Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Requisiti dimensionali ex art. 18, legge n. 300/70 e oneri probatori
Demansionamento, danno alla professionalità e prova presuntiva
Sulla irriducibilità della retribuzione
Rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione richiesta
Attualità della condotta antisindacale


Requisiti dimensionali ex art. 18, legge n. 300/70 e oneri probatori

Cass. Sez. Lav. 6 dicembre 2017, n. 29241

Pres. Nobile; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric. E.S. s.r.l.; Contr. D.S. A.;

Art. 18, L. n. 300/70 - Tutela reale - Requisito dimensionale- Onere di allegazione e prova in capo al datore di lavoro -Sussistenza

Ai fini dell'accertamento del requisito dimensionale richiesto per l'applicabilità della tutela reale dell'art. 18, l. n. 300/70, il numero dei dipendenti di una articolazione aziendale priva di autonomia deve essere sommato a quello dei lavoratori operanti presso la unità produttiva a cui la medesima fa capo, anche se ubicata in un altro Comune, salvo che il datore di lavoro alleghi e provi che le unità sono in realtà autonome sia sotto il profilo organizzativo che sotto quello amministrativo.

Nota

La Corte di appello di Catanzaro, confermando la sentenza del Tribunale di Crotone, dopo aver dichiarato l'illegittimità del recesso intimato ad una lavoratrice, aveva ritenuto sussistente il requisito dimensionale per l'applicazione della tutela reale ex art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300.

La Corte di appello aveva ritenuto che i dipendenti addetti ad un'unità produttiva diversa da quella in cui prestava la sua attività la dipendente licenziata, non dovessero essere esclusi dal computo del numero dei lavoratori ex art. 18, l. n. 300/70.

Avverso tale sentenza, la società propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 18, di cui sopra, e dell'art. 115 c.p.c., tenuto conto che la circostanza di fatto secondo cui l'unità produttiva di Cosenza fosse autonoma rispetto a quella di Crotone, ove era addetta la lavoratrice, non era stata specificatamente contestata dalla dipendente e, quindi, doveva ritenersi accertata.

La Cassazione respinge il ricorso rilevando che, in tema di riparto dell'onere probatorio, ai fini dell'applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l'invalidità, sono fatti costitutivi del diritto azionato dal lavoratore, l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità del recesso, mentre le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti previsti dall'art. 18, l. n. 300/70, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono essere provati dal datore di lavoro. L'individuazione di tale onere probatorio in capo al datore di lavoro, secondo la Suprema Corte, persegue la finalità di non rendere troppo difficile l'esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell'impresa (Cass. SS.UU. 10 gennaio 2006, n. 141; Cass. 19 aprile 2017, n. 9867). In merito, poi, alla denunciata errata applicazione del principio di non contestazione, la Cassazione rileva che, nel sistema di preclusioni del processo civile, la parte che ha l'onere di allegare e provare i fatti, deve anzitutto specificare le circostanze in modo dettagliato ed analitico e solo in tal caso l'altra avrà il dovere di prendere posizione verso tali allegazioni dettagliate e di contestarle, oppure di ammetterle(Cass. 15 ottobre 2014, n. 21847).Pertanto, poiché ai fini dell'applicazione del requisito dimensionale di cui all'art. 18, l. n. 300/70, il numero dei dipendenti di un'unità organizzativa priva di autonomia deve essere sommato a quello dei lavoratori operanti presso la unità organizzativa cui la stessa fa capo, il datore di lavoro che voglia avvalersi di tale autonomia organizzativa, deve allegare in maniera specifica che le unità sono autonome sia sotto il profilo organizzativo che sotto quello amministrativo (Cass. 11 aprile 2012, n. 7989). Solo in caso di puntuale allegazione, la mancata tempestiva contestazione comporta che il fatto debba ritenersi ammesso. Al contrario, nel caso in esame, rileva la Cassazione, il datore di lavoro si era limitato a rilevare che alcuni lavoratori conteggiati erano in servizio presso un'altra unità, pertanto correttamente la Corte di appello aveva ritenuto sussistente il requisito dimensionale per la reintegrazione. 

 

Demansionamento, danno alla professionalità e prova presuntiva

Cass. Sez. Lav. 10 gennaio 2018, n. 330

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.M.P.S. S.p.A.; Controric. C.S..

