Contenzioso

La natura dell’indennità per il lavoro all’estero

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Sul termine di impugnazione giudiziale del licenziamento
Natura retributiva del trattamento estero
Nozione di ramo d'azienda dematerializzato


Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 21 agosto 2018, n. 20879

Pres. Manna; Rel. Tria; P.M. Matera; Ric. B.V.; Controric. I.N.P.S.

Licenziamento per giusta causa - Art. 4 Stat. Lav. - Controllo dei transiti tramite badge - Legittimità - Condizioni

Il divieto di cui all'art. 4 Stat. Lav. riguarda l'attività di sorveglianza effettuata con sistemi idonei al controllo a distanza dell'attività lavorativa e non è quindi applicabile al sistema attraverso il quale sono gestiti gli accessi negli uffici, qualora sia utilizzato per indagare su comportamenti illeciti esterni posti in essere da un funzionario infedele.

NOTA
La Corte di Appello di Palermo, in riforma della pronuncia del giudice di primo grado, rigettava il ricorso di impugnazione del licenziamento disciplinare irrogatogli dall'istituto previdenziale alle cui dipendenze aveva prestato servizio.
A fondamento della propria decisione la Corte territoriale rilevava che, rispetto alla attività di CTU svolta per anni dal dipendente in cause promosse da terzi nei confronti dell'istituto previdenziale, era emersa una “ridda di omissioni e coperture” volta a celare la posizione di conflitto di interessi del ricorrente il quale, all'epoca del licenziamento, rivestiva l'incarico di ispettore di vigilanza addetto al controllo del lavoro sommerso in agricoltura.
La Corte territoriale evidenziava che il dipendente non solo aveva violato l'originaria autorizzazione allo svolgimento di attività extra–ufficio rilasciata nel 2009, ma aveva anche nascosto all'Autorità Giudiziaria ed alle parti delle cause in cui era CTU di trovarsi in conflitto di interessi.
I giudici di appello evidenziavano altresì che, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, nella specie non era ravvisabile alcuna decadenza dall'esercizio dell'azione disciplinare, tenuto conto che soltanto a seguito degli accertamenti avviati in occasione della richiesta di rinnovo dell'autorizzazione per lo svolgimento dell'attività extra-ufficio presentata dall'interessato, il Direttore regionale aveva appreso, con un apprezzabile grado di completezza, la notizia dei fatti disciplinarmente rilevanti ascrivibili al dipendente.
Con riguardo all'attività di ricerca e riscontro incrociato avente ad oggetto le giornate in cui il dipendente aveva modo di trovarsi “ubiquamente” come CTU presso il Tribunale di Termini Imerese in orario mattutino, presso il suo studio medico in orario pomeridiano e contestualmente in missione per ragioni di servizio, dalle ore 7 alle ore 21, percependo il trattamento di missione e finanche il compenso per lavoro straordinario, i giudici di secondo grado rilevavano che dagli atti era emerso come nelle giornate di “missione” - in contrasto con le istruzioni impartite al personale - il dipendente era solito servirsi del pass visitatori per entrare negli uffici dell'istituto previdenziale.
La Corte territoriale riteneva, infine, non pertinente l'eccezione relativa alla non utilizzabilità dei controlli eseguiti sui transiti ai tornelli visitatori, in quanto il divieto di cui all'invocato art. 4 Stat. Lav. riguarda l'attività di sorveglianza effettuata con sistemi idonei al controllo a distanza dell'attività lavorativa e non è quindi applicabile al sistema attraverso il quale sono gestiti gli accessi negli uffici - nella specie in quelli della sede di appartenenza del lavoratore -, utilizzato per indagare su attività esterne poste in essere da un funzionario infedele.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su diciannove motivi.
In particolare, il dipendente lamentava che erroneamente la Corte territoriale, in assenza di attività istruttoria, aveva considerato rispettato il principio di tempestività e immediatezza della contestazione disciplinare, senza dare rilievo alle reiterate contestazioni avanzate dall'interessato in ordine al momento in cui l'istituto aveva avuto conoscenza dell'accaduto, così ledendo il diritto di difesa del ricorrente.
Il dipendente denunciava, inoltre, un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili sul punto della sussistenza di una situazione di “clamorosa incompatibilità” del dipendente con riguardo all'attività di CTU svolta per anni nell'ambito delle cause assistenziali proposte nei confronti dell'istituto previdenziale, sostenendo che l'affermazione della suddetta “clamorosa incompatibilità” si ponesse in inconciliabile contrasto con quella della presenza dell'originaria autorizzazione del 2009 allo svolgimento di attività extra-ufficio, che avrebbe escluso detta incompatibilità.
Il ricorrente denunciava, infine, violazione e falsa applicazione dell'art. 4 Stat. Lav. - nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 151 del 2015 - per avere la Corte territoriale ritenuto che il divieto del controllo dei lavoratori riguardasse soltanto i sistemi idonei al controllo a distanza dell'attività lavorativa e non fosse quindi applicabile al sistema attraverso il quale sono gestiti gli accessi negli uffici, nella specie in quelli della sede dell'istituto previdenziale di appartenenza del lavoratore.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
Con riferimento alla censura concernente la violazione e falsa applicazione dell'art. 4 Stat. Lav., la Suprema Corte ha rilevato che la statuizione della Corte d'appello risultava sul punto del tutto conforme ai consolidati e condivisi indirizzi della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 27 maggio 2015, n. 10955), secondo cui i controlli dei lavoratori finalizzati non già a verificare l'esatto adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro, ma a tutelare beni del patrimonio aziendale ovvero ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti, sono fuori dallo schema normativo del citato art. 4 Stat. Lav., ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l'interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi.
La rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall'azienda mediante un'apparecchiatura predisposta dal datore di lavoro (nella specie, un badge elettronico) se non concordata con le rappresentanze sindacali, né autorizzata dall'Ispettorato del lavoro è illegittima ai sensi dell'art. 4, comma 2, della legge n. 300 del 1970 se si risolve in un accertamento sul “quantum” dell'adempimento, dovendosi escludere che l'esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti — in contrasto con i doveri di diligenza — possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore (Cass. 13 maggio 2016, n. 9904; Cass. 17 luglio 2007, n. 15892).
Applicando tali principi al caso di specie la Suprema Corte ha rilevato che la fattispecie in esame rispettava i suddetti limiti e si poneva al di fuori del campo di applicazione dell'art. 4 Stat. Lav..
Ed infatti, l'istituto previdenziale, nel corso delle indagini volte ad accertare la complessiva e articolata attività illecita posta in essere dal dipendente, ha posto in essere una attività di controllo relativa all'utilizzazione del c.d. pass visitatori, abusivamente adoperato dal dipendente, non per controllarne l'attività lavorativa più propriamente detta e il suo esatto adempimento, ma per completare le indagini relative ad attività illecite poste in essere da un “funzionario infedele”. Si è trattato di un controllo ex post, di cui è stata indispensabile l'effettuazione per completare il quadro di tutte le condotte scorrette che sono state poi poste alla base dell' impugnato licenziamento.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 17 agosto 2018, n. 20761

