Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Risoluzione del patto di non concorrenza
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro
Natura retributiva dell'indennità estero
Permessi ex 104 e part time verticale
Scuola paritaria e contratto a termine

Risoluzione del patto di non concorrenza 

Cass. Sez. Lav. 2 gennaio 2018, n. 3

Pres. Di Cerbo; Rel. De Gregorio; P.M. Sanlorenzo; Ric. A. S.p.A.; Controric. C.M.

Lavoro subordinato - Patto di non concorrenza - Risoluzione - Arbitrio datoriale - Nullità - Condizioni previste dall’articolo 2125 c.c.

La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative. Infatti, la limitazione allo svolgimento dell'attività lavorativa deve essere contenuta - in base a quanto previsto dall’articolo 2125 c.c. - entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo e compensata da un corrispettivo di natura retributiva, con la conseguenza che è impossibile attribuire al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l'attribuzione patrimoniale pattuita.

Nota

Nel caso in esame, un lavoratore appellava la sentenza del tribunale di Brescia che aveva respinto la domanda di accertamento della nullità della clausola di recesso apposta al patto di non concorrenza stipulato con la società. 

La corte di Appello, accogliendo il ricorso proposto, dichiarava nulla la clausola con la quale era stato previsto l’obbligo del lavoratore di osservare il patto di non concorrenza per i trenta giorni successivi alla risoluzione del rapporto di lavoro, riservando nello stesso periodo alla società l’opportunità di valutare se recedere, oppure no, dal vincolo contrattuale. 

Avverso la sentenza della corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione la società ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso. 

Per la Cassazione è nulla la clausola che attribuisce al datore di lavoro la facoltà di recedere dal patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto. Tale clausola, infatti, contrasta con il disposto previsto dall’articolo 2125 c.c. secondo cui la durata del patto deve essere «delimitata ex ante» e quindi non può essere soggetta ad una pattuizione che ne consenta il venire meno in ogni momento della sua durata. 

La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all'intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa sull'esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall'assunzione dell'impegno, della durata del vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero seriamente ostacolate ove il medesimo fosse soggetto alle determinazioni della controparte. Né la liberazione dal vincolo può assumere per il lavoratore un’utilità tale da compensare la situazione di precarietà sostanziale in cui verrebbe a trovarsi dopo la cessazione del rapporto, per essere costantemente soggetto alle determinazioni altrui.

Con particolare riferimento al caso in esame, per la Suprema Corte era stata correttamente accertata l’invalidità della (sola) clausola di recesso che aveva prodotto effetti vincolati solamente nei confronti del lavoratore fin dal momento successivo al superamento del periodo di prova.

 

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro 

Cass. Sez. Lav. 8 gennaio 2018, n. 204

Pres. Bronzini; Rel. Negri Della Torre; P.M. Mastroberardino; Ric. S. 3000 S.r.l.; Controric. S.A.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Obbligo del datore di lavoro di vigilare sull’uso delle misure di protezione da parte del dipendente - Sussistenza - Omissione - Responsabilità - Concorso di colpa del dipendente - Esonero da responsabilità per il datore di lavoro - Esclusione 

Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore non solo quando ometta di adottare le idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non assumendo alcun valore esimente per l'imprenditore l'eventuale concorso di colpa del lavoratore.

Nota

La Corte d’Appello di Trento, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto che sussistesse la concorrente responsabilità di lavoratore e datore di lavoro nella causazione dell’infortunio occorso al dipendente allorché quest’ultimo, mentre stava allestendo un ponteggio al terzo piano di un edificio, scivolava per circa due metri nella botola utilizzata per accedervi.

La Corte d’Appello aveva fondato l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sul difetto di vigilanza in ordine all’adozione, in concreto, da parte del dipendente, dell’imbragatura per l’aggancio della cintura di sicurezza al ponteggio.

Avverso tale decisione la Società proponeva ricorso per Cassazione, censurandola sotto due profili.

Con il primo motivo, eccepiva che la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere che la condotta posta in essere dal dipendente fosse stata la causa esclusiva dell’infortunio, avendo il dipendente trascurato, nello spostarsi da un piano all’altro del ponteggio, di richiudere la botola dietro di sé mediante l’apposito coperchio.

