Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Ammanco di cassa, risarcimento del danno e onere probatorio a carico del lavoratore
Infortunio per fatti di terzi, esclusa la responsabilità del datore
Licenziamento disciplinare e diritti del lavoratore
Violazione del dovere di diligenza e risarcimento del danno
Rinnovazione del licenziamento collettivo

Ammanco di cassa, risarcimento del danno e onere probatorio a carico del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 11 gennaio 2018, n. 504

Pres. Di Cerbo; Rel. De Gregorio; Ric. M. L.; Contoric. I.S.P. S.P.A.;

Lavoro subordinato - Diligenza del prestatore di lavoro - Dipendente tenuto a custodire danaro - Ammanco di cassa - Azione di responsabilità contrattuale promossa dal datore di lavoro - Principi ex art. 1218 c.c. - Applicabilità - Presunzione di colpa per il fatto dell'inadempimento - Sussistenza - Circostanze liberatorie - Estremi - Onere della prova - A carico del debitore

Qualora il datore di lavoro, in caso di ammanco di cassa, agisca in giudizio nei confronti di dipendenti tenuti contrattualmente ad assicurare la custodia del denaro fin dal momento in cui esso sia stato loro consegnato per essere collocato in cassaforte, e a sostegno della domanda si limiti a fare riferimento al fatto dannoso per l'azienda costituito dalla perdita del denaro, trovano applicazione i principi fissati dall'art. 1218 cod. civ., il quale è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell'inadempimento, una presunzione di colpa che è superabile mediante la prova dello specifico impedimento che ha reso impossibile la prestazione o, almeno, la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell'impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore

Nota

Nel caso in esame la società datrice di lavoro aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Milano uno dei propri dipendenti per aver riscontrato una serie di anomalie nella struttura da lui diretta. Risultavano, infatti, richieste di rimborsi chilometrici per missioni non compiute e l’appropriazione di risme di carta e di denaro messo a disposizione del suo ufficio per la gestione delle spese postali. Per tali motivi la società datrice richiedeva al lavoratore oltre settecentomila euro complessivi a titolo risarcitorio.

Le domande di cui sopra venivano respinte in primo grado ma parzialmente accolte in grado d’appello ove, all’esito dell’espletamento di c.t.u. contabile, la Corte condannava il lavoratore a corrispondere alla società datrice circa seicentomila euro a titolo di risarcimento per rimborsi chilometrici e diarie non dovute, oltre che per gli ammanchi relativi tanto a denaro contate quanto ad assegni necessari per i servizi postali della banca.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore il quale, per quanto qui interessa, sosteneva, in relazione alla condanna per risarcimento danni, che la sua esclusiva responsabilità non poteva dirsi provata, così come il quantum degli ammanchi; ciò, sia per la grande confusione contabile della società datrice di lavoro emersa in corso di consulenza tecnica, sia per il fatto che la CTU aveva avuto finalità meramente esplorative volte a colmare il mancato assolvimento dell’onere probatorio incombente sulla società datrice di lavoro.

La Suprema Corte ha ritento infondate tali doglianze e rigettato l’intero ricorso. In particolare la Corte ha ribadito un suo consolidato orientamento in tema di onere probatorio secondo il quale «qualora il datore di lavoro, in caso di ammanco di cassa, agisca in giudizio nei confronti di dipendenti tenuti contrattualmente ad assicurare la custodia del denaro fin dal momento in cui esso sia stato loro consegnato per essere collocato in cassaforte, e a sostegno della domanda si limiti a fare riferimento al fatto dannoso per l'azienda costituito dalla perdita del denaro, trovano applicazione i principi fissati dall'art. 1218 cod. civ., il quale è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell'inadempimento, una presunzione di colpa che è superabile mediante la prova dello specifico impedimento che ha reso impossibile la prestazione o, almeno, la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell'impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore».

In sintesi, secondo la Suprema Corte, nel caso di specie - essendo stato accertato in giudizio l’ingiustificato ammanco di fondi - avrebbe dovuto essere il lavoratore che ne aveva la disponibilità a dimostrare che gli ammanchi fossero dovuti a causa a lui non imputabile. Conseguentemente la Cassazione ha ritenuto che la società datrice avesse adempiuto agli oneri probatori su di lei incombenti mentre non aveva fatto altrettanto il lavoratore, che si è visto pertanto confermare la condanna al risarcimento del danno. 