Pres. Napoletano; Rel. De Gregorio; P.M. Celeste; Ric. S.F.; Controric. P. S.p.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione - Configurabilità - Onere del datore di comunicare al lavoratore l'approssimarsi del superamento - Configurabilità - Esclusione.

In caso di recesso del datore di lavoro dovuto ad assenze per malattia del lavoratore, la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento; ne consegue che non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore della durata complessiva della malattia e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, il datore di lavoro non è tenuto ad avvisare il lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto.

NOTA
Il Tribunale di Patti rigettava la domanda proposta dal lavoratore diretta ad ottenere la declaratoria d'illegittimità del licenziamento intimato dalla società per superamento del periodo di comporto. La Corte di Appello di Messina confermava la sentenza del Tribunale rigettando il gravame proposto dal lavoratore.
Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore contestando alla società di non avergli comunicato e quindi reso esercitabile, tra gli altri, il diritto, previsto dal comma 15 dell'articolo 40 del CCNL applicato, di richiedere un periodo di aspettativa.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione nella fattispecie di recesso del datore di lavoro per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; ne consegue che non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cosiddetto esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto. Tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere l'obbligazione.
Per le ragioni di cui sopra, nel caso concreto, la Suprema Corte ha ritenuto legittima la condotta della società e il licenziamento comunicato al lavoratore.

