Contenzioso

Trasferimento illegittimo e rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione

di Elio Cherubini , Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Trasferimento illegittimo e rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione
Licenziamento disciplinare e specificità della contestazione
Licenziamento per giusta causa
Licenziamenti oggettivi, anche plurimi, per “fine lavori” nelle costruzioni edili
Demansionamento e prescrizione

Trasferimento illegittimo e rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione

Cass. Sez. Lav. 11 maggio 2018, n. 11408

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Servello; Ric. I.E.D. S.p.A.; Controric. C.A.;

Lavoro subordinato - Diritti e obblighi del prestatore e del datore di lavoro - Trasferimento del lavoratore - Ingiustificatezza ex art. 2103 c.c. - Rifiuto opposto dal lavoratore - Legittimità - Condizioni - Rifiuto aprioristico di eseguire la prestazione richiesta - Illegittimità - Fondamento - Limiti.

In tema di trasferimento adottato in violazione dell'art. 2103 cod. civ., l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'art. 1460, comma 2, cod. civ. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede.

NOTA
Il caso oggetto della pronuncia in commento riguarda il licenziamento per giusta causa intimato da una Società alla propria dipendente che, assumendo l'illegittimità del provvedimento di trasferimento, si era rifiutata di rendere la prestazione lavorativa nella sede di destinazione.
La Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento poiché, dall'istruttoria espletata, era emerso che il trasferimento della dipendente non fosse giustificato da alcuna specifica esigenza aziendale. Pertanto, ad avviso della Corte territoriale, il rifiuto della lavoratrice di prestare servizio presso la nuova sede risultava giustificato dall'inadempimento datoriale realizzatosi con la violazione dell'art. 2103 c.c.
La Società ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, rilevando, in particolare, che, come sancito in numerose pronunce di legittimità (Cass. n. 12696 del 20 luglio 2012; Cass. n. 4673 del 22 febbraio 2008), il lavoratore è tenuto a rendere la prestazione lavorativa, potendo invocare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. solo in caso di inadempimento datoriale così grave da ledere irreparabilmente le sue esigenze vitali.
La Corte di Cassazione ha accolto il predetto motivo di ricorso.
La Cassazione, prima di entrare nel merito del caso sottoposto al suo esame, ha ricordato che il rapporto di lavoro rientra nello schema dei contratti a prestazioni corrispettive, nel cui ambito la parte non inadempiente (il lavoratore) può legittimamente sospendere l'esecuzione della prestazione lavorativa se, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, il rifiuto opposto alla parte inadempiente (il datore di lavoro) non è contrario a buona fede.
Occorre dunque verificare l'entità dell'inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto degli interessi regolato dal contratto e valutare, in un'ottica di bilanciamento degli opposti interessi, se la reazione del lavoratore rispetti il canone della buona fede e non sia invece sproporzionata rispetto all'entità effettiva dell'inadempimento subito.
Secondo il principio di buona fede e di correttezza nell'esecuzione del contratto sancito dall'art. 1375 c.c., occorre, infatti, che vi sia equivalenza tra l'inadempimento altrui - che deve essere successivo e causalmente giustificato dall'inadempimento della controparte - e il rifiuto a rendere la propria prestazione (in questo senso, tra le altre, Cass. n. 2720 del 4 febbraio 2009, Cass. n. 16822 del 10 novembre 2003 e Cass. n. 1308 del 21 febbraio 1983).
Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ha ritenuto che il trasferimento di sede disposto nei confronti di un dipendente in mancanza di effettive ragioni tecniche, organizzative o produttive, non giustifica, in via automatica, il rifiuto del lavoratore di adempiere al provvedimento e, quindi, di sospendere unilateralmente la prestazione lavorativa.
La legittimità del rifiuto opposto dal lavoratore deve infatti essere verificata tenendo conto delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie e, quindi, in via esemplificativa, «dell'entità dell'inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto degli interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore sull'organizzazione datoriale e, più in generale, sulla realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell'ottica degli opposti interessi in gioco, anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli artt. 35, 36 e 41 Cost.».
La Corte di Cassazione ha comunque precisato anche che il rifiuto, per risultare legittimo, non necessita di essere sempre preventivamente avallato da un provvedimento (anche attivato in via d'urgenza) dell'autorità giudiziaria che annulli il trasferimento. Una tale conclusione finirebbe, infatti, per porre a carico del dipendente un onere eccessivo non previsto dalla legge.

