Contenzioso

Danno risarcibile anche se non c’è mobbing

di Giuseppe Bulgarini d’Elci


Ai fini della configurabilità del mobbing nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato è necessaria la ricorrenza di una serie di insostituibili condizioni:

• una molteplicità di comportamenti e azioni di natura persecutoria, posti in essere con carattere di sistematicità dal datore di lavoro o da altri responsabili aziendali nei confronti del dipendente individuato come vittima;

• l'insorgere a carico di quest'ultimo di un pregiudizio sul piano della salute o della personalità;

• il nesso di causa tra le iniziative illecite datoriali e lo stato di sofferenza psico-fisica da cui è rimasto affetto il dipendente.

La Cassazione precisa che, nel contesto del mobbing, i singoli comportamenti datoriali possono anche essere leciti se considerati isolatamente, laddove acquisiscono una connotazione persecutoria a seguito di una loro più ampia disamina nel quadro della reiterata serie di iniziative vessatorie tese a colpire il lavoratore nella sua dimensione professionale e personale.

La Corte ha espresso questi concetti, che costituiscono tradizionale approdo della giurisprudenza di legittimità in materia di mobbing, con la sentenza 3871/2018, nella quale un peso dirimente è stato assegnato alla dimostrazione, che incombe sul lavoratore in virtù dei generali principi civilistici sulla ripartizione dell'onere della prova, in merito all'esistenza di un intento persecutorio a carico del datore di lavoro.

Nel caso sottoposto al vaglio della Suprema corte, relativo ad asserite azioni vessatorie perpetrate nei confronti della dipendente di un'azienda sanitaria locale nei 4 anni che ne hanno preceduto il pensionamento, non era risultato rigorosamente dimostrato proprio l'elemento soggettivo a carico del datore di lavoro, venendo così a mancare quell'intento persecutorio in assenza del quale una pluralità di comportamenti illeciti, anche se ripetuti nel tempo con sistematicità nei confronti di un dipendente, non può integrare gli estremi del mobbing.

La Cassazione sposa, sotto questo profilo, la decisione della Corte d'appello che aveva rigettato le richieste risarcitorie per assenza di mobbing, da cui si discosta, invece, per non avere quest'ultima valutato l'autonoma rilevanza delle singole azioni illecite perpetrate nei confronti della lavoratrice e la loro capacità di produrre un danno risarcibile alla dipendente.

La Cassazione rimarca che, quand'anche non sia dimostrata la fattispecie del mobbing per carenza di prova in merito all'intento persecutorio, il giudice investito della controversia è tenuto, comunque, a verificare se alcuni dei comportamenti denunciati, anche se non riconducibili ad una comune intenzione illecita, siano espressione di un inadempimento del datore di lavoro.

In caso affermativo, conclude la Cassazione, al lavoratore deve essere riconosciuto il danno per le lesioni ricevute, anche se la domanda risarcitoria era stata formulata con specifico riferimento al mobbing e non ai singoli episodi inadempienti (tra cui il demansionamento) che il lavoratore aveva invocato a sostegno della propria denuncia.

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