Con il secondo motivo, censurava la sentenza impugnata per l’avere la stessa ritenuto il datore di lavoro co-responsabile nella determinazione del sinistro occorso al lavoratore in relazione alla mancata adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica dello stesso, nonostante le risultanze istruttorie dovessero portare a una soluzione opposta.

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, rilevando che in capo al datore di lavoro sussiste l’obbligo di una «opportuna e reale sorveglianza» (in questo senso, anche Cass. n. 1687/1998 e successive numerose pronunce conformi) circa il fatto che il dipendente faccia effettivamente uso dei dispositivi di protezione sul luogo di lavoro nel compimento delle attività per le quali l’utilizzo degli stessi è richiesto. Ciò in quanto l’utilizzo di tali misure di sicurezza avrebbe potuto evitare o, quantomeno, attenuare, le conseguenze della caduta del lavoratore nella botola rimasta aperta, a nulla rilevando, quindi, che ciò fosse avvenuto anche per una condotta imprudente del dipendente.

 

Natura retributiva dell’indennità estero 

Cass. Sez. Lav. 22 febbraio 2018, n. 4340

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.S.p.A.; Controric. A.C.;

Lavoro Subordinato - Indennità estero e rimborsi delle imposte pagate all’estero - Natura retributiva - Computo nel trattamento di fine rapporto Sussistenza

All’indennità estero va riconosciuta natura integralmente retributiva, tanto nel caso in cui abbia una funzione compensativa della maggiore gravosità e del disagio morale ed ambientale dell'attività lavorativa prestata all'estero, quanto nel caso in cui essa sia correlata all'insieme delle qualità e condizioni personali che concorrono a formare la professionalità eventualmente indispensabile per prestare lavoro in territorio straniero.

Anche al rimborso delle imposte pagate all’estero da parte del datore di lavoro va riconosciuta natura retributiva, in mancanza della prova che il lavoratore, in Italia, avrebbe pagato imposte inferiori. 

Nota

Un dirigente di un istituto di credito, al termine del rapporto di lavoro, durante il quale aveva lavorato prevalentemente all’estero, agiva avanti al Tribunale di Genova al fine di ottenere l’inclusione nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto della c.d. indennità di trattamento estero e di tutti gli altri rimborsi e benefit di cui aveva goduto durante lo svolgimento dell’attività lavorativa fuori dai confini nazionali.

Il Tribunale accoglieva il ricorso del lavoratore limitatamente all’indennità di trattamento estero e al rimborso delle imposte dallo stesso pagate all’estero.

La Corte d’Appello di Genova confermava tale pronuncia rigettando sia l’impugnazione del dirigente, sia l’appello incidentale promosso dalla società. All’indennità estero veniva riconosciuta natura esclusivamente retributiva in ragione del fatto che il dirigente, durante i periodi di svolgimento della prestazione lavorativa all’estero, aveva percepito, in aggiunta a tale specifica indennità, una serie di rimborsi spese (per l’alloggio, per i viaggi e per le scuole dei figli) rispetto ai quali era stata negata la natura retributiva asserita dal dipendente. Secondo la Corte ligure, anche per il rimborso delle imposte pagate all’estero, doveva ritenersi la natura retributiva in mancanza della prova che, in Italia, il dirigente avrebbe pagato imposte inferiori, con la conseguenza che si doveva escludere che tale rimborso fosse stato corrisposto per indennizzare il lavoratore dai maggiori esborsi determinati dallo svolgimento della prestazione lavorativa all’estero.

Avverso tale decisione il datore di lavoro ricorreva in Cassazione; il dirigente resisteva con controricorso, promuovendo altresì ricorso incidentale.

La Corte di Cassazione ha rigettato sia il ricorso principale, ritenendo inammissibili i relativi motivi, sia quello incidentale.

Con riferimento alla natura retributiva dell’indennità estero, la Suprema Corte ha richiamato il principio di diritto (già affermato in Cass. 24875/2005) secondo cui all’indennità estero va riconosciuta natura integralmente retributiva, tanto nel caso in cui abbia una funzione compensativa della maggiore gravosità e del disagio morale ed ambientale dell'attività lavorativa prestata all'estero, quanto nel caso in cui essa sia correlata all'insieme delle qualità e condizioni personali che concorrono a formare la professionalità eventualmente indispensabile per prestare lavoro in territorio straniero.