Licenziamento disciplinare e specificità della contestazione

Cass. Sez. Lav. 18 aprile 2018, n. 9590

Pres. Di Cerbo; Rel. Garri; Ric. C.A.; Contoric. B.G.E.R.F. S.p.A.;

Lavoro subordinato – Licenziamento individuale – Licenziamento disciplinare –Valutazione circa la specificità della contestazione – Possibilità di tenere in considerazione la difesa esercitata in sede di giustificazioni – Sussistenza

Per ritenere integrata la violazione della garanzia prevista dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e dunque la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione

NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Napoli aveva confermato la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di rigetto del ricorso depositato dal lavoratore contro il licenziamento per giusta causa intimatogli per avere svolto attività extra-lavorativa nel corso di un periodo nel quale usufruiva di un congedo per malattia.
Nonostante le contestazioni del lavoratore la Corte territoriale aveva ritenuto la contestazione disciplinare sufficientemente specifica, tanto che il lavoratore non aveva negato i fatti limitandosi a sostenerne la compatibilità con le indicazioni terapeutiche ricevute, ed aveva ritenuto fraudolenta la condotta in questione, consistita nello svolgimento, durante la malattia, di lavori di tinteggiatura e riparazione.
Il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione contro la decisione della Corte d'Appello sostenendo in particolare, come già fatto in precedenza, che la contestazione non fosse sufficientemente specifica in quanto riportava un mero riferimento allo svolgimento di attività extra-lavorativa e non l'analitica indicazione dei fatti contestati. In particolare, secondo il lavoratore, non vi era alcuna indicazione, del luogo e del momento in cui le attività contestate erano state svolte né del fatto che la malattia fosse incompatibile con tali attività. Sempre secondo il lavoratore, la produzione soltanto in giudizio della relazione investigativa da parte della società datrice era da considerarsi tardiva: a quel punto, sosteneva il lavoratore, non era più possibile replicare puntualmente agli addebiti, dato il periodo di oltre due anni trascorso dalla condotta.
La Suprema Corte ha dichiarato infondata la censura di cui sopra e respinto l'intero ricorso.
Nella sua decisione la Corte di Cassazione, infatti, ha affermato che sebbene la condotta contestata al lavoratore debba essere correttamente individuata nella sua materialità, ivi compreso il luogo e il tempo dello svolgimento, «per ritenere integrata la violazione della garanzia prevista dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e dunque la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione». Secondo la Corte di Cassazione, dunque, nel caso di specie la Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione di tale principio, osservando che le giustificazioni rese dal lavoratore nell'immediatezza della contestazione erano state puntuali e tese a privare la condotta della sua rilevanza disciplinare, avendo il lavoratore sostenuto che le attività extra-lavorative contestate fossero compatibili con la diagnosi, le indicazioni terapeutiche e comunque non idonee ad aggravare il suo stato di salute. Conseguentemente, sostiene la Suprema Corte, la contestazione era sufficientemente chiara ed era stata ben compresa dal lavoratore, incluso il riferimento a generiche attività extra-lavorative in luogo della specifica indicazione dell'attività svolta. Ciò anche in considerazione del fatto che, sempre coerentemente con i principi di cui sopra, la contestazione era riferita a giornate lavorative individuate.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 27 aprile 2018, n. 10280

Pres. Nobile; Rel. Arienzo; Ric. O.G.; Controric. E.C. S.r.l.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Giusta causa - Diffamazione - Presupposti - Social network - Sussistenza.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione, comportando il postare un commento su Facebook la pubblicizzazione e diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, tra cui il datore di lavoro, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno deve essere valutato in termini di giusta causa, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.

NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte si pronuncia sull'idoneità della condotta di un lavoratore – consistita nella pubblicazione su una bacheca virtuale di espressioni manifestanti disprezzo nei confronti del datore di lavoro – ad integrare una giusta causa di recesso ex art. 2119 cod. civ.
Segnatamente, nel caso di specie, il licenziamento disciplinare era motivato dalla pubblicazione da parte di un dipendente sulla propria bacheca Facebook di un post «in cui si esprimeva disprezzo per l'azienda (“mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà”)», con agevole identificabilità dell'obiettivo dell'espressione spregiativa.
Il lavoratore impugnava giudizialmente il recesso; senonché entrambi i giudici del merito rigettavano l'azione, dichiarando la legittimità del licenziamento.
In dettaglio, la Corte territoriale affermava che la condotta del dipendente sopra descritta integrava la fattispecie della diffamazione, come tale idonea ad incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro e deducibile, quindi, a giusta causa di licenziamento, tanto più – soggiungevano i Giudici di appello – che nella fattispecie «alle invettive rivolte all'organizzazione aziendale ed ai superiori si aggiungeva la prospettazione del ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi di vedute con il datore di lavoro, e ciò da parte di soggetto caratterizzantesi per una documentata frequente morbilità».
I Giudici del merito respingevano anche l'ulteriore argomento difensivo del lavoratore, a mente del quale la condotta ascritta fosse giustificata dal peculiare stato psichico di quest'ultimo: i testi – motivava la Corte d'appello – avevano escluso che in capo al dipendente fossero ravvisabili condizioni di particolare aggravio o stress quanto alle condizioni di lavoro e che, pertanto, era da considerarsi vano il tentativo di individuare un'esimente della condotta diffamatoria del lavoratore nelle condizioni di lavoro ed in un (indimostrato) stress lavoro-correlato.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunziando violazione e falsa applicazione, inter alia, degli artt. 2106 e 2119 cod. civ., in quanto, a suo dire, non sarebbero stati adeguatamente apprezzati il peculiare profilo psicologico e il basso grado di intenzionalità della condotta addebitata, tenuto anche conto che l'uso dello strumento informatico avrebbe determinato l'inconsapevolezza di esporre nel mondo reale il proprio sfogo, diretto nelle intenzioni a pochi pre-selezionati interlocutori.
Il Supremo Collegio respinge tali censure rammentando, anzitutto, che la giusta causa di licenziamento può essere integrata anche da un comportamento di natura colposa, allorché sia idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto. Conclusione, questa, vieppiù corretta - a parere della Cassazione - nel caso de quo, attesa la mancanza di ogni segno di resipiscenza dopo la fase reattiva da parte del lavoratore, che era andato ben oltre il contegno diffamatorio, laddove aveva, altresì, prospettato il ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi con la società datrice; e ciò, vieppiù rilevante, da parte di soggetto caratterizzantesi per documentata e frequente morbilità. Ciò che, per i Giudici di legittimità, unitamente alla ravvisata mancanza di correlazione tra ambiente lavorativo e stress da lavoro, accertata in sede istruttoria, rendeva ragione della esaustività della valutazione compiuta dalla Corte territoriale, non essendo rilevabile dal contenuto della decisione di merito che fosse specificamente in discussione la capacità di comprensione e l'equilibrio psichico del dipendente.
In definitiva – conclude la Suprema Corte – la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione, comportando il postare un commento su Facebook la pubblicizzazione e diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno deve essere valutato in termini di giusta causa, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.

Licenziamenti oggettivi, anche plurimi, per “fine lavori” nelle costruzioni edili

Cass. Sez. Lav. 21 maggio 2018, n. 12439

Pres. Patti; Rel. Leone; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. D.S.S.; Controric. C. S.p.A..

Licenziamento collettivo – Fattispecie – Fine lavoro nelle costruzioni edili – Deroga alla procedura per i licenziamenti collettivi ex art. 24, c. 4, L. n. 223/1991 – Esaurimento di una fase dei lavori – Applicabilità – Condizioni – Obbligo di repechage – Sussistenza – Onere della prova – A carico del datore – Onere di allegare una possibilità di reimpiego – A carico del lavoratore

L'esclusione dell'obbligo di osservare le procedure dettate per i licenziamenti collettivi, prevista dall'art. 24, comma 4, della legge 23 luglio 1991 n. 223, per la “fine lavoro nelle costruzioni edili”, opera anche nel caso di esaurimento di una singola fase di lavoro, che abbia richiesto specifiche professionalità, non utilizzabili successivamente; ciò integra gli estremi di un giustificato motivo di licenziamento individuale, anche se plurimo, ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1996, n. 604, fermo restando che, al fine di poter ritenere giustificato il recesso, è necessario che il datore di lavoro dimostri l'impossibilità di utilizzare il lavoratore medesimo in altre mansioni compatibili nell'ambito dell'organizzazione aziendale, salvo in ogni caso, l'onere in capo al lavoratore di allegare l'esistenza di una tale possibilità di reimpiego (Nella specie, l'attività, relativa ad una fase dei lavori era esaurita ed era impossibile reimpiegare il lavoratore in altri cantieri della società, essendo questi ultimi, pienamente occupati).