Demansionamento - Danno alla professionalità - Prova presuntiva - Sufficienza - Indici - Circostanze del caso concreto - Valutazione - Necessità

In tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

Demansionamento - Protrazione della situazione illegittima - Valore di acquiescenza del lavoratore o di prova della sua tollerabilità - Esclusione - Giusta causa di dimissioni - Configurabilità

Il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima, quale il demansionamento del lavoratore accertato dal giudice di merito, non può essere inteso né come acquiescenza del lavoratore alla situazione imposta dal datore (cui compete il potere organizzativo del lavoro), essendo indisponibili gli interessi sottesi ai limiti allo "iusvariandi" datoriale, né come prova della sua tollerabilità, potendo essere proprio la protrazione della situazione di illegittimità rilevante per fondare le ragioni che giustificano le dimissioni.

Nota

La Corte d’Appello di Genova ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accertato la sussistenza di un demansionamento perpetrato ai danni di un dipendente di banca rivestente la qualifica di quadro direttivo e, in parziale riforma della predetta pronuncia, previo specifico gravame del lavoratore sul punto, ha riconosciuto che le dimissioni dallo stesso rassegnate, circa tre anni dopo l’inizio del lamentato demansionamento, fossero sorrette da giusta causa.

Avverso la predetta sentenza, la società proponeva ricorso per cassazione con plurimi motivi.Resisteva con controricorso il lavoratore.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, rilevando in primis, con riferimento al demansionamento, come non sia possibile eludere ciò che in punto di fatto è stato accertato dalla Corte di merito con la sentenza impugnata, tanto più che la società ricorrente si è limitata a contestare il giudizio di equivalenza operato ai sensi dell’art. 2103 c.c.; giudizio che si risolve in un accertamento di fatto, riservato al giudice del merito ed incensurabile in cassazione se congruamente motivato.

Inoltre, la Suprema Corte ha osservato come la Corte di merito - nel ritenere accertato un danno alla professionalità - abbia fatto corretta applicazione dei principi costantemente affermati in giurisprudenza secondo cui: a) dall’inadempimento datoriale non deriva automaticamente l’esistenza di un danno; b) fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi agisce in giudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la individuazione della specie del danno, ma anche la sua liquidazione - in ipotesi anche equitativa - sindacabile in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione (v. ex plurimisCass. 21/04/2011, n. 9138; Cass. 12/05/2009, n. 10864); c) il giudice del meritopuò desumere l’esistenza del danno anche in via presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 08/09/2014, n. 18874). Pertanto, corretta è stata ritenuta dalla Suprema Corte la sentenza di merito - e, come tale, immune da censure - avendo la stessa indicato gli elementi in fatto in base ai quali ha ritenuto accertato un danno alla professionalità, confermando il giudizio del primo giudice (id est: elevato inquadramento del lavoratore, continuità e durata del demansionamento e progressivo accentuarsi dello stesso). Nella specie, infatti, è stato accertato che il lavoratore, originariamente responsabile di un’agenzia bancaria, è stato adibito alla preposizione di un gruppo di lavoro destinato a scomparire e, peraltro, collocato in una stanza da solo, privo di computer e senza alcun compito da svolgere. Situazione che si è protratta per circa tre anni determinando il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Quanto, infine, alla pure affermata, dalla Corte territoriale, sussistenza di giusta causa di dimissioni, la Suprema Corte ha ritenuto coerente e immune da vizi la sentenza gravata, che aveva rilevato come il comportamento inadempiente del datore di lavoro (id est: demansionamento) non si fosse esaurito in un fatto unico e circoscritto temporalmente, trattandosi piuttosto di un comportamento protrattosi nel tempo. Tanto coerentemente con i principi espressi dalla Corte di legittimità, secondo cui una dequalificazione protratta nel tempo ben può giustificare le dimissioni rese dal lavoratore (Cass. 21/08/2014, n. 18121) - anche quando il recesso non segue immediatamente i fatti che lo giustificano (Cass. 21/11/2011, n. 24477) - non potendo il protrarsi del tempo essere inteso né come acquiescenza del lavoratore alla situazione imposta dal datore, né come prova della sua tollerabilità, potendo essere proprio la protrazione della situazione di illegittimità rilevante per fondare le ragioni che giustificano le dimissioni (Cass. 13/06/2014, n. 13485).