Sul termine di impugnazione giudiziale del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 22 giugno 2018, n. 16591

Pres. Manna; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. N.A.; Controric. O.F.I.D.M.S.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Impugnazione - Decadenza - Atto scritto di un'organizzazione sindacale - Contestuale impugnazione a mezzo difensore munito di procura - Decorrenza del termine di impugnazione giudiziale - Fattispecie.

In materia di licenziamenti individuali, il termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento di cui all'art. 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, può essere interrotto con atto scritto, oltre che del lavoratore, anche di un'organizzazione sindacale, senza che sia necessario il conferimento di una procura “ex ante” o la ratifica successiva da parte del lavoratore, dovendosi ritenere il sindacato idoneo a valutare gli interessi del lavoratore. Tuttavia, qualora entro lo stesso termine di legge, il lavoratore abbia avanzato autonoma impugnazione, personalmente o a mezzo di difensore munito di mandato speciale, il successivo termine di decadenza per proporre il ricorso giudiziale non potrà che decorrere da tale ultima impugnazione, in relazione alla quale vi è la certezza della cognizione da parte dell'interessato.

NOTA
Il caso di specie riguarda il ricorso promosso da un dipendente al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dal proprio datore di lavoro. Il ricorso veniva rigettato dai giudici di merito a causa dell'intervenuta decadenza rispetto al termine di impugnazione giudiziale del licenziamento.
In particolare, la Corte d'Appello di Bologna, confermando la sentenza di primo grado, riteneva che l'impugnazione stragiudiziale del licenziamento effettuata a mezzo di un'organizzazione sindacale (pur in assenza della prova di una effettiva conoscenza da parte del lavoratore) dovesse essere a tutti gli effetti equiparata a quella compiuta direttamente dal dipendente in questione, rendendo quindi irrilevante la seconda impugnazione inoltrata da quest'ultimo a mezzo del proprio difensore. Conseguentemente, il termine di decadenza per il deposito del ricorso giudiziale doveva decorrere dalla prima impugnazione e, nel caso di specie, non era stato rispettato.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha rilevato innanzitutto che, il dato letterale della norma di riferimento (art. 6, L. 604/1966) prevede che l'impugnazione del licenziamento debba avvenire con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
Sul tema, inoltre, è già intervenuta la giurisprudenza di legittimità, specificando - proprio con riferimento all'atto inoltrato a mezzo dell'organizzazione sindacale - che non è necessario il conferimento di una procura ex ante o la ratifica successiva da parte del lavoratore, dovendosi ritenere il sindacato idoneo a valutare gli interessi dello stesso (Cass. n. 26514/2013).
Ciò premesso, la Corte di Cassazione ha rilevato che tale principio debba tuttavia essere specificato in relazione ad una fattispecie, quale è quella del caso di specie, in cui vi sono state due impugnative stragiudiziali, entrambe proposte nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento, di cui una dell'organizzazione sindacale, senza che vi sia la prova della conoscenza del lavoratore, e l'altra, formulata dal difensore - munito di procura speciale - del lavoratore stesso. Il problema di diritto che si pone, al fine di accertare la correttezza della statuizione della Corte di merito, è infatti quello di stabilire da quale delle due impugnazioni debba decorrere il termine di decadenza per la successiva proposizione del ricorso giudiziale entro il successivo termine di centottanta giorni.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha concluso che l'organizzazione sindacale è sì idonea a valutare gli interessi del lavoratore iscritto e a proporre, nel suo interesse e a prescindere dalla conoscenza di questi, l'impugnativa del licenziamento entro il termine di sessanta giorni, ma qualora entro lo stesso termine di legge il lavoratore abbia avanzato autonoma impugnazione, personalmente o a mezzo di difensore munito di mandato speciale, il successivo termine di decadenza per proporre il ricorso giudiziale non potrà che decorrere da tale ultima impugnazione, in relazione alla quale vi è la certezza della cognizione da parte dell'interessato; ciò al fine di garantire il pieno ed effettivo esercizio del diritto del lavoratore alla tutela giudiziaria.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha rilevato che la Corte di merito è incorsa nella violazione e falsa applicazione della norma de quo e, conseguentemente, ha concluso per la cassazione della sentenza.