 

Infortunio per fatti di terzi, esclusa la responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 15 gennaio 2018, n. 749

Pres. Napoletano; Rel. Tricomi; Ric. L.F.; Controric. U.A. S.p.A. e M.I.U.R.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Salvaguardia della salute del lavoratore - Responsabilità oggettiva del datore di lavoro - Configurabilità - Esclusione

L'art. 2087 cod. civ. - nella misura in cui costruisce quale oggetto dell'obbligazione datoriale un facere consistente nell'adozione delle "misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro" - permette di imputare al datore non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quello che concretizzi le astratte qualifiche di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dovendo per contro escludersi la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita, ecc.) in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell'evento concreto che in fatto si è cagionato, cioè quando la regola cautelare violata non aveva come scopo anche quello di prevenire qual particolare tipo di evento concreto che si è effettivamente verificato (o almeno un evento normativamente equivalente ad esso).

Nota

Nella sentenza in oggetto il Supremo Collegio ribadisce i limiti della responsabilità datoriale ex art. 2087 cod. civ.

Nel caso di specie, un'insegnante agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo il risarcimento del pregiudizio sofferto per essere stata colpita ad un occhio «dal tappo di una bottiglia di spumante aperta da un alunno (...) durante l'orario di lezione», allorché «veniva celebrato il centesimo giorno prima dell'esame di maturità». Il datore di lavoro si costituiva chiamando in garanzia la compagnia di assicurazione.

Entrambi i Giudici del merito rigettavano la domanda della dipendente. In particolare, la Corte d'Appello argomentava che la responsabilità datoriale ex art. 2087 cod. civ. era configurabile solo quando «fosse aggravato il tasso di rischio e di pericolosità ricollegato alla natura dell'attività lavorativa del dipendente». Presupposto - a parere della Corte territoriale - non sussistente «atteso che il fatto avveniva in una circostanza che non evidenziava aggravamenti di rischio, e la condotta dell'alunno era abnorme e non prevedibile».

La lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione, lamentando violazione dell'art. 2087 cod. civ. e deducendo che «l'introduzione nella scuola di bevande alcoliche, prima dell'ingresso del docente, in quanto incideva sul fattore di rischio in ragione dell'alterazione che le sostanze alcoliche potevano indurre, palesava la responsabilità» del datore. In nuce, la ricorrente argomentava che l'istituto scolastico, «autorizzando l'ingresso e il consumo di alcool, aveva consentito che i ragazzi, che avrebbero dovuto essere nel pieno della lucidità, non fossero in tale stato».

La Suprema Corte respinge il ricorso, ricordando, anzitutto, che, in tema di responsabilità ex art. 2087 cod. civ., se è vero che il lavoratore ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento ed il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione ex art. 1218 cod. civ., tuttavia non è configurabile una forma di responsabilità oggettiva a carico del datore, non potendosi automaticamente desumere dal mero verificarsi del danno l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate. Segnatamente, a parere della Cassazione, quella di sicurezza è un'obbligazione "di mezzi", in cui la diligenza, oltre a costituire il criterio per valutare l'esattezza dell'adempimento, esaurisce l'oggetto stesso dell'obbligazione, traducendosi nel dovere di conoscere quei saperi e di adottare quelle tecniche considerate più attendibili nell'ottica di perseguire il fine indicato dall'art. 2087 cod. civ., e in cui il mancato conseguimento di tale fine rileva solo in quanto sussista un nesso di causalità (non solo in senso materiale, ma anche normativo) tra la condotta che detto obbligo di diligenza abbia violato e l'evento dannoso in concreto verificatosi. Vale a dire che «l'art. 2087 cod. civ. nella misura in cui costruisce quale oggetto dell'obbligazione datoriale un facere consistente nell'adozione delle "misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro", permette di imputare al datore non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quello che concretizzi le astratte qualifiche di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dovendo per contro escludersi la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita, ecc.) in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell'evento concreto che in fatto si è cagionato, cioè quando la regola cautelare violata non aveva come scopo anche quello di prevenire qual particolare tipo di evento concreto che si è effettivamente verificato (o almeno un evento normativamente equivalente ad esso)».

Ebbene - soggiunge la Cassazione - nella fattispecie, come accertato dai Giudici d'appello, «non vi erano elementi che consentivano di affermare che l'uso di alcolici fosse stato assentito; non vi era evidenza che la manovra inopinata dell'alunno fosse in qualche modo determinata da sue condizioni di alterazione per intossicazione alcolica».

