sicché unico onere del datore sarebbe stato dare prova del presupposto di fatto (le esigenze aziendali).

La Corte ha tuttavia respinto tale motivo, in quanto infondato: sebbene fosse vero, infatti, che nel caso di specie il contratto collettivo applicato prevedeva la possibilità di prestare attività lavorativa anche durante le festività ciò non rappresentava un obbligo per il lavoratore. Più specificamente, la dizione utilizzata dal contratto collettivo (“nessun lavoratore può rifiutarsi, salvo giustificato motivo, di compiere lavoro straordinario, notturno e festivo” – contratto collettivo nazionale metalmeccanici, art. 8) non può incidere, secondo la Corte, stante la genericità del termine “festivo”, sulla disciplina di legge, che resta sovraordinata. Peraltro, la disposizione normativa (il riferimento va alla L. 260/49) non può ritenersi derogabile se non con accordo individuale del lavoratore con il datore, o da accordi sindacali stipulati da organizzazioni cui il lavoratore abbia conferito espressamente mandato.

La seconda doglianza formulata dalla società aveva ad oggetto la (contestata) spettanza del trattamento di festività anche laddove la prestazione non fosse stata resa.

Anche sotto questo profilo, tuttavia, la Corte ha respinto il ricorso: vi sono infatti taluni casi, specifica la Cassazione, in cui nonostante la mancata prestazione lavorativa, l’assenza dal lavoro viene ritenuta comunque degna di tutela: si pensi ad esempio alla malattia e alla gravidanza. Sulla scorta del medesimo principio, ritenere assente ingiustificato il lavoratore che non presti attività durante le festività di legge non è consentito. La Suprema Corte ha dunque affermato che il provvedimento con cui il datore di lavoro imponga al dipendente di prestare attività lavorativa nelle festività infrasettimanali in violazione della legge n. 260/49 è nullo, ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, che legittima l’inottemperanza del lavoratore a detto provvedimento sulla base del principio “inademplenti non est ademplendum” (sancito dall’art. 1460 c.c.). Conseguentemente «Il diritto al trattamento economico di festività, previsto anche in altri casi di assenza dal lavoro (come malattia e gravidanza) non può essere negato al dipendente che si rifiuti di prestare attività lavorativa nelle festività previste dalla legge».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©