Contenzioso

Il perimetro del licenziamento per giusta causa

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Lavoro a tempo parziale e trattamento economico
Licenziamento per giusta causa/1
Licenziamento per giusta causa/2
Licenziamento di dirigente
Patto di non concorrenza

Lavoro a tempo parziale e trattamento economico

Cass. Sez. Lav. 27 giugno 2018, n. 16945

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Mastrobernardino; Ric. A. S.p.a.; Controric. A.R.

Lavoro subordinato - Part-time - Principio di non discriminazione - Divieto di trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile - Nozione - Criteri di classificazione previsti dai contratti collettivi - Necessità

In tema di lavoro a tempo parziale, il lavoratore in regime di part-time non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile, individuato esclusivamente in quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi.

NOTA
La Corte d'appello di Milano rigettava l'appello della società avverso la sentenza di primo grado, che l'aveva condannata al pagamento di differenze retributive in favore di un lavoratore assunto a tempo parziale.
Per la Corte tale importo spettava al lavoratore in ragione dell'ingiustificato trattamento meno favorevole ricevuto. Nel caso concreto infatti non erano state garantite le medesime condizioni (proporzionate rispetto alla quantità di lavoro prestata), corrisposte ad un altro lavoratore assunto a tempo pieno che svolgeva identiche mansioni.
Avverso la sentenza della Corte di appello, la società ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell'articolo 4 D.Lgs. 61/2000.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Secondo la Cassazione, in tema di lavoro a tempo parziale, il rispetto del principio di non discriminazione stabilito dall'art. 4 D.Lgs. 61/2000, attuativo della direttiva 97/81/CE relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale, comporta che il lavoratore in regime di part-time non debba ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile. Il lavoratore con cui compiere il confronto deve essere esclusivamente quello inquadrato nello stesso livello, nel rispetto dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi richiamati dallo stesso decreto (i.e. contratti collettivi territoriali e nazionali stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi), con la conseguenza dell'inammissibilità di criteri alternativi di comparazione.
Con riferimento al caso in esame, per la Cassazione, la Corte di merito aveva correttamente accertato che il confronto non era avvenuto sulla base di paramenti omogenei e che pertanto al lavoratore part-time aveva ricevuto un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile.

Licenziamento per giusta causa/1

Cass. Sez. Lav. 4 giugno 2018, n. 14197.

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. P.P.; Controric. B.P. S.r.l.;
Licenziamento per giusta causa – Insubordinazione – Sussistenza – Motivo illecito non determinante – Irrilevanza – Onere della prova in capo la lavoratore.

Una volta accertata l'esistenza di una giusta causa di recesso, di per sé idonea a giustificare il licenziamento, l'eventuale esistenza di un concorrente motivo illecito, da provarsi a cura del lavoratore, è irrilevante. Il motivo illecito determina la nullità del licenziamento solo quando il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, con la conseguenza che la nullità deve essere esclusa anche quando con l'eventuale motivo illecito concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa a norma dell'art. 2119 c.c.

