Contenzioso

Onere della prova sulla natura del lavoro svolto dal parente non convivente

di Salvatore Servidio

La Cassazione ha stabilito che nel caso in cui vi sia una prestazione lavorativa fra persone legate da vincoli di parentela o affinità, in difetto della convivenza degli interessati, non opera "ipso iure" una presunzione di esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a titolo oneroso.
La controversia trattata dall'ordinanza 27 aprile 2018, n. 10246, della Corte di Cassazione, riguarda l'impugnativa di atti di recupero del credito IRPEF e conseguente cartella di pagamento emessa a seguito dell'iscrizione a ruolo delle somme recuperate, che veniva respinto dalle Commissioni tributarie di merito, ritenendo che il recupero dei crediti fosse legittimo, atteso che "le prestazioni lavorative di collaborazione familiare e di assistenza a favore di parenti ed affini, anche in difetto di convivenza, si presumono gratuite" e che tale presunzione può essere superata solo con una prova rigorosa dei requisiti del rapporto di lavoro subordinato, che nel caso di specie il contribuente non avrebbe fornito.
Nel conseguente ricorso per Cassazione il contribuente denunziava violazione dell'art. 7 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, motivando che il giudice del riesame avrebbe erroneamente ritenuto sussistente una presunzione di gratuità del rapporto di lavoro tra parenti ed affini non conviventi, onerando così il contribuente stesso di provare gli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato. Ad avviso del ricorrente, invece, detta presunzione deve essere esclusa in difetto di convivenza – come era nel caso in esame, operando la diversa presunzione di onerosità della prestazione effettuata in esecuzione di un rapporto di lavoro. Sarebbe quindi spettato all'Amministrazione finanziaria e non al contribuente provare lo stato di mutua assistenza e solidarietà, da cui la gratuità del rapporto di lavoro.
La decisione
Come si evince dalla narrativa del fatto, nella specie si è trattato di accertamento e recupero, da parte dell'Amministrazione finanziaria, dei crediti d'imposta indebitamente utilizzati per manzanza dei requisiti previsti dall'art. 7 ("Incentivi per l'incremento dell'occupazione") della legge n. 388/2000.
Decidendo la vertenza, con l'ordinanza n. 10246/2018, anche la Sezione tributaria respinge il ricorso del contribuente ed afferma che nel caso in cui vi sia una prestazione lavorativa fra persone legate da vincoli di parentela o affinità, in difetto della convivenza degli interessati, non opera "ipso iure" una presunzione di esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a titolo oneroso. La parte che faccia valere diritti derivanti da tale rapporto ha comunque l'obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili della onerosità e della subordinazione.
Al riguardo, occorre tener conto che la giurisprudenza lavoristica ha ripetutamente affermato il principio che, in tema di onere della prova relativo al rapporto di lavoro subordinato, ove la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative fra persone legate da vincoli di parentela o affinità debba essere esclusa per l'accertato difetto della convivenza degli interessati, non opera "ipso iure" una presunzione di contrario contenuto, indicativa dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Pertanto, la parte che faccia valere diritti derivanti da tale rapporto ha comunque l'obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, ex art. 2697 cod. civ., tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili dell'"onerosità" e della "subordinazione" (Cass., Sez. Lav., 2 agosto 2010, n. 17992; 8 aprile 2011, n. 8070).
Sulla scorta di tale assunzione, l'ordinanza n. 10246/2018 in esame sottolinea che la decisione del giudice territoriale, anche se erroneamente abbia ritenuto operante, nella specie, la presunzione di gratuità del rapporto lavorativo anche in difetto di convivenza, risulta comunque corretta nell'esigere una prova rigorosa da parte del contribuente sull'esistenza del rapporto di lavoro subordinato a titolo oneroso, che costituisce il presupposto per l'applicazione dell'agevolazione fiscale, altrimenti non spettante.
E infatti, nel contesto tributario vige l'altrettanto rigoroso principio secondo cui, in tema di agevolazioni tributarie, chi vuole fare valere una forma di esenzione o di agevolazione qualsiasi deve provare, quando sul punto vi è contestazione, i presupposti che legittimano la richiesta dell'esenzione o dell'agevolazione (v. Cass. 30 novembre 2012, n. 21406; 4 ottobre 2017, n. 23228).
Nello specifico, l'art. 7 della legge n. 388/2000, ha riconosciuto un contributo nella forma di credito di imposta ai datori di lavoro operanti sull'intero territorio italiano che, nel periodo compreso tra il 1° ottobre 2000 ed il 31 dicembre 2003, incrementano il numero dei lavoratori dipendenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, sia a tempo pieno che a tempo parziale.
Il comma 5 della disposizione prevede poi che il credito d'imposta spetta a condizione che:
a) i nuovi assunti siano di età non inferiore a 25 anni;
b) i nuovi assunti non abbiano svolto attività di lavoro dipendente a tempo indeterminato da almeno 24 mesi o siano portatori di handicap;
c) siano osservati i contratti collettivi nazionali anche con riferimento ai soggetti che non hanno dato diritto al credito d'imposta;
d) siano rispettate le prescrizioni sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori e le Direttive comunitarie in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.
Le difese del contribuente si pongono pertanto in contrasto con entrambi i principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali, attribuendo all'Agenzia fiscale un onere probatorio non spettantele, mentre la Commissione del riesame ha ritenuto correttamente – conclude la Suprema Corte - che fosse onere del contribuente provare i requisiti per usufruire dell'agevolazione fiscale, cioè la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, senza poi fornire tale prova rigorosa

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