Natura retributiva del trattamento estero

Cass. Sez. Lav. 27 luglio 2018, n. 20011

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Fresa; Ric. T.M.; Controric..B.M.P.S. s.p.a.;

Trattamento estero - Spese alloggio - Natura retributiva o risarcitoria - Valutazione in concreto delle esigenze sottese all'erogazione

Il trattamento estero ha natura retributiva tanto in presenza di una funzione compensativa della maggiore gravosità e del disagio morale e ambientale, quanto nel caso in cui sia correlato alle qualità e condizioni personali concorrenti a formare la professionalità indispensabile per prestare lavoro fuori dei confini nazionali, mentre ha natura riparatoria il rimborso spese per la permanenza all'estero, che costituisce la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale derivante da una spesa effettiva sopportata dal lavoratore nell'esclusivo interesse del datore.

NOTA
La Corte d'Appello di Firenze ha accolto parzialmente l'appello principale di un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale di Siena che, dopo aver condannato la società a corrispondergli, quale differenza TFR, la quota maturata a titolo di indennità estero, aveva escluso, invece, da tale computo, il rimborso delle spese relative all'alloggio. La sentenza è stata impugnata anche dalla società in via incidentale, chiedendosi il rigetto dell'intera domanda svolta dal dipendente in primo grado in virtù dell'asserita natura risarcitoria e non retributiva di tutte le componenti dell'indennità estero.
La Corte di merito ha respinto l'appello incidentale rilevando che, nel caso in esame, la corresponsione dell'indennità estero era legata alla maggiore professionalità ed ai maggiori costi e disagi personali del lavoro svolto dal dipendente fuori dall'Italia ed ha confermato la sentenza appellata laddove ha escluso la natura retributiva dell'indennità alloggio, ritenendo che il contributo erogato dalla datrice costituiva un mero rimborso delle spese che il lavoratore era tenuto a sopportare per esigenze abitative proprie e della famiglia.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il dipendente, affidato a due motivi, e la società ha resistito con controricorso.
La Suprema Corte esamina congiuntamente i motivi e li rigetta entrambi affermando il principio di cui alla massima, già sancito in recenti precedenti (Cass. 22 luglio 2016, n. 15217). La Cassazione precisa che i rimborsi delle spese sostenute nell'interesse del datore per la permanenza all'estero sono normalmente collegati ad una modalità della prestazione lavorativa richiesta per esigenze straordinarie e, come tale, priva dei caratteri della continuità e determinatezza (o determinabilità) e fondata su una causa autonoma rispetto a quella retributiva, pertanto non vanno computati ai fini del TFR. Precisa, altresì, la Suprema Corte che, ove il contratto giustifichi l'erogazione delle somme facendo riferimento non al valore professionale della prestazione, ma ai maggiori esborsi che il lavoratore deve sopportare per trasferirsi o per soggiornare all'estero insieme alla famiglia, grava sul lavoratore l'onere di provare che esse non siano riconducibili alla funzione di rimborso spese (Cass. 22 novembre 2010, n. 23622). Tale accertamento è, inoltre, riservato al giudice del merito, dovendosi compiere una valutazione di una serie di elementi collegati alla condizione del lavoratore, alla continuità e comunque alla modalità di corresponsione delle somme erogate a tale titolo, ovvero di tutte circostanze di fatto oggetto di indagine inerenti la concreta fattispecie e dalle quali dipende la qualificazione retributiva o risarcitoria delle spese - ivi comprese quelle di alloggio inerenti il giudizio in esame - sostenute dal lavoratore all'estero.
La Suprema Corte rigetta, quindi, il ricorso del dipendente, ritenendo che la Corte di merito, nel negare la natura retributiva del contributo alloggio, si sia adeguata a tali principi, avendo riscontrato che l'erogazione era connessa ad esigenze abitative proprie del dipendente e della famiglia e non presentava elementi collegabili al valore ed al peso della prestazione o al maggior disagio che la diversa residenza comportava rispetto a quella abituale.