 

Permessi ex 104 e part time verticale

Cass. Sez. Lav. 20 febbraio 2018, n. 4069

Pres. Mammone; Rel. D’Antonio; P.M. Servello; Ric. I e P.I. s.p.a.; Controric. D.R.;

Permessi ex L. 104/92 - Part-Time verticale - Riproporzionamento - Criteri - Modalità articolazione oraria

In tema di lavoro a tempo parziale verticale, nel regime di cui al d.lgs. n. 61 del 2000, nel bilanciamento fra il diritto del lavoratore all'integrale fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3, della l. n. 104 del 1992, fondato sulla finalità socio-assistenziale dell'istituto e sul rilievo costituzionale degli interessi protetti, e quello del datore di lavoro a non vedere irragionevolmente sacrificate le sue contrapposte esigenze, il criterio per l'applicabilità del riproporzionamento ex art. 4, lett. b), del d.lgs. cit. va rinvenuto nell’articolazione dell'orario lavorativo, sicché la fruizione dei permessi va integralmente riconosciuta solo nel caso di prestazione resa su base settimanale per un numero di giorni superiore al cinquanta per cento di quello ordinario.

Nota

La Corte d’Appello di Trento ha confermato la sentenza del Tribunale che ha riconosciuto il diritto di una lavoratrice part-time verticale (con orario di 6 ore per 4 giorni a settimana) ad usufruire di tre giorni al mese di permesso ex art. 33, comma 3, L. 104/1992 dichiarando l’illegittimità del riproporzionamento a due giorni mensili compiuto dal datore in considerazione dell’orario part-time da essa osservato.

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia l’INPS che il datore di lavoro, ed entrambi, dopo la loro riunione sono stati rigettati.

Nell’affermare il principio di cui alla massima la Cassazione richiama  espressamente la recente decisione emessa in un caso analogo (29 settembre 2017, n. 22925). Come nel precedente, la Suprema Corte compie un’approfondita analisi dell’istituto dei permessi riconosciuti dalla L. 104/92 e dei principi che regolano il lavoro part-time, evidenziando che nell’art. 4 d.lgs. 61/2000 il legislatore, in dichiarata attuazione del principio di non discriminazione, ha distinto gli istituti che hanno una connotazione patrimoniale e che si pongono in stretta corrispettività con la durata della prestazione lavorativa - per i quali è stato ammesso il riproporzionamento del trattamento del lavoratore - e gli istituti riconducibili ad un ambito di diritti a connotazione non strettamente patrimoniale, che si è inteso salvaguardare da qualsiasi riduzione connessa alla minore entità della durata della prestazione lavorativa. Non menzionando la norma i permessi in esame, la Corte precisa che vanno valutati  gli interessi in gioco e le sottese esigenze di effettività di tutela in coerenza con le indicazioni comunitarie dalle quali emerge la necessità di una valutazione comparativa delle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori. Occorre, quindi, distribuire in misura paritaria gli oneri ed i sacrifici connessi all’adozione del rapporto di lavoro part time, nello specifico, verticale. In coerenza con tale criterio, valutate le opposte esigenze, secondo la Suprema Corte appare ragionevole distinguere l’ipotesi in cui la prestazione di lavoro part time sia articolata sulla base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario, da quello in cui comporti una prestazione per un numero di giornate di lavoro inferiori, o addirittura limitata solo ad alcuni periodi nell’anno e riconoscere, solo nel primo caso, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l’esigenza di effettività di tutela del disabile, il diritto alla integrale fruizione dei permessi in discussione.

In applicazione di tale criterio, stante la modalità dell’orario di lavoro osservato dalla ricorrente, la sentenza impugnata viene confermata ed il ricorso rigettato.

