Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Qualificazione del rapporto di lavoro
Licenziamento disciplinare/1
Licenziamento disciplinare/2
Licenziamento per giustificato motivo
Oneri di allegazione e prova del danno non patrimoniale


Qualificazione del rapporto di lavoro 

Cass. Sez. Lav. 16 aprile 2018, n. 9316

Pres. Di Cerbo; Rel. Garri; P.M. Servello; Ric. I.N.; Controric. G. S.r.l.;

Autonomia/subordinazione - Indici di subordinazione - Elementi sussidiari - Qualificazione del rapporto data dalle parti - Rilevanza - Limiti - Fattispecie

In tema di qualificazione del rapporto di lavoro caratterizzato da prestazioni lavorative dotate di contenuto intellettuale/professionale, l'esistenza della subordinazione, in assenza di indici univoci di assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, va accertata sulla base di criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione della retribuzione, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la sussistenza o meno di poteri di autorganizzazione in capo al prestatore di lavoro, non risultando del tutto assorbente, in tale contesto, il c.d. nomen iuris del rapporto intercorso fra le parti.

Nota

Il caso di specie riguarda un lavoratore che aveva svolto mansioni di pianista presso un albergo in forza di un contratto di lavoro autonomo; lo stesso aveva successivamente agito nei confronti della società proprietaria dell’hotel al fine di far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e il conseguente proprio diritto a differenze retributive.

La domanda del lavoratore veniva rigettata sia in primo che in secondo grado. In particolare, la Corte d’appello di Roma evidenziava che l'attività lavorativa (servizio di piano bar) si era svolta con autonomia di scelta del lavoratore nei contenuti e con una pur limitata organizzazione imprenditoriale, senza vincolo di esclusività e con la possibilità di farsi sostituire e di convenire, in autonomia, singole ulteriori prestazioni per eventi da svolgersi anche all'interno dell'organizzazione aziendale.

La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha rigettato il ricorso, rilevando innanzitutto che, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari - come quelli della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione (Cass. n. 9401/2017). 

Inoltre, sempre secondo la Corte, la formale qualificazione del rapporto individuata nel contratto individuale non impedisce di accertare il comportamento tenuto dalle parti nella concreta attuazione del rapporto di lavoro, al fine della conseguente qualificazione giuridica dello stesso come lavoro autonomo ovvero lavoro subordinato. Tuttavia, il nomen juris adoperato dai contraenti, pur sfornito di un valore assoluto e dirimente, non può essere del tutto pretermesso e rileva come elemento sussidiario, quando si riveli difficile tracciare il discrimine tra l'autonomia e la subordinazione (Corte Cost. n. 76/2015).

Infine, la Corte rileva che, fermo il rispetto dei criteri sopra indicati, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice di merito ad includere il rapporto nello schema contrattuale del rapporto di lavoro subordinato o autonomo costituisce accertamento di fatto che, se privo di vizi, non può essere riesaminato in sede di legittimità. 

Ciò premesso, la Corte ha affermato che, nel caso di specie, tutti i principi sopra richiamati sono stati correttamente applicati dalla Corte d’appello di Roma, che, con accertamento in fatto congruamente motivato - e, come tale, insindacabile in sede di legittimità - aveva accertato l'esistenza di elementi sintomatici confermativi della natura autonoma del rapporto intercorso tra le parti. Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha respinto il ricorso. 

 

Licenziamento disciplinare/1

Cass. Sez. Lav. 5 aprile 2018, n. 8407

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Ceroni; Ric. S.I. S.p.A.; Controric. D.A.;

Licenziamento disciplinare - Giudizio di proporzionalità - Gravità del fatto - Valutazione - Notevole inadempimento - Necessità

In tema di licenziamento disciplinare il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione rispetto all'illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura di un inadempimento tale da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto di lavoro.

Nota

La Corte di Appello di Cagliari, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento irrogato alla vice responsabile di un punto vendita per non avere la stessa impedito che altra lavoratrice, a lei gerarchicamente sottoposta, sottraesse illecitamente diversi sacchi di pellet dal punto vendita.

A fondamento della propria decisione la Corte territoriale osservava che sulla dipendente non gravava altro obbligo, nei confronti del datore di lavoro, oltre quello di avvertire i propri superiori - obbligo quest’ultimo che, nella specie, risultava assolto in entrambe gli episodi formanti oggetto di contestazione disciplinare -, non potendosi richiedere al dipendente di contestare verbalmente ad un sottoposto la commissione di un reato.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società fondato su quattro motivi.

In particolare, la società denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1375, 2104, 2105 e 2119 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello aveva escluso che la dipendente avesse altra obbligazione, nei confronti del datore di lavoro, oltre quella di avvisare i propri superiori. 

Secondo quanto sostenuto dalla società ricorrente tale statuizione era da ritenersi in contrasto, oltre che con i principi enucleabili dalla coscienza sociale, anche con l’obbligo di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e con quello di fedeltà nei confronti del datore, ed infine con la posizione di garanzia rivestita dalla lavoratrice al momento del verificarsi delle condotte illecite della dipendente subordinata, posizione che avrebbe dovuto indurla ad intervenire per impedire il compimento del fatto.  