NOTA
Una dipendente veniva licenziata per giusta causa per essersi rivolta con toni violenti ed epiteti fortemente ingiuriosi nei confronti dell'amministratore unico della società datrice di lavoro. Nell'impugnare il recesso avanti al Tribunale di Milano, la lavoratrice ne deduceva la natura ritorsiva, in ragione della sua qualità di socia e dei rapporti conflittuali intercorsi con l'amministratore unico, fratello della stessa ricorrente nonché socio dell'impresa, con il quale erano sorti da tempo motivi di disaccordo sulla gestione sociale. La ricorrente, a supporto della domanda di reintegrazione, produceva un lodo arbitrale che aveva annullato una delibera assembleare ed accertato talune irregolarità commesse dal fratello, deducendo altresì che quest'ultimo le era solito rivolgersi in modo volgare ed aggressivo.
Il Tribunale, sia nella fase a cognizione sommaria, sia in quella successiva di opposizione, rigettava il ricorso della dipendente alla luce dell'istruttoria svolta che aveva confermato la veridicità degli addebiti contestati. La condotta gravemente insubordinata della dipendente, infatti, veniva considerata tale da integrare una giusta causa di recesso e, di per sé, sufficiente ad escludere che il prospettato motivo illecito avesse avuto rilievo unico e determinante rispetto al licenziamento.
La Corte d'Appello di Milano rigettava il reclamo proposto dalla dipendente, confermando che la ritenuta sussistenza della giusta causa di recesso fosse di per sé sufficiente ad escludere la rilevanza di qualsiasi motivo illecito.
Avverso tale decisione la lavoratrice ricorreva in Cassazione; il datore di lavoro resisteva con controricorso.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo inammissibili buona parte dei relativi motivi ed infondato quello attinente alla pretesa violazione degli artt. 7 e 18 dello Statuto di Lavoratori nonché degli artt. 1345 e 2119 c.c., per mezzo del quale, la dipendente lamentava che ai fini dell'illegittimità del licenziamento è sufficiente che lo stesso sia stato determinato da un motivo illecito, non essendo invece necessario che tale motivo sia stato l'unica ragione del recesso.
La Suprema Corte, sul punto, ha ribadito il principio di diritto (già affermato, tra le altre, da Cass. 3689/2015 e Cass. 12349/2003) secondo cui il motivo illecito determina la nullità del licenziamento solo quando il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, con la conseguenza che la sussistenza di una giusta causa di recesso comporta, di per sé, l'irrilevanza di un eventuale motivo illecito concorrente.
È stata poi confermata la decisione di merito anche con riferimento al mancato assolvimento da parte della lavoratrice dell'onere probatorio in merito al dedotto motivo illecito, in quanto la ricorrente si era limitata a produrre il lodo arbitrale senza tuttavia fornire alcuna effettiva prova che il recesso fosse stato adottato per un diverso motivo illecito determinante.

Licenziamento per giusta causa/2

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2018, n. 12798

Pres. Patti; Rel. Cinque; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. B.S.; Controric. A. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Gravità dell'addebito - Parametri - Contenuto obiettivo e profilo soggettivo - Rilevanza - Fattispecie.

Nel valutare la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, la mancanza commessa dal dipendente va considerata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, con specifico riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stata posta in essere, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente.

NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giusta causa di un lavoratore, dipendente di una società che gestiva un impianto di termovalorizzazione e che operava a stretto contatto con l'Autorità Giudiziaria e con le Forze di Polizia nell'attività di distruzione dei corpi di reato. L'addebito a fondamento del licenziamento consisteva nella sottrazione, da parte del lavoratore, di beni altrui in giacenza presso la società, costituenti anche corpo di reato.
Il licenziamento veniva dichiarato illegittimo dalla Corte d'Appello di Trento che, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannava la società al pagamento dell'indennità risarcitoria di cui al comma 5 dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nella misura di 12 mensilità di retribuzione. In particolare, la Corte giungeva a tale conclusione rilevando che il fatto materiale sussisteva, ma la reale portata della vicenda - limitata ad uno o due paia di scarpe - era meno rilevante rispetto al fatto contestato (“varie scatole di scarpe”) sia sotto il profilo del danno che dell'intensità dell'elemento soggettivo.
La sentenza di secondo grado è stata impugnata dal lavoratore e la società ha proposto a sua volta ricorso incidentale.
La Corte di Cassazione ha accolto uno dei motivi di ricorso incidentale, riguardante la valutazione della gravità del fatto, rilevando, innanzitutto, che la giusta causa di licenziamento costituisce una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con disposizioni di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama (cfr. Cass. n. 18715/2016).
Per stabilire, poi, se sussiste la giusta causa di licenziamento e se è stata rispettata la regola codicistica della proporzionalità della sanzione, occorre accertare in concreto se - in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il lavoratore e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava - la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stata posta in essere, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (cfr. Cass. n. 5943/2002).
Ebbene, sulla base di tali principi, la Corte di Cassazione ha rilevato che, nel caso di specie, la sentenza impugnata non è condivisibile, poiché la Corte territoriale non aveva tenuto in debita considerazione le esigenze e le finalità delle regole di disciplina dettate dalla società datrice di lavoro che, come anticipato, operava a stretto contatto con l'Autorità giudiziaria e con le Forze di Polizia nell'attività di distruzione dei corpi di reato, ragion per cui il comportamento illecito del dipendente aveva chiaramente portato discredito alla società. I giudici di seconde cure non avevano, poi, neppure tenuto in debito conto l'effettiva natura dell'azione compiuta, nella sua essenza, e cioè la sottrazione di merce contraffatta costituente corpo di reato e destinata alla immediata distruzione, nonché il suo disvalore giuridico e sociale, a prescindere dall'aspetto quantitativo e dal danno della sottrazione medesima. La Corte territoriale non aveva ben valutato, infine, sotto il profilo soggettivo, che la detenzione della merce contraffatta era di per sé illecita anche poiché astrattamente costituente il reato di ricettazione e di ciò il dipendente, inserito in quella organizzazione aziendale, non poteva non esserne a conoscenza.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata.