Nozione di ramo d'azienda dematerializzato

Cass. Sez. Lav. 28 agosto 2018, n. 21264

Pres. Nobile; Rel. Cinque; P.M. Matera; Ric. T.I. S.p.A.; Controric. A.I.;

Trasferimento ramo d'azienda – Nozione – Rapporti di lavoro organizzati allo svolgimento di una attività economica – Legittimità – Onere della prova.

È legittima la cessione, come ramo d'azienda, di una struttura dematerializzata costituita prevalentemente da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo, anche potenzialmente, allo svolgimento di una attività economica, a condizione che i lavoratori ceduti costituiscano un gruppo coeso per professionalità, con precisi legami organizzativi preesistenti alla cessione e specifico know-how tali da individuarli come una struttura unitaria funzionalmente idonea e non come mera sommatoria di dipendenti.
Incombe sul datore di lavoro che intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c. fornire la prova che i lavoratori ceduti facessero parte del ramo ceduto.

NOTA
Una dipendente agiva in giudizio avanti al Tribunale di Roma per sentir accertare l'illegittimità della cessione del ramo d'azienda a cui era stata assegnata, il diritto ad un inquadramento superiore nonché il risarcimento dei danni subiti. A sostegno di tali domande, la ricorrente contestava di appartenere alla struttura trasferita poiché, in qualità di addetta alla logistica, svolgeva attività di supporto amministrativo per servizi e progetti relativi sia al ramo ceduto, sia a quello rimasto in capo al cedente.
Il Tribunale rigettava integralmente le domande della lavoratrice.
La Corte d'Appello, in riforma parziale di tale decisione, accertava l'illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda, condannando la convenuta all'immediato ripristino del rapporto di lavoro, con reintegrazione nelle precedenti mansioni, nonché al pagamento delle differenze retributive.
La Corte territoriale concludeva per l'illegittimità del trasferimento in ragione del brevissimo intervallo di tempo intercorso tra la ristrutturazione e la cessione, tale da escludere che il ramo trasferito potesse essere una struttura dotata di apprezzabile autonomia organizzativa ed economica. Veniva altresì riscontrata la mancanza di un criterio, conforme ai principi di buona fede e correttezza, per la suddivisione del personale tra il ramo ceduto e quello rimasto al cedente e, comunque, la carenza di prova, da parte dell'azienda, del fatto che la ricorrente facesse parte del ramo oggetto di cessione.
Avverso tale decisione il datore di lavoro ricorreva in Cassazione; la lavoratrice resisteva con controricorso.
Tra gli altri motivi di ricorso, l'azienda lamentava, da un lato, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 c.c. in merito alla nozione di ramo d'azienda adottata dai giudici di secondo grado e, dall'altro, il fatto che la Corte d'Appello avesse erroneamente posto a suo carico la prova che la lavoratrice facesse parte del ramo trasferito.
Con riferimento alla nozione di ramo d'azienda, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio di diritto (già espresso, tra le altre, da Cass. 5678/2013) secondo cui è legittima la cessione ex art. 2112 c.c. di una struttura costituita in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo, anche potenzialmente, allo svolgimento di una attività economica, a condizione che i lavoratori ceduti costituiscano un gruppo coeso per professionalità, con precisi legami organizzativi preesistenti alla cessione e specifico know-how tali da individuarli come una struttura unitaria funzionalmente idonea.
La Suprema Corte ha poi confermato che incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c., che derogano al principio del necessario consenso del contraente ceduto ex art. 1406 c.c., fornire la prova dell'esistenza dei relativi requisiti di operatività (principio già affermato da Cass. 11247/2016). Nel caso di specie, quindi, la Corte d'Appello aveva correttamente addossato all'azienda l'onere di provare che la dipendente facesse parte del ramo ceduto. A tal fine, è stata considerata irrilevante la circostanza che la ricorrente svolgesse mansioni fungibili, cioè riferibili sia al ramo ceduto, sia a quello rimasto in capo al cedente, poiché tale circostanza era idonea semplicemente a dimostrare che la stessa non fosse di esclusiva pertinenza del ramo trasferito.

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