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

Innanzitutto, la Suprema Corte rilevava che, in tema di licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo  soggettivo, ai sensi dell'art. 2119 cod. civ. o dell'art. 3 della  legge n. 604 del 1966, il  giudizio di proporzionalità o  adeguatezza della sanzione rispetto all'illecito commesso — istituzionalmente rimesso al  giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità  delI'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi in considerazione al  riguardo la circostanza che, a tutela del lavoratore, il suo  inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla  regola generale della ‘non scarsa importanza’ di cui all'art. 1455 cod. civ., sicché  l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta  giustificata solamente in presenza di un notevole  inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura di un inadempimento tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del  rapporto (conf., fra le  molte, Cass. 22 marzo 2010, n.  6848; Cass. 10 dicembre 2007, n.  25743). 

La Suprema Corte ha dunque rilevato che la Corte territoriale si era correttamente attenuta a tali principi laddove ha accertato che la lavoratrice aveva tenuto un comportamento non accondiscendente rispetto all’accaduto, avendo  provveduto, in ben due occasioni, ad informare sia il capo settore che l'assistente di filiale dei furti di sacchetti in pellet perpetrati presso il punto vendita da lei gestito, senza  peraltro che alcuno intervenisse per conto dell'azienda, o desse indicazioni sulle iniziative da prendere. La Suprema Corte ha, inoltre, rilevato che dalle  deposizioni acquisite era emerso che la condotta della  dipendente “infedele” era già nota al datore di  lavoro in relazione ad altri episodi di furto segnalati in passato, rispetto ai quali tuttavia il datore di lavoro non aveva emesso  provvedimenti disciplinari nei confronti della medesima. 

 

Licenziamento disciplinare/2

Cass. Sez. Lav. 10 aprile 2018, n. 8779

Pres. Patti; Rel. Garri; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. F. s.p.a; Controric. G.G.;

Licenziamento disciplinare - Previsione collettiva della recidiva quale presupposto per il licenziamento - Vincolatività per il giudice - Insussistenza - Permanenza del potere del giudice di valutare in concreto la gravità dei fatti contestati

La previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva, in relazione a precedenti mancanze, come ipotesi di licenziamento, non esclude il potere-dovere del giudice di valutare la gravità dell’addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva.

Nota

La Corte di Appello di Napoli ha riformato la sentenza di primo grado del Tribunale di Nola dichiarando l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente nonostante dall’istruttoria fosse emerso il compimento della recidiva contestata e considerata dal CCNL applicabile fatto idoneo a legittimare l’intimazione del recesso. La Corte territoriale, al termine dell’istruttoria, ha, infatti, ritenuto la mancata comunicazione da parte del dipendente della malattia in due occasioni da sola insufficiente a sorreggere il recesso reputando la sanzione espulsiva eccessiva sotto il profilo della proporzione, in tal modo prescindendo e superando la valutazione compiuta dalle parti sociale nel CCNL. 

Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per Cassazione affermandone - per quanto qui rileva - l’erroneità laddove la Corte territoriale ha ritenuto che ciascuna delle due contestazioni accertate non costituisse, da sola, un inadempimento tale da giustificare il licenziamento nonostante il CCNL applicabile preveda tale sanzione per il caso di recidiva in qualunque delle mancanze ivi elencate.

La Suprema Corte rigetta la censura affermando il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26741; Cass. 20 novembre 2007, n. 24132; Cass. 27 settembre 2002, n. 14041; Cass. 2 luglio 1992, n. 8098). Secondo la Cassazione, con riguardo agli episodi in relazione ai quali era stata contestata la recidiva, la Corte di merito ha correttamente ritenuto che, per poter valutare la proporzionalità della sanzione, era necessario accertare la gravità delle singole condotte. Tale scelta si pone in linea con quanto già affermato in più occasioni, laddove si è chiarito che la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in successive mancanze disciplinari, come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento, non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorché connotati dalla recidiva. Ciò al fine di accertare la proporzionalità della sanzione espulsiva, quale naturale conseguenza delle norme di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 2119 cod. civ., in base ai quali è sancito il principio che la sanzione irrogata deve essere sempre proporzionata al comportamento posto in essere. 

Il ricorso viene, pertanto rigettato. 

 

Licenziamento per giustificato motivo 

Cass. Sez. Lav. 11 aprile 2018, n. 8973

Pres. Di Cerbo; Rel. Lorito; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.M.; Controric. O.S.;

Lavoro subordinato - Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Migliore efficienza o incremento della produttività aziendale - Cessazione appalto - Legittimità

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost.

Nota

La Corte d'Appello di Reggio Calabria, riformando la sentenza del Tribunale, rigettava la domanda della lavoratrice volta a conseguire declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato dalla società.

Nel caso in esame, la ricorrente era stata assunta dalla società aggiudicataria di un appalto per il servizio di pulizia ed era stata successivamente licenziata all'esito della cessazione di detto contratto di appalto.