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 20 giugno 2018, n. 16261

Pres. Manna; Rel. Patti; P.M. Matera; Ric. G.I.; Controric. e ric inc. U. s.p.a.;

Licenziamento dirigente - Motivazione oggettiva - Giustificatezza - Crisi aziendale e/o impossibilità di prosecuzione del rapporto - Necessità - Insussistenza

Il licenziamento individuale del dirigente d'azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost..

NOTA
La Corte d'Appello di Roma ha rigettato l'appello principale (della società) e quello incidentale (del dirigente) avverso la sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento per giusta causa, confermando: a) la condanna del datore al pagamento dell'indennità di mancato preavviso e dell'indennità suppletiva; b) il rigetto delle domande del dipendente inerenti la presunta discriminatorietà del licenziamento e le richieste risarcitorie avanzate a vario titolo.
A fondamento della decisione, riprendendo la motivazione del giudice di primo grado, la Corte territoriale ha negato, da una parte, la sussistenza di un motivo illecito e/o discriminatorio e, dall'altra, l'esistenza di una giusta causa ed anche della giustificatezza del licenziamento intimato. Quanto alle conseguenze, la Corte ha liquidato l'indennità suppletiva nella misura massima in ragione dell'accertata infondatezza degli addebiti contestati - peraltro a distanza di anni - e tenuto conto della rilevante anzianità di servizio del dipendente.
Avverso tale decisione il dirigente ha proposto ricorso per Cassazione affidato a sette mortivi e la società ha resistito con controricorso, spiegando, a sua volta, ricorso incidentale.
Limitando l'analisi a quel che qui rileva, con il principio di cui alla massima la Suprema Corte richiama precedenti specifici in termini (Cass. 20 giugno 2016, n. 12668; Cass. 8 marzo 2012 n. n. 3628), ribadendo principi sostanzialmente valevoli anche per le altre categorie di lavoratori subordinati, essendo ormai maggioritario l'orientamento giurisprudenziale che non ritiene necessaria l'esistenza di una crisi aziendale per la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso. Ciò tanto più vale per i dirigenti, la cui nozione di giustificatezza è molto più ampia. Come ricorda, infatti, la Cassazione, essa non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, rilevando, invece, qualsiasi motivo che lo sorregge, basato su motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, senza necessità di un'analitica verifica di specifiche condizioni, nella sufficienza di una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza di poteri attribuiti al dirigente (Cass. 19 agosto 2005, n. 17039; Cass. 17 marzo 2014, n. 6110).
A parere della Suprema Corte i giudici territoriali hanno correttamente applicato tali principi, avendo riscontrato - fornendo ampia ed adeguata motivazione - non ricorrere in fatto ragioni di giustificatezza del licenziamento.
Entrambi i ricorsi vengono, pertanto, respinti.

Patto di non concorrenza

Cass. Sez. Lav. 11 giugno 2018, n. 15097

Pres. Napoletano; Rel. Arienzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. R.C.; Controric. C.I. S.R.L.;

Patto di non concorrenza – Risoluzione del rapporto di lavoro – Divieto di attività successive – Violazione – Sussiste

Nel rapporto di lavoro subordinato il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo e l'ampiezza del vincolo deve essere tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita.