 

Sulla irriducibilità della retribuzione

Cass. Sez. Lav. 6 dicembre 2017, n. 29247

Pres. Amoroso; Rel. Lorito; Ric. B.C.; Controric.I.S. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Irriducibilità della retribuzione - Estensione della garanzia alla retribuzione compensativa di particolari modalità di svolgimento dell'originaria prestazione lavorativa - Indennità estero - Esclusione - Cessazione del trattamento retributivo superiore - Legittimità

La garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa, e cioè caratteristiche estrinseche non correlate con le prospettate qualità professionali della stessa e, come tali, suscettibili di riduzione una volta venute meno, nelle nuove mansioni, quelle caratteristiche estrinseche che ne risultavano compensate. Sicchéil livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia di irriducibilità della retribuzione prevista dall'art. 2103 cod. civ., deve essere determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti, cioè, alla professionalità tipica della qualifica rivestita, mentre non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati.

Nota

Nel caso di specie, un lavoratore lamentava di aver subito -al suo rientro in Italiadopo aver svolto per oltre venticinque anni la propria attività lavorativa all'estero - un grave demansionamento nonché un'illegittima decurtazione del trattamento economico precedentemente accordatogli durante la sua permanenza all'estero.

Il Tribunale, in accoglimento del ricorso, condannava il datore di lavoro al pagamento di una somma a titolo di differenze retributive nonché di risarcimento del danno da demansionamento.

I Giudici d'appello riducevano tale condanna, argomentando che «le voci retributive di cui si componeva il trattamento retributivo percepito all'estero (trattamento ad personam, differenziale costo vita ed indennità di disagio), non potevano essere inserite nei compensi che gli competevano in relazione alla attività svolta in Italia», anche sulla base del tenore letterale delle missive con le quali il datore aveva riconosciuto i predetti benefici patrimoniali. La Corte territoriale confermava, invece, la statuizione inerente al risarcimento del danno da dequalificazione.

Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, dolendosi che la Corte d'Appello avesse negato il suo diritto a conservare il trattamento retributivo estero costituito dalla voce «ad personam», prestando acquiescenza alla statuizione concernente il «differenziale costo vita ed indennità di disagio».

La Suprema Corte respinge il ricorso, ricordando, anzitutto, che la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa, e cioè caratteristiche estrinseche non correlate con le prospettate qualità professionali della stessa e, come tali, suscettibili di riduzione una volta venute meno, nelle nuove mansioni, quelle caratteristiche estrinseche che ne risultavano compensate. Sicché, a parere della Cassazione, il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia di irriducibilità della retribuzione prevista dall'art. 2103 cod. civ., deve essere determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti, cioè, alla professionalità tipica della qualifica rivestita, mentre non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati.

Alla stregua di tali principî, il Supremo Collegio condivide il giudizio espresso dai Giudici d'Appello, a parere dei quali anche l'emolumento «ad personam» riconosciuto al dipendente andasse riferito al c.d. "trattamento estero", pertanto non spettante a seguito del rientro in Italia del lavoratore.

Segnatamente - rileva la Cassazione - appare congrua ed immune da censure l'esegesi dei documenti contrattuali ove era disciplinato il citato emolumento «ad personam» ed, in particolare, della circolare aziendale datata 18 settembre 1998, ove il predetto importo era espressamente descritto come modulato non solo sulla base di parametri riguardanti la persona e la prestazione, ma anche sulla «piazza occupata», in coerenza con l'esplicito richiamo contenuto nel menzionato documento al "trattamento ad personam per il periodo di permanenza all'etero».

Conclusione, questa, non revocabile in dubbio, a parere della Corte di legittimità, sulla base del principio enunciato nella sentenza Cass. 22 luglio 2016, n. 15217, richiamata dal ricorrente, essendo la stessa fondata «su elementi istruttori ben diversi da quelli acquisiti nel presente giudizio, risultando prodotte in quella sede buste paga dalle quali emergeva la natura del superminimo del trattamento estero ad personam, perché come tale indicato».

 

Rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione richiesta

Cass. Sez. Lav. 16 gennaio 2018, n. 836

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.S.&F. S.p.A.; Controric.M.F.;

Lavoro subordinato - Diritti e obblighi del prestatore e del datore di lavoro - Adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica - Eccezione di inadempimento da parte del lavoratore - Legittimità - Condizioni - Rifiuto aprioristico di eseguire la prestazione richiesta - Illegittimità - Fondamento - Limiti

Il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost., e potendo egli invocare l’art. 1460 cod. civ. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo.

Nota

La Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore per assenza ingiustificata dal posto di lavoro protrattasi per oltre quattro giorni ed ha conseguentemente condannato la Società alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro.

In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che l’assenza dal posto di lavoro del lavoratore adibito per circa due mesi a mansioni inferiori rispetto alla qualifica di appartenenza configurasse una legittima forma di autotutela, ai sensi dell’art. 1460 c.c.