Pertanto - conclude il Supremo Collegio - «la condotta abnorme e imprevedibile dell'alunno (avvicinatosi a breve distanza dall'insegnante recando in mano ed agitando la bottiglia di spumante) non consentiva di ravvisare una serie causale prevedibile e adeguata rispetto alla permessa organizzazione del festeggiamento durante l'ordinario orario di lezione scolastica».

 

Licenziamento disciplinare e diritti del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 16 gennaio 2018, n. 854

Pres. Manna; Rel. Lorito; P.M. Mastroberardino; Ric. A.A. S.p.A.; Controric. L.A.A.G.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del prestatore e del datore di lavoro - Procedimento disciplinare - Difese del lavoratore - Giustificazioni scritte - Contestuale richiesta di audizione orale - Obbligo del datore di lavoro di sentire oralmente il dipendente - Sussistenza

Il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l’audizione del lavoratore che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla presentazione delle giustificazioni scritte, anche se queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive. Queste ultime, infatti, per il solo fatto che si accompagnino alla richiesta di audizione, sono ritenute dal lavoratore stesso non esaustive e destinate ad integrarsi con le giustificazioni ulteriori che lo stesso fornisca in sede di audizione. Giustificazioni scritte del lavoratore e contestuale richiesta di audizione orale.

Nota

La sentenza in commento riguarda il caso di un dipendente che era stato licenziato dal datore di lavoro a seguito di un procedimento disciplinare aperto per gravi irregolarità commesse nello svolgimento delle sue mansioni (inserimento nel sistema di rilevazione presenze di permessi di varia natura fruiti dal lavoratore medesimo, in assenza della relativa autorizzazione).

La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970, ritenendo ingiustificato il diniego opposto dalla società alla richiesta di audizione orale, tempestivamente formulata dal dipendente nella lettera di giustificazioni.

La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, deducendo la violazione dell’art. 7, L. 300/1970, sostenendo, in particolare, che diversamente da quanto argomentato dai Giudici della Corte d’Appello, la richiesta di audizione formulata dal lavoratore doveva ritenersi «assolutamente ambigua ed incerta» e, quindi, che non vi fosse stata violazione dell’obbligo di ascoltare il lavoratore a sua difesa.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo e, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali (Cass. 22 marzo 2010, n. 6845; Cass. 9 gennaio 2017, n. 204; Cass. 16 ottobre 2010, n. 23528), ha ribadito il principio secondo il quale il lavoratore ha diritto - qualora ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta in sede di giustificazioni scritte come è risultato essere avvenuto nel caso di specie - di essere sentito oralmente dal datore di lavoro, al fine di esercitare il proprio diritto di difesa, sussistendo in tal caso il correlativo obbligo del datore di lavoro di accogliere la relativa richiesta.

Ciò anche nel caso in cui le giustificazioni scritte paiano essere, già di per sé, ampie ed esaustive.

 

Violazione del dovere di diligenza e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 12 gennaio 2018, n. 663

Pres. Bronzini; Rel. Negri Della Torre; P.M. Mastroberardino; Ric. F.L. Contr. P.I. S.p.A.;

Art. 2104 c.c. - Dovere di diligenza - Violazione - Fattispecie: rapina all'interno di un ufficio postale - Obbligo di risarcire il danno - Sussistenza

La previsione di cui all'art. 2104, comma 1, c.c., che impone al lavoratore di usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione e dall'interesse dell'impresa, comporta, per un verso, che il grado di diligenza tenga conto della complessità delle mansioni svolte, intesa non solo sul piano della difficoltà tecnica, ma anche della relativa assunzione di responsabilità; per altro verso, che la prestazione si raccordi alla specifica organizzazione datoriale in funzione della quale è resa. La violazione del dovere di diligenza può comportare per il lavoratore l'obbligo di risarcire il danno causato al datore di lavoro.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Cassazione, la Corte di appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato una lavoratrice a risarcire il proprio datore di lavoro (per un importo di euro 37.999,00 oltre interessi) per una rapina presso l'ufficio postale di cui la stessa era responsabile. La Corte di merito aveva ritenuto che il danno fosse stato causato dalla condotta negligente della dipendente, la quale aveva violato le disposizioni aziendali in tema di giacenza fondi e non aveva riposto una somma rilevante, depositata il giorno precedente la rapina, nella speciale cassaforte ad apertura ritardata. A parere dei giudici di appello la lavoratrice, che già da alcuni mesi aveva assunto la responsabilità dell'ufficio, avrebbe dovuto adottare un comportamento attivo, richiedendo alla struttura centrale quale fosse il limite di accumulo dei fondi e informandosi sul corretto utilizzo della cassaforte.