 

Scuola paritaria e contratto a termine

Cass. Sez. Lav. 20 febbraio 2018, n. 4080

Pres. Nobile; Rel. Garri; P.M. Ceroni; Ric. F.F.P.T.; Controric. G.M.;

Scuola paritaria - Contratto a termine - Carenza del titolo di abilitazione all’insegnamento -  Nullità del termine - Conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato - Preclusione

Ai sensi dell'art. 1 commi 4 e 6 della legge 10 marzo 2000 n. 62, recante norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione, e degli artt. 3 e 6 della legge 19 gennaio 1942 n. 86, l'abilitazione all'insegnamento è requisito di validità del contratto di lavoro avente ad  oggetto mansioni di insegnamento. Ne discende che il mancato possesso del titolo di abilitazione rende nullo il contratto a termine concluso con una scuola paritaria e, pur accertata la illegittimità del  termine, ne preclude la trasformazione in contratto a  tempo indeterminato.

Nota

La Corte di Appello di Torino confermava la sentenza del Tribunale di Aosta che aveva dichiarato la nullità dei termini apposti ai contratti intercorsi tra un insegnante laureata in biologia priva dell’abilitazione all’insegnamento ed una scuola paritaria, dichiarando per l’effetto la conversione del rapporto in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. 

La Corte territoriale riteneva che, ai sensi della legge n. 62 del 10 marzo 2000, non fosse configurabile un divieto per la scuola privata di assunzione a tempo indeterminato di personale insegnante privo della abilitazione richiesta per la scuola pubblica, evidenziando che, ai sensi dell’art. 1, commi 4 e 6, della succitata legge, tale ultimo requisito rileva al solo fine della parificazione della scuola non statale, ma non determina la nullità del contratto di lavoro di insegnamento presso una scuola privata legalmente riconosciuta. 

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la scuola, affidato ad un unico motivo. 

Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 62 del 2000. 

In particolare, la ricorrente osservava che l’art. 1 comma 4 della succitata legge, nel dettare i requisiti per il riconoscimento della parità alle scuole non statali, stabilisce che il personale docente deve essere fornito del necessario titolo di abilitazione. Sosteneva pertanto che nel caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra una scuola paritaria ed una insegnante priva del titolo di abilitazione all’insegnamento, la mancanza del suddetto titolo precludesse la conversione del contratto in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, essendo carente un requisito essenziale di validità del contratto. 

La Suprema Corte accoglieva il ricorso e cassava la sentenza con rinvio alla Corte di appello di Torino in diversa composizione. 

La Suprema Corte, dopo aver esaminato la normativa di cui all’art. 1, commi quattro e cinque, della legge n. 62 del 2000, recante norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione, ha rilevato che, ai sensi delle disposizioni sopra riportate, l'abilitazione all'insegnamento, da parte del lavoratore inserito nel contesto di una scuola paritaria, costituisce requisito soggettivo ineludibile e necessario per la valida conclusione del contratto.

La Corte di legittimità, dando continuità ai principi ripetutamente espressi in subiecta materia, ha inoltre ribadito  che in ipotesi di rapporto di lavoro subordinato avente ad oggetto l'insegnamento presso scuole private legalmente  riconosciute, ove l'insegnante risulti  sprovvisto del titolo legale di abilitazione all'insegnamento, il contratto di lavoro deve considerarsi nullo per violazione delle citate norme di carattere imperativo, con  conseguente impedimento alla prosecuzione ulteriore del rapporto e possibilità per il datore di lavoro di intimare il licenziamento per giusta causa, pur restando fermi, ai sensi dell'art. 2126 cod.  civ., gli effetti del rapporto per il periodo in cui esso abbia avuto esecuzione (cfr. in termini Cass. S.U.,  26 maggio 2011, n. 11559; Cass. 12 marzo 2004, n. 5131; Cass. 28 giugno 1986, n. 4341).

In conclusione, la Suprema Corte ha dunque affermato il principio di diritto secondo il quale, ai sensi dell' art. 1 commi 4 e 6 della Legge 10 marzo 2000 n. 62, recante norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione, e degli artt. 3 e 6 della legge 19 gennaio 1942 n. 86, l'abilitazione all'insegnamento è requisito di validità del contratto di lavoro avente ad  oggetto mansioni di insegnamento. Ne consegue che il mancato possesso del titolo di abilitazione rende nullo il contratto a termine concluso con una scuola paritaria e, pur accertata la illegittimità del  termine, ne preclude la trasformazione in contratto a  tempo indeterminato.

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