La Società ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo che l’assenza del lavoratore dal posto di lavoro non potesse ritenersi giustificata dato che la condotta della Società non integrava i profili di gravità dell’inadempimento necessari per farsi applicazione del rimedio di cui all’art. 1460 c.c.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla Società.

La Suprema Corte, pur ritenendo provata l’esistenza dei presupposti fattuali per l’applicabilità dell’art. 1460 c.c. (poiché dall’istruttoria espletata in sede di appello era risultata provata l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori), ha tuttavia rilevato che il datore di lavoro non si era reso totalmente inadempiente agli obblighi derivanti dal sinallagma contrattuale, in quanto non erano stati compromessi i beni personali del dipendente (vita e salute) e non vi era stata quindi violazione del dovere di protezione della persona del lavoratore.

I Giudici di legittimità, affermandoil principio di cui alla massima già ribadito in numerosi precedenti (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2033, Cass. 20 luglio 2012, n. 12696; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832 e Cass. 5 dicembre 2007, n. 25313 e Cass. Cass. 19 luglio 2013, n. 17713), hanno inoltre precisato che il lavoratore che ritengadi essere stato adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli. Egli deve, infatti, eseguire le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, potendo invocare l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. solo in caso di inadempimento datoriale totale o, comunque, così grave da ledere irreparabilmente le sue esigenze vitali. Solo se il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede potrà essere invocato il principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 c.c.

In questa direzione, laddove l’imprenditore adempia gli altri fondamentali obblighi derivanti dal contratto - quali il pagamento della retribuzione e la copertura previdenziale ed assicurativa - non è, quindi, legittimo il rifiuto di eseguire la prestazione dovuta per asserita dequalificazione. 

 

Attualità della condotta antisindacale

Cass. Sez. Lav. 19 dicembre 2017, n. 30422

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; Ric. B. G. & R. F. S.P.A.; Contoric. F.L.A.I. C.G.I.L. A. P.;

Lavoro subordinato - Condotta antisindacale - Requisito dell’attualità della condotta - Condotta già esaurita con effetti durevoli - Sussistenza

In tema di repressione della condotta antisindacale, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 28 il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale.

Lavoro subordinato - Condotta antisindacale - Requisiti - Lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero - Necessità - Intento lesivo del datore di lavoro - Irrilevanza

Al fine di integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 28 è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell'illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l'effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero

Nota

La pronuncia in esame ha ad oggetto gli estremi della condotta antisindacale ex art. 28 L. 300/1970. La Corte d’Appello di Ancona dichiarava antisindacale la condotta posta in essere dalla società datrice di lavoro che aveva trattenuto, oltre alla mancata retribuzione per le ore di lavoro non prestate, otto ore di retribuzione dalle buste paga dei dipendenti che avevano aderito allo sciopero indetto dall’organizzazione sindacale appellante in un giorno nel quale erano state richieste dall’azienda, in esecuzione di un accordo sindacale aziendale, otto ore di lavoro flessibile.

La Corte d’Appello riteneva che la trattenuta operata dall’azienda avesse un’efficacia deterrente rispetto alla futura adesione di lavoratori ad iniziative simili, considerando al contempo irrilevante la mancata intenzione della società di ledere diritti sindacali. La condotta antisindacale veniva ritenuta altresì attuale per il protrarsi dell’effetto psicologico della stessa sui lavoratori e dell’incertezza degli stessi in merito al regime applicabile alla flessibilità.

La società proponeva ricorso in Cassazione contro tale provvedimento lamentando, tra l’altro, che la sentenza della Corte d’Appello fosse errata poiché da una parte aveva ritenuto attuale la condotta datoriale che si era esaurita in un unico atto (la trattenuta delle ore di retribuzione), dall’altra aveva ritenuto che la mancata intenzione datoriale di ledere le prerogative sindacali fosse irrilevante ai fini della configurazione della condotta di cui all’art. 28 L. 300/1970.

La Suprema Corte ha ritenuto infondate tutte le censure di parte ricorrente e rigettato l’intero ricorso. Quanto al primo profilo, infatti, ha affermato che «il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo». Quanto al secondo profilo, poi, la Corte ha confermato l’indirizzo già espresso dalla sentenza n. 5295 delle Sezioni Unite secondo la quale affinché sia integrata la condotta antisindacale di cui all’art. 28 L. 300/1970 è sufficiente che il comportamento in esame sia oggettivamente lesivo degli «interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro (…) sicché ciò che il giudice deve accertare è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l'effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero».

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