Avverso tale pronuncia la dipendente propone ricorso per cassazione denunciando l'erroneità della sentenza in quanto, secondo la sua prospettazione, era la datrice di lavoro che avrebbe avuto l'obbligo di informarla sulla esistenza di eventuali limiti di giacenza di denaro contante e sull'uso della cassaforte.

La Suprema Corte respinge il ricorso evidenziando che l'art. 2104, comma 1, c.c. prevede che il grado di diligenza dovuta dal lavoratore debba essere valutato secondo due parametri, quali la natura della prestazione dovuta e l'interesse dell'impresa: il primo criterio richiama la complessità delle mansioni svolte dal lavoratore, intesa non solo sul piano della difficoltà e dell'impegno di carattere tecnico, ma anche su quello dell'assunzione di responsabilità; il secondo parametro, invece, impone che il grado di diligenza si raccordi con la specifica organizzazione in funzione della quale è resa.

Nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità, la Corte di merito aveva correttamente ritenuto negligente la condotta della lavoratrice, in ragione delle funzioni esercitate (responsabile dell'ufficio ove era avvenuta la rapina), sottolineando l'obbligo per la stessa di farsi parte attiva, attraverso la richiesta espressa dei limiti giornalieri di accumulo contanti e le modalità di utilizzo della cassaforte.

 

 

Rinnovazione del licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav. 11 gennaio 2018, n. 511

Pres. Bronzini; Rel. Boghetich; P.M. Mastroberardino; Ric. P.D. e altri; Controric. E.G. S.p.A.;

Licenziamento collettivo - Vizio procedurale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/91 - Sanabilità - Rinnovo del licenziamento tramite nuova comunicazione finale - Ammissibilità - Condizione - Rispetto del termine di 120 giorni ex art. 8, c. 4, D.L. n. 148/1993 - Necessità

Nella materia dei licenziamenti regolati dalla l. 23 luglio 1991 n. 223, al vizio procedurale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 (contestuale comunicazione, ai lavoratori, del recesso e, agli organi amministrativi e sindacali, dei motivi del recesso medesimo) può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o la rinnovazione dell’atto viziato. Pertanto, legittimo è il rinnovo del licenziamento effettuato tramite comunicazione ai lavoratori e contestuale invio dei motivi agli organismi pubblici e sindacali, purchè sia rispettato il termine di 120 giorni dalla conclusione della procedura amministrativa, come previsto dall’art. 8, c. 4, D.L. n. 148/1993 (convertito in legge n. 236/1993).

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di licenziamenti collettivi e lo ha fatto con riferimento a un’ipotesi di “rinnovazione del licenziamento”, effettuata dall’azienda nel termine di 120 giorni dalla conclusione della procedura, per aver la stessa omesso, in occasione del primo licenziamento, la comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 agli enti amministrativi e ai sindacati.

La Corte d’Appello di Cagliari, in parziale riforma della pronuncia di primo grado - accertato che il primo licenziamento era inidoneo a estinguere il rapporto di lavoro, per essere stata la prima comunicazione di recesso inoltrata ai lavoratori sprovvista di “contestuale” comunicazione ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 (indirizzata agli organismi amministrativi e sindacali e contenente l’elenco dei lavoratori nonché le specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta) - ha condannato la società a pagare ai lavoratori il risarcimento del danno, ex art. 18 L. n. 300/1970, dalla data del primo licenziamento collettivo alla data del rinnovo della comunicazione di recesso (con contestuale invio della comunicazione finale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991); recesso, quest’ultimo, ritenuto legittimamente intimato, non essendo stato lo stesso impugnato dai lavoratori.

Avverso la predetta sentenza, i lavoratori proponevano ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso la società.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, rilevando come la Corte territoriale - nell’affermare la legittimità del rinnovo del licenziamento effettuato tramite una nuova comunicazione ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 - abbia fatto corretta applicazione del principio, già espresso dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 11/05/2000, n. 302 e Cass. Sez. Un. 13/06/2000, n. 419), secondo cui al vizio procedurale ex art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 (contestuale comunicazione, ai lavoratori, del recesso e, agli organi amministrativi e sindacali, dei motivi del recesso medesimo) può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o la rinnovazione dell’atto viziato, purché sia rispettato il termine di 120 giorni dalla conclusione della procedura amministrativa, previsto dall’art. 8, c. 4, D.L. n. 148/1993 (convertito in legge n. 236/1993) per l’intimazione dei recessi.

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