NOTA
La Corte d'Appello di Caltanisetta, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore. Ciò in quanto aveva ritenuto operativa la previsione di esclusione dell'obbligo di osservare le procedure dettate per i licenziamenti collettivi, di cui all'art. 24, c. 4, L. n. 223/1991, anche nelle ipotesi di esaurimento di una singola fase di lavoro nel settore edile, e non soltanto nel caso di definitiva cessazione del lavoro di cantiere. In particolare, il Giudice del gravame aveva ritenuto provato che: 1) il licenziamento era intervenuto per esaurimento di una fase di lavoro cui era preposto il lavoratore; 2) era impossibile reimpiegare quest'ultimo in altro cantiere della società.
Avverso la predetta sentenza, proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando, coerentemente ad altre pronunce (Cass. 04/03/2015, n. 4349; Cass. 28/11/2014, n. 25349) che: a) la “fine lavoro” nelle costruzioni edili – che, a norma dell'art. 24, l. n. 223/1991, esclude l'applicabilità delle procedure per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale – non consiste solo nella cessazione dell'attività dell'impresa o nel compimento dell'opera, ma anche nell'esaurimento di una fase dei lavori, per l'esecuzione dei quali, i lavoratori, anche per loro peculiari professionalità, erano stati assunti; b) anche in caso di esaurimento di una fase del lavoro è, dunque, legittimo licenziare (con licenziamento individuale, anche plurimo, ai sensi dell'art. 3, L. n. 604/1966, per giustificato motivo oggettivo), il lavoratore, purchè nei limiti di operatività dell'obbligo di repechage, ovvero a fronte di elementi di prova che attestino la impossibilità di utilizzare lo stesso lavoratore in altre attività dell'impresa; c) l'onere di dimostrare l'impossibilità del reimpiego è a carico del datore di lavoro, mentre il correlativo onere di allegare l'esistenza di siffatta possibilità è a carico del lavoratore.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha evidenziato come la Corte territoriale ha fatto corretto utilizzo di tali principi, allorchè ha valutato l'esistenza di sufficiente prova, anche attraverso il ricorso a presunzioni (quali, la piena occupazione negli altri cantieri e la assenza di altre assunzioni per mansioni simili a quelle svolte dal dipendente licenziato), circa la impossibilità del reimpiego.

Demansionamento e prescrizione

Cass. Sez. Lav. 16 aprile 2018, n. 9318

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; Ric. S.M.R. Contr. U. S.p.A.;

Demansionamento – Illecito permanente – Risarcimento del danno – Dies a quo prescrizione – Verificazione del danno – Illegittimità – Cessazione della condotta illecita – Legittimità.

Ai fini della individuazione del dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale, la giurisprudenza ha distinto tra illecito istantaneo con effetti permanenti, per il quale la prescrizione decorre dalla data in cui si è verificato il danno, e illecito permanente, nel quale la condotta contra ius si protrae e, quindi, la prescrizione decorre dalla data di cessazione della condotta inadempiente.

NOTA
La Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto la domanda avanzata da una dipendente di un istituto di credito, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno da demansionamento (nelle componenti del danno professionale e del danno biologico).
In particolare, la Corte di appello aveva ritenuto accertato il demansionamento subìto dalla lavoratrice dalla data di reintegra nel posto di lavoro, a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento, fino al giugno 1998, data nella quale era stato assegnato alla dipendente un incarico effettivamente equivalente a quello svolto prima del recesso. In relazione al danno professionale, la Corte di appello aveva accolto l'eccezione di prescrizione decennale sollevata dal datore di lavoro; pertanto, considerato che il rapporto era assistito da stabilità reale, il dies a quo andava individuato con riferimento al momento in cui il danno si era manifestato, conseguentemente, aveva dichiarato prescritta ogni pretesa risarcitoria per il periodo antecedente il decennio, decorrente dalla data di notifica del ricorso di primo grado.
Avverso tale pronuncia la lavoratrice propone ricorso per cassazione denunciando la violazione degli artt. 1218, 2087, 2103 e 2935 c.c., censurando la decisione di appello nella parte in cui non aveva rilevato che, in caso di condotta datoriale inadempiente, non istantanea ma permanente, come nel caso di specie, la prescrizione non decorre dalla data in cui si è verificato il danno, ma da quella di cessazione della condotta illecita.
La Corte di Cassazione nell'accogliere il ricorso osserva che, ai fini della individuazione del dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale, la giurisprudenza ha distinto tra illecito istantaneo con effetti permanenti - caratterizzato da un'azione che unu actu perficitur, che cioè si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando peraltro permanere i suoi effetti nel tempo - e illecito permanente nel quale la condotta contra ius si prolunga, così protraendo la verificazione dell'evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce (Cass. SS. UU. 14 novembre 2011, n. 23763). Pertanto, nel primo caso, la prescrizione ex art. 2935 c.c., inizia a decorrere dalla data in cui si è verificato il danno (purché il danneggiato ne sia consapevole e non sussistano impedimenti giuridici a far valere il diritto al risarcimento), mentre, nel secondo caso, la prescrizione della pretesa risarcitoria decorre dalla data di cessazione della condotta illecita (cfr. Cass. 30 marzo 2011, n. 7272; 7 novembre 2005, n. 21500). A parere della Cassazione, la Corte di appello, non ha fatto corretta applicazione di tali princìpi, laddove ha fatto decorrere la prescrizione dalla data di manifestazione del danno e non, come avrebbe dovuto, dalla data di cessazione della condotta illecita.
L'accoglimento del ricorso comporta il rinvio della sentenza alla Corte di appello di Napoli tenuta a pronunciarsi secondo il principio di diritto espresso.

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