NOTA
La Corte di Appello di Brescia confermava la sentenza di primo grado che, dopo aver accertato la violazione da parte del lavoratore del patto di non concorrenza, contenuto nel contratto individuale di lavoro stipulato con la società resistente – rappresentante in Italia di una ditta tedesca produttrice di macchine separatrici di carne, destinate al settore avicolo -, aveva condannato il dipendente a pagare alla stessa l'importo percepito in costanza di rapporto a titolo di corrispettivo del medesimo patto.
Il patto di non concorrenza prevedeva, nello specifico, il divieto di svolgimento, per la durata di un anno successivamente alla risoluzione del rapporto, di attività lavorativa di qualsivoglia tipo o natura, sia autonoma che subordinata, ed anche per il tramite di terzi, nel settore nel quale era inserita l'azienda o, comunque, in ogni ambito aziendale in cui potesse essere sfruttata la tecnologia che presiedeva alla produzione della stessa.
Il giudice del gravame riteneva che il lavoratore, avendo fornito informazioni tecniche sulle macchine separatrici prodotte dalla ditta tedesca al progettista della società alle cui dipendenze era passato a lavorare, una volta risolto il rapporto di lavoro con la precedente società datrice, fosse in tal modo contravvenuto al suddetto patto, che doveva intendersi riferito, oltre che alla vendita di macchine separatrici nel settore avicolo, anche all'attività tecnica, purché relativa allo stesso settore.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore, fondato su due motivi.
In particolare, il ricorrente denunciava violazione e/o falsa applicazione dei canoni legali di cui agli artt. 1367 e/o 1371 c.c., oltre che dell'art. 2125 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici di appello non avevano limitato l'obbligo di non concorrenza alla vendita delle macchine separatrici nel settore avicolo, ovvero all'attività svolta dalla precedente società datrice, ma ne avevano esteso l'operatività anche allo svolgimento dell'attività tecnica in detto settore, oltre che ad altri settori alimentari, quali quello del pesce.
In tal modo, secondo il ricorrente, era stato violato il criterio di ermeneutica secondo cui le clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, ed era stata privilegiata un'interpretazione che rendeva il patto nullo per evidente indeterminatezza dei limiti di oggetto e luogo, come previsto dall'art. 2125 c.c., così considerandosi inibito al lavoratore di realizzare la propria concreta professionalità in ogni settore.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto premesso che nel rapporto di lavoro subordinato il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo e che l'ampiezza del vincolo deve essere tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita (cfr. Cass. 4 aprile 2006, n. 7835; Cass. 2 maggio 2000, n. 5477).
Tanto premesso, la Suprema Corte ha rilevato che i giudici di appello non erano incorsi in alcuna violazione dei criteri ermeneutici, avendo correttamente enucleato l'ambito del patto tenendo conto sia della connessione logica delle espressioni utilizzate, sia dell'attività in concreto svolta dal lavoratore prima della risoluzione del rapporto, che funge anch'essa da parametro, in sede interpretativa, nel giudizio relativo all'asserita estensione del patto di non concorrenza e conseguente violazione di esso.
Con riferimento alla pregressa attività del dipendente, i giudici di legittimità hanno evidenziato che dall'espletata istruttoria era emerso come l'attività dello stesso non fosse limitata alla vendita, ma avesse riguardato anche la parte tecnica, in quanto attraverso la progettazione era necessario adattare le macchine alle esigenze dei diversi clienti, ai quali il ricorrente, una volta terminata l'installazione, era solito mostrare anche il funzionamento, con estensione dei compiti, talvolta, anche alla manutenzione delle macchine.
La Suprema Corte ha, inoltre, rilevato che a fronte della ricostruzione della comune volontà delle parti attraverso l'applicazione delle norme strettamente interpretative, ed in particolare dello strumento della connessione logica delle espressioni usate, è precluso il ricorso, tra gli altri, al canone integrativo della conservazione del contratto, previsto dall'art. 1367 cod. civ., che è utilizzabile solo quando il senso del contratto e della clausola sia rimasto oscuro e permangano dubbi che non sia stato possibile dissipare a seguito dell'indagine interpretativa condotta secondo le altre regole fondamentali legali e razionali (cfr. Cass. 5 agosto 2005, n. 16549, pur se riferita all'interpretazione delle disposizione contrattuali collettive di diritto comune).
Infine, i giudici di legittimità hanno evidenziato che anche l'ulteriore principio ermeneutico dell'equo contemperamento degli interessi delle parti, invocato dal ricorrente, era stato nella sostanza correttamente applicato laddove è stata esclusa ogni compromissione, da parte del vincolo, dell'attività successiva del ricorrente, ed è stata ritenuta la congruità economica del patto in questione.

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