Per la Corte, il licenziamento di personale conseguente alla cessazione di un appalto era da inquadrare nella categoria del giustificato motivo oggettivo, dovendo reputarsi insindacabile la scelta imprenditoriale di riduzione del personale ove accertata la serietà e non pretestuosità della decisione di parte datoriale. 

Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso in Cassazione la dipendente, ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione spetta al giudice il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso.  

In particolare, deve sempre essere verificato il nesso causale tra l'accertata ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e l'intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto alla ristrutturazione o riorganizzazione. Ove il nesso causale manchi, si disvela l'uso distorto del potere datoriale, emergendo una dissonanza che smentisce l'effettività della ragione addotta a fondamento del licenziamento.

Per la Cassazione è dunque sempre necessario: che la riorganizzazione sia effettiva; che la stessa si ricolleghi causalmente alla ragione dichiarata dall'imprenditore; che il licenziamento si ponga in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione.

Con particolare riferimento al caso in esame, il controllo sulla veridicità e non pretestuosità della ragione addotta dall'imprenditore a giustificazione del motivo oggettivo di licenziamento, è stato correttamente effettuato dal giudice di merito che ha accertato che la società, cui era stato riconosciuto il diritto di svolgere in appalto il servizio di pulizia aveva successivamente cessato il contratto di appalto. Effettiva e non pretestuosa era risultata pertanto la contrazione della attività produttiva e la correlativa esigenza di riduzione del personale.

 

Oneri di allegazione e prova del danno non patrimoniale

Cass. Sez. Lav. 23 marzo 2018, n. 7296

Pres. Di Cerbo; Rel. Spena; P.M. Celeste; Ric. D.A. S.p.A.; Controric. A.V. e G. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Acquisizioni dati personali relativi alle telefonate da utenza aziendale - Illecito trattamento - Risarcimento del danno non patrimoniale - Onere di allegazione del danno effettivamente subito - Mancanza - Rigetto

Il lavoratore che agisce per il risarcimento del danno, tanto contrattuale che aquiliano, ha l’onere di allegare non solo la condotta illecita ma anche il danno effettivo da essa derivato in concreto. La mera allegazione di un danno non patrimoniale difetta di tale concretezza, costituendo una mera categoria di qualificazione del danno che non identifica i pregiudizi concreti subiti dal lavoratore, che possono inerire ai più diversi aspetti della sua vita, sia personale, sia di relazione.

L’azione di risarcimento del danno non patrimoniale non è un’azione sanzionatoria della illecita violazione di un diritto della persona, ma una azione riparatoria di un pregiudizio effettivamente subito, con la conseguenza che, in assenza di specificazione del danno, non è sufficiente l’allegazione della sola gravità della condotta illecita.

Nota

Un dirigente con mansione di direttore generale, licenziato per giusta causa, agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro per ottenere l’indennità sostitutiva del preavviso, l’indennità supplementare prevista dal contratto collettivo applicato, il risarcimento del danno alla personalità morale nonché del danno non patrimoniale derivato dal trattamento illecito di dati personali.

La domanda risarcitoria del danno non patrimoniale veniva promossa, in solido, anche nei confronti di altra impresa che, in concorso con il datore di lavoro, aveva illecitamente acquisito i dati personali relativi alle telefonate eseguite dal dirigente tramite l’utenza aziendale. Tale illecito era stato accertato dal Garante per la protezione dei dati personali, il cui provvedimento, opposto dal datore di lavoro, era stato confermato dal Tribunale di Roma.

Per quel che interessa ai fini della presente nota, entrambi i giudici di merito respingevano la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, per mancata allegazione del danno sofferto.

Avverso tale capo di sentenza, il dirigente promuoveva ricorso incidentale avanti alla Corte di Cassazione, per violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. nonché dell’art. 2697 c.c., anche in relazione agli artt. 14 e 24 Cost. In particolare, il dirigente lamentava che la Corte d’Appello lo avesse gravato di un onere di allegazione e di prova inconciliabile con il diritto costituzionale all’inviolabilità del domicilio, pregiudicato dall’illecito trattamento dei dati personali.

Con separato motivo di ricorso, il dirigente lamentava altresì la carenza di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per aver omesso l’esame delle allegazioni relative alla particolare gravità e lesività della condotta  posta in essere dalle convenute attraverso il trattamento illecito dei dati personali.

La Suprema Corte ha rigettato tali motivi, confermando la sentenza di rigetto della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale in ragione della mancata allegazione del danno in concreto subito. 

Sul punto, è stato ribadito il principio di diritto secondo cui la parte attrice in un’azione di risarcimento del danno - sia per responsabilità contrattuale, sia extra-contrattuale - ha l’onere di allegare non solo la condotta illecita ma anche il danno da essa effettivamente derivato. La mera allegazione di un danno non patrimoniale, infatti, difetta della necessaria specificità, poiché esso costituisce una mera categoria di qualificazione del danno che non identifica, di per sé, i pregiudizi subiti in concreto.

È stata quindi considerata inconferente l’allegazione del dirigente in merito alla particolare gravità della condotta illecita, in quanto l’azione di risarcimento del danno non patrimoniale non configura un’azione sanzionatoria della illecita violazione di un diritto della persona, ma una azione riparatoria di un pregiudizio effettivamente subito.

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